Sempre così

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Francesco Dall'Ongaro

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SEMPRE COSÌ




BALLATA

FRANCESCO DALL'ONGARO



I.


Era bella, era bionda, era pudica,
Nel fior degli anni, e nell’april del core.
Le danzavano intorno in vista amica
Tutte le care illusïon d’amore.
Qual fior che nasce in verde piaggia aprica5
Di rugiade contento, e di splendore,
Parea creata per esser felice.....
Un dì la Fame le si accosta e dice:
Non ti lusinghi l’età novella.
Tu non sei nata per il piacer.10
Invan sei bionda, pudica e bella,
Indarno danzi con piè legger.
Veglia e lavora, paga il tuo pane,
Da mane a sera, da sera a mane.
Veglia e lavora sempre così15
Fino alla fine de’ tuoi brevi dì.
Sempre così.

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Ma l’opra assidua le bastava appena
Al pan del giorno e a la pigion del mese.
A poco a poco le scemò la lena.20
Ed un arcano brividìo la prese.
Come fior peregrino alla serena
Aura rapito e al sol del suo paese,
Chiusa in angusta e solitaria cella.
Illanguidì la giovanetta bella.25
Ah! se potesse almeno ai dì festivi,
Quando declina ad occidente il sole,
Irne colle compagne ai verdi clivi
Girar sull’erba in rapide carole.
Ah! se potesse pria che ’l verno arrivi30
Il profumo aspirar delle viole!...
Ma lo spettro fatal che la persegue
Sulla porta l’arresta, e a dir le segue:
Per te non corre feria nè festa,
Ogni tuo giorno sacro è al lavor.35
La nostra vita non è contesta
Che di fatica, che di sudor.
Veglia e lavora, paga il tuo pane,
Da mane a sera, da sera a mane.
Veglia e lavora sempre così40
Fino alla fine de’ tuoi brevi dì.
Sempre così!

Un dì che all’opra venne meno il nerbo,
E giacque inferma sul solingo letto,
Vendè la veste che teneva in serbo,45
Impegnò la collana e il braccialetto.
Il sacrificio ben lo seppe acerbo,
Ch’era un pegno d’amor del suo diletto,
Del suo diletto che un destin simile
Trasse a servir tra mercenarie file.50
Quando lasciò le piume, e scarna e smunta
Tornò all’ingrato esizïal lavoro,

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Non avea che una veste ornai consunta,
E il biondo crine, unico suo tesoro.
Nell’estremo squallore in ch’era giunta,55
Bella era ancor de’suoi capelli d’oro.....
L’immonda arpia le disse alla dimane:
Dammi il tuo crine, io ti darò del pane.
Chi nasce al mondo povero d’oro,
Venda a’ più ricchi la sua beltà;60
Chi giorno e notte passa al lavoro,
Di lunghe trecce d’uopo non ha.
Veglia e lavora, paga il tuo pane.
Da mane a sera, da sera a mane.
Veglia e lavora sempre così65
Fino alla fine de’ tuoi brevi dì.
Sempre così!

Tornò il suo damo, fatti i suoi cinqu’anni,
Memore ancora dell’antico amore.
Vide del tempo e dell’inedia i danni,70
E divinò ciò che non par di fuore.
Taciti si guardaro e i propri affanni
Sfogaro entrambi in un comun dolore,
Ch’eran soli ambidue, senza parenti,
Dal duolo affratellati e dagli stenti.75
Oh! s’egli fosse ancor qual era innante,
Giovane e forte a maneggiar la scure!
Ma lunga febbre le sue membra ha frante,
Nè la man più gli regge all’opre dure!
Miseri entrambi, almeno un breve istante80
Sia lor dato obbliar le lor sventure,
E in un bacio d’amor morir congiunti.....
Ma l’arpia li persegue, e li ha raggiunti:
Troppo è di prole fìtta la terra,
Per voi l’amore fatto non è.85
Ciò che non miete provvida guerra,
Spegna l’inedia col lento piè.

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Veglia e lavora, paga il tuo pane,
Da mane a sera, da sera a mane.
Veglia e lavora sempre così90
Fino alla fine de’ tuoi brevi dì.
Sempre così!

Ma più della miseria e della fame
Può la voce del cor che regge il mondo.
Quelle due sventurate anime grame95
Sentiro il tocco d’un amor profondo.
E sciolto il freno all’amorose brame
Uscir’congiunti dal tugurio immondo,
E lungo il fiume, sotto il cielo azzurro,
Errar’del vento e dell’acqua al susurro.100
Nei propinqui palagi ardono intanto
Ricchi doppieri e profumate faci:
S’alternano le danze al lieto canto,
Scoppiano i motti, le lusinghe, i baci.
Copre la notte col discreto ammanto105
Liete venture, e voluttà procaci.
Copre costì la colpa ornata d’oro,
Qui il dolore incompianto e il van lavoro.
Il dì seguente ai primi albor del giorno,
Mentre l’ultimo cocchio iva sonante,110
II cantoniere che vegliava intorno
Vide sull’acqua un non so che natante.
Eran due corpi che travolti andorno,
Dalla corrente, un uomo ancora aitante,
E al suo collo avvinghiata una donzella115
Pallida, e nella morte ancor più bella.
Furon tratti dall’onda, e furo esposte
Le ignote salme con pietosa cura.
Anzi alla bara dove furon poste
Sorgeva immota un’invida figura,120
Le mani adunche, le chiome scomposte,
E la sembianza avea beffarda e scura.

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Volta alla gente che a mirar s’appressa,
Dicea con voce ipocrita e sommessa:
Ozio e lascivia li trasse a morte:125
E nel peccato l’alma spirar.
Son degni entrambi della lor sorte.
Popolo incauto non gl’imitar!
Veglia e lavora, paga il tuo pane,
Da mane a sera, da sera a mane.130
Veglia e lavora sempre così
Fino alla fine de’ tuoi brevi dì.
Sempre così!


II.


Sempre così? — Ricada
L’orribile blasfema135
Sul capo a chi parlò!
La fame, il duol, la spada,
Onde la vita è scema
Perdona a chi passò.
Sacra è la morte, e monda140
Col freddo bacio ogni orma
De’ nostri brevi error.
Una virtù profonda
Rinvergina e trasforma
La stessa tabe in fior.145
Uomo non è chi turba
Quella funerea pace
Che su que’ volti sta!
Spira all’afflitta turba
Da quel labbro che tace150
Un senso di pietà.
Tolta alla cieca sorte
Sarà la benda antica,
E sarà legge il ver.

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No: — non per sempre il forte155
Raccoglierà la spica
Sopra il non suo poder.
Giusto siccome il sole
Dispensator di vita
E di speranze è il suol.160
Sulle sudate ajuole
La turba che la trita
Non dee languir nel duol.
Splenda per tutti un raggio
D’amor! Ad ogni fronte165
Serbi la terra un fior.
Moviamo al gran viaggio
Coll’alme aperte e pronte.
Colla letizia in cor.
Moviam come fratelli170
Strette le destre, uniti
In un comun desir:
E spunteran più belli
Dopo i dolor patiti
I dì dell’avvenir.175


15 dicembre 1859.