Sino al confine/Parte I/Capitolo I

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Parte I Parte I - Capitolo II
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I.


Nel luglio del 1890 Gavina Sulis finì i suoi studi.

Suo padre, ex-impresario di strade comunali, uomo abbastanza intelligente, le aveva fatto ripetere la quarta classe elementare, perchè nella piccola città non v’erano altre scuole femminili.

Il giorno degli esami ella se ne tornava a casa pensando che oramai erano finiti per lei i giorni di libertà e d’ozio. Aveva quasi quattordici anni; si credeva già una donna matura, e ricordava le parole del suo confessore:

«Il Signore ha detto che la donna deve custodire la casa, fuggire l’ozio e le cattive compagnie».

Riguardo alle «compagnie» ella sfuggiva non solo le cattive, ma anche le buone; e imitava appunto il suo confessore che andava sempre solo, a occhi bassi, rasente ai muri. [p. 2 modifica]

Arrivata in fondo alla strada, ella si volse un momento e guardò l’antico monastero dov’erano le scuole, e la valle melanconica, coperta di olivastri e di peri selvatici, e sospirò.

Addio! Forse passeran degli anni prima ch’ella riveda la valle selvaggia, la strada solitaria, la facciata nera e grigia della scuola. La sua casa sorgeva all’altra estremità del paese, quasi sotto la montagna, sull’orlo di un’altra valle, coltivata in parte, questa, verde e grigia di vigne e d’oliveti. Per arrivare a casa, Gavina dunque doveva attraversare tutta la piccola città, il Corso e le viuzze dietro il Corso.

Ella preferì queste ultime, perché aveva paura e vergogna di attraversare il Corso, di esser veduta dagli studenti, dai borghesi, e peggio ancora, dagli ufficiali che stazionavano davanti al Caffè della Posta o nella piazza del Mercato. Questi personaggi rappresentavano per lei il mondo, il peccato. Ella palpitava incontrandoli; ma le pareva di peccare solo perchè la vita, col suo ardente soffio, le passava accanto, nascosta nei modesti panni d’uno studentello o d’un impiegato di Sotto-prefettura. Per evitare questi pericolosi incontri attraversò dunque le straducole mal selciate, ove non s’incontrava che qualche paesana vestita di rosso e di nero, qualche pastore a cavallo, qualche contadino che ritornava dalle messi, col carro carico di paglia o di [p. 3 modifica]frumento. Era quasi mezzogiorno; l’aria odorava di stoppie, e negli sfondi delle viuzze, tra le casette di pietra, le montagne coperte di vapori azzurrognoli si confondevano col cielo metallico, infocato. I muri scottavano. Gavina non aveva ombrello nè cappello; ma un fazzoletto di seta, annodato con una certa civetteria sull’orecchio sinistro, le avvolgeva la testa, facendo risaltare il pallore olivastro del suo viso dal profilo duro. E il suo viso scuro e triste aveva quasi un’espressione ascetica; ma quando sotto le folte sopracciglia nere le larghe palpebre bluastre si sollevavano lentamente, dai grandi occhi turchini sfavillava un raggio di passione e di gioia. Quei due occhi profondi, pieni di luce, davano l’idea di due squarci di cielo azzurro in un giorno di nuvole.

Del resto, in tutta la sua persona si notava qualcosa di rozzo e di aristocratico insieme: la sua camicetta d’indiana turchina, la gonna larga e lunga, le scarpe a legacci, erano da paesana più che da borghese; ma le mani e i piedi erano piccoli, e il portamento di lei, e specialmente la testa gettata all’indietro, la fronte ferma e pura sotto i bei capelli nerissimi rialzati, rivelavano una creatura di volontà e di fierezza.

Arrivata in fondo a una strada in salita, ella s’inchinò lievemente, facendosi il segno della croce. Si vedevano, su un’altura, le torri grigiastre della Cattedrale. La via più breve, [p. 4 modifica]per arrivare a casa, era la strada che passava davanti alla vecchia chiesa; Gavina preferì attraversare un viottolo, poi un tratto dello stradale che correva tra la valle e la montagna, e risalì una viuzza stretta fra casupole che parevano cumuli di pietre.

La strada selciata ove sboccava la viuzza era quasi di esclusiva proprietà dei Sulis. Di qua e di là sorgevano le case e i muri dei cortili di questa gente industriosa e fortunata. Anche le donne di casa Sulis si facevano onore. Una, la zia Itria, vedova e senza figli, comprava e rivendeva orzo e frumento: la sua casa grigia, in principio della strada, segnava il confine tra questa e la viuzza abitata esclusivamente da pastori e contadini poveri. Un’altra zia di Gavina possedeva due case, una turchina e l’altra rosea, in fondo alla strada, a fianco della chiesetta di San Gavino. Un canonico Sulis abitava più in qua; la sua casa però, modestissima, ricordava le misere abitazioni dei contadini poveri, ai quali egli, pure parlandone male e spesso ingiuriandoli, prestava i suoi denari senza mai riaverli.

Passando davanti alla casa della zia Itria, Gavina guardò attraverso alla porta spalancata e salutò colla mano. In fondo a un andito ingombro di sacchi pieni di grano si vedeva un cortile stretto come un pozzo: una donna piccola e obesa, dal viso grasso e dal naso schiacciato, bucato dal vajuolo, sedeva [p. 5 modifica]nel cortiletto, davanti a un tavolino senza tovaglia, e mangiava tranquillamente.

Gavina passò oltre, si fermò davanti alla sua casa gialla, alta e nuova, e battè forte la mano di ferro applicata come battente alla porta di legno scuro sormontata da una lunetta di vetri. I colpi echeggiarono nell’interno della casa che pareva deserta, e solo dopo qualche tempo apparve una vecchia serva in costume del paese, una donna che in gioventù doveva essere stata molto bella perchè il suo viso, sebbene già molle, si conservava roseo e dolce, e i suoi occhi castanei, circondati di rughe, scintillavano ancora.

— Hai fatto tutto bene? — domandò subito con premura — Le han proprio chiuse oggi le scuole?

— Ma sì; — rispose Gavina con indifferenza — Mangiate già?

Nella stanza a sinistra dell’andito fresco e silenzioso, i suoi genitori sedevano già a tavola. Ella attaccò la borsa a un chiodo e andò a sedersi accanto al posto vuoto del fratello Luca.

L’ex-impresario e sua moglie parlavano appunto del loro primogenito, lamentandosi perchè la notte scorsa egli non era rientrato a casa. La madre, naturalmente, lo scusava.

— Tu non vuoi ch’egli prenda la chiave: si vede che ieri sera ha fatto tardi e non ha osato picchiare. Speriamo che non lo faccia più! [p. 6 modifica]

— Oh, se egli continua così, io prenderò qualche serio provvedimento! — disse il signor Sulis, con voce dolce ma ferma. — Non ho peccati da scontare, io, perchè possa rassegnarmi ad aver un figlio fannullone, ubriacone, malandato! Egli non ha voluto studiare: voleva fare il proprietario, l’agricoltore, il prete! E invece fa il vizioso! La finirà male!

Allora la madre sollevò il viso triste e severo, che rassomigliava a quello di Gavina, e corrugò le folte sopracciglia nere.

— Luca è giovane: metterà giudizio. Egli non è cattivo: è religioso, è timoroso di Dio: non è un ladro, non è un donnajuolo perchè debba finirla male!

— Meglio ladro che ubbriacone.... meglio.... — disse il vecchio; ma non finì la frase per riguardo a Gavina. Del resto, egli non era troppo in collera: il suo viso di vecchio grasso e bonario (aveva quasi vent’anni più di sua moglie) e i suoi occhietti grigi e vaghi come quelli dei bimbi lattanti, conservavano la solita espressione di bontà ingenua. Alzò la voce solo quando la serva, che entrava portando in un piatto di stagno il bollito di montone, si permise anche lei di difendere Luca.

— Bisogna compatire la gioventù, padrone! Chi non è stato giovane? Luca non fa male a nessuno.

— Egli fa del male a sè stesso! E tu da’ retta a me, Paska: ficcati nei fatti tuoi! [p. 7 modifica]

Le donne tacquero, ma Paska si asciugò gli occhi, e la signora Zoseppa mise da parte una grossa porzione di bollito per Luca.

Gavina mangiava e taceva. Era abituata a queste piccole scene; ma nel suo intimo, senza osare di contraddire sua madre per la quale sentiva un eccessivo rispetto, dava ragione a suo padre. Ella non amava Luca. Erano stati allevati come due estranei. Il padre, allora immerso negli affari, non s’era curato di loro; e la madre li educava come era stata educata lei, conducendoli con sè in chiesa, e in casa tenendoli separati, insegnando loro che San Luigi non osava guardare sua madre perchè questa era una donna. I rapporti tra fratello e sorella erano quindi poco amichevoli: Luca aveva più d’una volta bastonato Gavina, e Gavina lo aveva più d’una volta graffiato! Ora non si bastonavano più, ma se Gavina pensava a Luca sentiva come un malessere, un senso di oppressione.

Nel silenzio che seguì alle ultime parole di suo padre, ella ripetè fra sè la triste profezia: — egli la finirà male.... — ma subito si distrasse, perchè i suoi genitori cominciarono a discutere su una cosa che la riguardava in modo speciale. Doveva o no Gavina, ora che i suoi studi erano finiti, indossare il costume del paese, come sua madre e le sue zie? La madre era per il costume: il padre no. Egli vestiva in borghese, e voleva che Gavina [p. 8 modifica]conservasse anche lei quei suoi vestiti fra di paesana e di signora, adatti ad una fanciulla per bene e che costavano poco.

Egli riuscì a convincere sua moglie; e Gavina, che non doveva avere alcuna ingerenza nè su questa, nè su altre questioni, non fu interpellata. Ma ella non si ribellava mai alle decisioni di suo padre; anzi, mentre non osava fissare gli occhi severi di sua madre, rispondeva sorridendo allo sguardo infantile del signor Sulis e aveva una completa fiducia in lui.

Appena i suoi genitori si ritirarono per far la siesta nella loro camera al primo piano, anche lei andò a spogliarsi, ma non si coricò. La sua camera, all’ultimo piano, era vasta e quasi vuota, con le pareti tinte di calce e il soffitto di legno grigio; solo ornamento, sopra il cassettone, un antico orologio d’ebano, con due colonnine d’alabastro che sostenevano un giardinetto pensile, sulle cui roselline gialle e rosse, sbiadite, si vedevano minuscole farfalle dorate, e strane api verdi iridate che pareva non si saziassero mai di succhiare i fiori su cui posavano. Contemplando per ore ed ore il vecchio orologio che non batteva più, Gavina aveva finito col credere che tutti i giardini del mondo fossero pieni di rose sbiadite e di api iridate.

Ella aprì la finestra che dava sull’orto e s’appoggiò al davanzale ancora caldo di sole; [p. 9 modifica]sotto di lei stendevasi il tetto della cucina, coperto di ciuffi d’erba secca e di rami di vite sfuggiti al pergolato sottostante, e più giù l’orto invaso da una vegetazione tropicale. Fra le distese di cavoli grigi, corrosi dai bruchi, accanto al muricciuolo a secco, al di là del quale v'erano altri orticelli e cominciavano i declivi della vallata, un elce alto e solitario dava a Gavina l’idea di un esule cacciato via dai boschi della montagna. Gruppi di casette nere, che pareva si sostenessero le une con le altre per non cadere nella valle, si delineavano a destra dell’orto; e sul suo promontorio grigio la cattedrale scura dominava il paesaggio.

Gli occhi di Gavina non si fermavano in basso: guardavano l’orizzonte, del cui splendore parevano soffusi. Montagne di granito e di calcare, e più in là di schisto e di manganese, cerulee e rosee al mattino, rosse e violacee al tramonto, velate di vapori cinerei in quell’ora calda del meriggio, chiudevano l’orizzonte come ciclopiche muraglie in rovina.

I profili più lontani, vaghi e quasi diafani come nuvole e che apparivano bianchi di neve per tre quarti dell’anno, conservavano ancora, sulle cime più alte, come dei cappucci di madreperla.

Ella fissava sempre, quasi affascinata, quell’orizzonte così chiaro da parer argenteo. Sapeva che dietro la muraglia delle montagne [p. 10 modifica]si stendeva il mondo, coi suoi mari, le sue città, le sue meraviglie; ma ella guardava più in su, perchè al disopra dell’azzurro vuoto del cielo v’era, per lei, un mondo sotto il quale il nostro non è che una landa melanconica. V’era il Cielo, col sogno dei sogni: Dio.



Di solito, a quell’ora, anche lei andava a letto; quel giorno però un’eccitazione fatta d’inquietudini e di speranze l’agitava. Dopo essere stata alla finestra verso l’orto andò a curiosare dietro i vetri della finestra che dava sulla strada.

S’udiva uno scalpitare di cavalli, e in breve una comitiva di cacciatori invase la strada, fermandosi davanti a un cancello sulle cui rozze colonne due aquile in gesso spiegavano le ali corrose. Quasi tutti bei giovani, coi volti infiammati dal sole, i cacciatori ridevano e gridavano, sicuri sulle loro cavalcature come centauri pronti alla corsa sfrenata.

Dall’alto della sua finestra Gavina guardava con occhi avidi. Un uomo non più giovane, ma bello ancora, bruno, alto, grasso e roseo in viso, tutto vestito di bianco, uscì a cavallo dal cancello delle aquile e si mise alla testa dei cacciatori. Sul suo cavallo bianco egli sembrava una statua equestre. Gavina odiava e [p. 11 modifica]ammirava quell’uomo, che era ricco e si divertiva, che viaggiava e benchè ottimo amico del suo vicino il canonico ostentava un odio feroce contro tutte le religioni. Per Gavina egli era l’incarnazione del peccato mortale; eppure, mentre egli si allontanava, ella ne seguiva col pensiero la figura imponente.

Ecco, ora i cacciatori lasciano il paese, scendono per lo stradale bianco di polvere e di sole, costeggiano la valle, diretti al versante orientale della montagna abitato da cinghiali e da volpi. Là, per una o due notti, i cacciatori si accamperanno come una tribù nomade, e appostati fra le roccie della brughiera aspetteranno il passaggio del cinghiale. La luna viaggia verso occidente, da una montagna all’altra, illuminando la brughiera: Elìa, il ricco gaudente, e un altro giovane cacciatore, seduti dietro una roccia, parlano a bassa voce, raccontandosi scambievolmente le loro avventure amorose. Sì, ella lo sa: ha sentito dire da Priamo Felix il seminarista, che quando due uomini si trovano in compagnia, non parlano che di donne. E il signor Elìa, dice la gente, ha avuto parecchie amanti; egli è un uomo senza scrupoli. Gavina lo abborre, ma non può far a meno di pensare a quello che egli e l’altro cacciatore, seduti dietro la roccia, si confidano.

Un rumore di passi nel pianerottolo la scosse dal suo sogno. Paska, curva sul buco della [p. 12 modifica]chiave dell’uscio attiguo, chiamava Luca con voce sommessa.

— Luca, svegliati! È un sonno mortale, il tuo! Non vuoi mangiare, oggi?

Egli non rispose. E siccome Paska insisteva, Gavina s’affacciò al suo uscio, e le disse stizzita:

— Ma finiscila, stupida! Gran danno se egli non si svegliasse più!

Paska, abituata a questi modi poco amorevoli tra fratello e sorella, non protestò, e ridiscese al pian terreno lasciando sugli scalini di ardesia l’impronta dei suoi piedi nudi, umidi. Gavina la seguì, preparò il caffè, e accompagnandosi al rumore monotono del macinino canticchiò uno stornello in dialetto, col solo motivo melanconico e primitivo ch’ella sapesse ripetere:

Su surdadu in sa gherra,

Nan chi s’est olvidadu,
Non s’ammentat de Deus.

Torrat su corpus meu,
Pustis chi est sepultadu,

A sett’unzas de terra.1

Questa cantilena ricordava il canto basso e monotono di qualche donna araba intenta a preparare il caffè sul limitare di una tenda ombreggiata da palme e da cactus. E lo [p. 13 modifica]sfondo della finestra, accanto alla quale Gavina macinava il caffè, pareva davvero un angolo di oasi. Si vedeva un enorme cactus grigio, irto sul verde lucente di un giuggiolo; tra le foglie di una palma tremolavano i fiori rosei di un oleandro, e davanti a una macchia cinerea d’assenzio cresceva una pianticella d’arancio, carica di frutti che sembravano brage sopra un mucchio di cenere. L’ombra del pergolato rendeva più dolce quest’angolo dell’orto, al di là del quale, tra le foglie del cactus, si vedevano le distese desolate dei cavoli grigi corrosi dai bruchi.

Nel silenzio caldo del meriggio s’udiva lo scalpitare del cavallo di Luca, e le voci allegre dei giovani sfaccendati che tutti i giorni, verso quell’ora, si riunivano nel cortiletto della zia Itria per giocare alle carte. Gavina canticchiava, e quelle voci insolenti e quelle risate grossolane riuscivano a farle dimenticare i cacciatori. Ora le pareva di vedere i giovinastri riuniti intorno alla vecchia obesa che se li teneva buoni — diceva Paska — per paura che una sera o l’altra visitassero i suoi magazzini di frumento.

Quelli, sì, erano veramente peccatori di prima qualità, — come diceva il canonico Sulis, — quasi tutti ubbriaconi, viziosi, reduci dal carcere.

— Son figli di Dio, lasciateli vivere, — diceva la zia Itria, — il mondo è largo. [p. 14 modifica]

Ma Gavina, Paska e la signora Zoseppa non la pensavano così: il mondo è largo, sì, ma i malfattori non sono figli di Dio: sono suoi nemici.



Il caffè è pronto. La signora Zoseppa, che non ha potuto anche lei chiudere occhio, scende e chiama Paska in disparte.

— Bisogna svegliar Luca e farlo andare in campagna, prima che il padre si alzi.

— L’ho chiamato più volte, ma non risponde. Il suo uscio è chiuso a chiave.

— Che si senta male?

Le due donne si guardano inquiete. Gavina, in piedi davanti alla finestra, si pulisce i denti con una foglia di salvia, e vorrebbe dire a sua madre che non vale davvero la pena d’inquietarsi tanto per Luca. Ma non osa aprir bocca, e solo quando sua madre esce, ella dice a Paska:

— Mi fate una rabbia!... Che bisogno c’è che mia madre vada a lisciarlo? Se egli venisse davvero colpito da un accidente sarebbe un gran danno!...

— Ma Gavina! Parlare così d’un fratello d’un cristiano figlio di Dio!

— Non è un fratello, è un nemico — disse Gavina; e andò a sedersi accanto alla [p. 15 modifica]finestra socchiusa della stanza da pranzo. L’ombra calda del pomeriggio invadeva la strada solitaria: dal balcone mezzo rovinato del canonico Sulis si spandeva un odore di garofani e di basilico.

I pomeriggi estivi son lunghi e lenti, per chi ha poco da fare. Come passare il tempo, se non facendo la calzetta? E Gavina prese la calzetta e ne contò le magliette per dividerle e cominciare il calcagno.

C’era una maglia in più: dove metterla? L’importante questione rimase per un momento insoluta, perchè rientrava la signora Zoseppa, seguita quasi furtivamente da Luca. Piccolo, molto grasso per la sua età, col viso pallido e gonfio e gli occhi turchini rotondi e imbambolati, egli sarebbe parso un vecchietto, senza i baffi neri che gli spiovevano come una frangia sulla bocca semiaperta. Si vedevano i suoi denti guasti di alcoolizzato. Dai suoi capelli neri in disordine e dalle pieghe del suo vestito di stoffa inglese mal tagliato, s’indovinava che egli si ora buttato sul letto senza spogliarsi, dormendovi a lungo il sonno degli ubbriachi.

Senza badare a Gavina, mentre sua madre andava nella dispensa in cerca d’una piccola bisaccia, egli si avvicinò alla tavola e ne aprì il cassetto. Ma rosicchiò appena un pezzo di pane, e respinse le altre vivande, quasi gli destassero nausea. Poi andò e aprì il [p. 16 modifica]guardaroba che serviva da credenza e si versò un bicchiere di vino, lo trangugiò, ne versò un altro.

Allora accadde una scena rapida e violenta. Gavina, che guardava il fratello con occhi fiammeggianti di collera, gridò:

— Basta, Luca! Se bevi ancora chiamo il babbo!

Egli bevette, senza rispondere. Ella balzò in piedi, gli si gettò contro, lo spinse verso la parete, chiuse il guardaroba e ne tolse la chiave.

Egli emise un grido rauco e sollevò la mano per batterla; ella curvò istintivamente le spalle, ma non si allontanò, e disse sfidandolo!

— Prova, se sei buono! Prova, asino, fannullone, miserabile, prova! Farai i conti col babbo!

Luca allora ebbe paura. Uscì dalla stanza e pochi momenti dopo partì a cavallo per un podere che suo padre possedeva nella valle.

Gavina sedette di nuovo accanto alla finestra e riprese a contare le maglie. Il cuore le batteva forte.

— Ah, sì, — pensava, — bisogna far così, altrimenti egli non avrà più ritegno. E mia madre.... ah, lei, così severa con tutti, è così debole con lui!...

L’ora passava. In cucina Paska e la signora Zoseppa, sedute per terra sopra un sacco di lana che pareva un tappeto, pulivano il [p. 17 modifica]grano e parlavano male della zia Itria. La signora Zoseppa «così severa con tutti» era severissima con sua cognata.

— Il Signore l’aiuti: ella è stata sempre così leggera, spregiudicata, amica della mala gente. Le par sempre di camminare in pianura, e non si accorge che inciampa ad ogni passo. Suo fratello il canonico, che pure non è molto severo colla gente cattiva, dice....

Il canonico Sulis usciva in quel momento dal suo portone sconquassato. Sebbene canonico, egli pareva un miserabile prete di campagna; la sua sottana era unta, il cappello spelacchiato; ma il suo viso roseo, paffuto, dal piccolo naso all’in sù e la piccola bocca sorridente, dava un senso di giocondità a chi lo guardava

— E tuo padre? — domandò, appoggiando la pancia sporgente all’inferriata dietro la quale stava Gavina.

— Dorme ancora, — ella disse ritraendosi, ma non in tempo per impedire allo zio di tirarle la treccia. — E lasciatemi, zio! Mi fate male!

— E tu raccoglieli questi capelli. È tempo, sei grande ora! Voglio vederti pettinata come una ragazza per bene, non con la coda, così, come i cavalli.

Egli tirava e rideva. Prima di allontanarsi le annunziò: [p. 18 modifica]

— Al ritorno dal coro verrà con me il canonico Felix a farvi visita.

Dopo questa notizia ella fu ripresa da un’agitazione nervosa: si alzò e andò ad annunziare a sua madre la visita del canonico Felix; poi salì nella sua camera e si guardò nello specchio.

Quando suo padre scese lento e grave, e andò a sedersi davanti alla porta di strada, come usava tutti i giorni, ella gli portò la sedia, l’«Unità Cattolica.», gli occhiali, e gli disse che Luca era andato al podere, e che fra poco avrebbero ricevuta la visita del canonico Felix.

— Oh, bene! di’ a tua madre che prepari il caffè.

Una donna con un’anfora sul capo salutò e sorrise, passando; il signor Sulis le accennò di fermarsi e le domandò come stava suo marito.

— Sempre la febbre! Abbiamo dovuto prendere un servo, per la raccolta. Oh, per noi non c’è più speranza, siamo rovinati! Se lei non ci ajuta, questo inverno, ci troveranno come trovarono Luca Gattu, assiderati e morti di fame!

— Zitta, zitta, donna, — disse il vecchio impresario, mettendosi un dito sulle labbra — la provvidenza non deve sentire queste brutte parole.

E la donna passò oltre, confortata. Poco dopo [p. 19 modifica]passò un pastore a cavallo, e anche lui si fermò, diede pessime notizie del suo gregge, ricevette parole di speranza.

Tutti quelli che passavano si fermavano davanti al vecchio come davanti al rappresentante della provvidenza, sorridendogli e rivolgendogli parole affettuose e furbe.

Gavina intanto preparava le tazze sul vassoio. Quando i due canonici, accompagnati da un seminarista pallido ed alto, passarono davanti alla finestra, ella corse ad avvertire sua madre, che per ricevere le visite si avvolse la testa con un fazzoletto di seta.

Le visite furono ricevute nella camera terrena, che serviva anche da sala di ricevimento. Era la sola camera della casa arredata con un certo lusso, con tende alle finestre e pelli di cervo davanti al canapè. Sulla «console» antica, d’ebano, intarsiata di madreperla, una piccola Venere in gesso reclinava sull’omero la testina soave, e con la mano si raccoglieva il velo sul grembo, sotto il piccolo mantello di seta azzurra a frangie d’oro con cui la signora Zoseppa l’aveva coperta. E in una scansìa a vetri, chiusa a chiave, si vedevano molti libri rilegati, un po’ in disordine, appoggiati gli uni sugli altri come stanchi o addormentati.

I due canonici, il seminarista, il signor Sulis e la signora Zoseppa sedettero in circolo, e dopo i complimenti d’uso tacquero per [p. 20 modifica]alcuni momenti. Gavina spiava dietro l’uscio socchiuso, e non osava entrare, ma vedeva il volto serafico, pallido e mite, del canonico Felix, e sentiva che egli, dopo qualche esitanza faceva il suo solito scherzo.

— Quest’oggi in chiesa non si vedeva neppure una signora con la pelliccia!

Trovato l’argomento si cominciò subito a parlare del caldo, ma evidentemente la conversazione non interessava molto il seminarista, perchè egli guardava di qua e di là, movendo la testa e spalancando e socchiudendo i grandi occhi neri un po’ torbidi. La Venere e i libri attiravano specialmente il suo sguardo irrequieto. Ma quando Gavina entrò, portando il caffè, quello sguardo un po’ vago s’illuminò, diventò fisso, non si staccò quasi più dal viso della fanciulla.

Il canonico Felix, che era nato in un villaggio sulle montagne, raccontava con la sua voce soave e lenta un’avventura accadutagli quarant’anni prima. La storiella doveva essere molto originale, perchè i Sulis ascoltavano con grande attenzione e ridevano; solo Gavina e il seminarista giudicavano la storiella forse troppo vecchia per loro, perchè, se si degnavano di ascoltare, non ridevano troppo e non ridevano a tempo.

Visto il profilo di Priamo sembrava un San Luigi, pallido, d’un pallore quasi azzurrognolo, col naso dalla linea purissima, la bocca [p. 21 modifica]sinuosa e carnosa nello stesso tempo. I capelli neri e lucidi, tagliati a frangia, gli descrivevano come un cerchio nero intorno alla fronte. Con le braccia incrociate sul petto scarno, le mani sotto le ascelle, egli si dondolava di continuo e pareva invaso da una irrequietudine nervosa; e le sue larghe palpebre, dalle lunghe ciglia, si abbassavano e si sollevavano continuamente. Gavina lo guardava, ma sebbene presa anche lei da una vaga inquietudine, restava immobile al suo posto, col capo sollevato fieramente.

L’impresario raccontò anche lui la sua storiella, non molto antica, ma non tanto recente da interessare i due ragazzi, e nella quale si parlava di un bandito che una volta aveva fermato il signor Sulis nel bel mezzo di una foresta.

— Avevo in tasca trentamila lire. L’incontro, quindi, non mi rendeva troppo felice, ma l’uomo, con mia grande meraviglia, mi disse garbatamente: «Signor Sulis, compare bello, ce l’avete la piccola comare? Vorrei darle un bacio!» — «Bene tu abbi, fratello mio, eccoti la piccola comare: baciala pure finché vuoi!»

E tutti risero. La «piccola comare» era la zucca piena di vino che l’impresario portava sempre con sè nei suoi viaggi. Visto il successo della sua storiella, egli aggiunse, appoggiando i pugni al sofà per alzarsi!

— Oh, a proposito, si potrebbe anche [p. 22 modifica]andare in cantina, se la signora Zoseppa lo permette....

La signora Zoseppa lo guardò severa, sembrandole una sconvenienza condurre il canonico Felix in cantina; ma i tre uomini erano già in piedi, sorridenti e beati, ed ella, dovette imitarli. Anche i ragazzi si alzarono, ma Priamo lasciò che i tre uomini e la signora Zoseppa uscissero, e invece di seguirli si volse e guardò Gavina che rimetteva sul vassojo una tazza rimasta sulla «console».

— Tu non vieni, Gavina?

— Sì, ora vengo....

Egli le si avvicinò, rosso in viso fin sotto il cerchio dei suoi capelli neri: le sue labbra si sporgevano tremanti, come agitate dal desiderio d’un bacio; ma Gavina abbassò gli occhi e uscì rapida, senza pronunziare una parola.



Luca tornò verso sera, e appena smontato da cavallo cominciò a inveire e a bestemmiare contro il servo che lavorava nel podere.

Gavina, affacciata alla finestra della sua camera, pensava ancora a Priamo, quando la voce rauca del fratello la scosse dal suo sogno. Vibrante di sdegno scese di corsa le scale, ma giunta nell’andito si fermò, per salutare [p. 23 modifica]il signor Sulis che in quel momento rientrava dalla solita passeggiata. Col cappello nero a larghe falde, un fazzoletto di seta, nera intorno al collo, egli sembrava un quacchero. La sua presenza parve spandere intorno un senso di pace; tutti tacquero, ed egli, dopo aver appoggiato il bastone dietro la porta, sedette a tavola e la cena fu, come sempre, tranquilla; ma quando Gavina e la signora Zoseppa si alzarono, egli accennò a Luca di rimanere e gli domandò:

— Vorrei sapere cosa ti è capitato ieri notte.

Luca si difese umilmente, poi cercò di sviare il discorso e parlò della sua visita al podere. Il servo non lavorava: non aveva ancora ripulito il terreno intorno ai mandorli e durante la notte lasciava che i contadini levassero la siepe dal varco e introducessero i buoi a pascolare nel podere. Bisognava licenziarlo.

— Ecco, — disse il vecchio, — tu sei come quel servo: lasci aperto il varco ai peggiori vizi e non ti accorgi del male che fai a te stesso e agli altri. Un giorno o l’altro qualcuno ti licenzierà! Bada a te, ragazzo!

Luca abbassò la testa, poi uscì in cucina e recitò assieme con le donne il rosario di cento cinquanta «ave-marie» pensando che Dio perdona al peccatore pentito.

Seduta nel vano della porta Gavina scorgeva, attraverso la porticina dell’orto ancora [p. 24 modifica]spalancata, la palma nera su uno sfondo azzurro. La luna spuntava sulla montagna e le stelle scintillavano talmente che pareva oscillassero salutando commosse il pianeta sorgente. Si udivano, un po’ velati nel silenzio della notte calda, canti lontani e i gridi dei bimbi che giocavano nella strada. Erano voci di gioia e d’amore; e di tanto in tanto, tra il coro monotono dei canti notturni, squillava un grido alto e tremulo di passione selvaggia, che pareva un richiamo disperato, diretto a un essere irraggiungibile.

Gavina pregava per la pace della sua famiglia e ogni dieci «ave-marie» domandava una grazia speciale alla Vergine Santa: la salute per il vecchio babbo, la salute per la buona mamma, il ravvedimento del disgraziato suo fratello Luca; per gli altri peccatori sparsi nel mondo, niente! Non domandava niente neppure per lei, e credeva di fare con ciò un sacrificio. Ella era pronta a soffrire se Dio voleva così, ma intanto chiedeva a Dio solo ciò che era necessario alla sua pace domestica!

Di tanto in tanto, però, il grido appassionato che vibrava fra il coro dei canti notturni le ricordava Priamo: e allora dimenticava gli altri e pensava a sè; e all’ultima «posta» del rosario fu assalita dal desiderio di chiedere aiuto a Dio anche per colui che dimostrava di amarla senza speranza; [p. 25 modifica]ma le parve un peccato così grande che per espiarlo devolse la domanda in favore della vedova Cambedda.

La vedova Cambedda era la donna più maldicente e perfida del vicinato, tanto che persino la zia Itria la vedeva mal volentieri.

Recitato il rosario, mentre Paska finiva di rimettere in ordine la cucina, la signora Zoseppa, stanca per la lunga giornata laboriosa, prese un lume ad olio e s’avviò alla sua camera; passando davanti a Luca gli pose una mano sul capo e gli disse!

— Va’ a letto, figlio mio; sarai stanco....

Anche Gavina se ne andò nella sua camera, e dalle sue finestre spalancate vide il paesaggio lunare e la piccola città grigia e nera nella notte azzurra. La strada, così deserta durante la giornata, risuonava di voci e di risate; i bambini giocavano al chiaro di luna, come leprottini nei sentieri della foresta; gruppi di persone, radunatesi per godere il fresco, chiacchieravano e ridevano. Il signor Sulis seduto davanti alla porta e il canonico dal suo balcone parlavano della visita del canonico Felix, lodando questo sant'uomo che tutti amavano e riverivano. Ma giusto in quel momento s’udì la voce della vedova Cambedda, fastidiosa come lo stridio d’una lima sul ferro!

— È quella la brava gente? Che siano ammazzati tutti fra otto giorni! Io so che questo vostro sant'uomo ha fatto.... [p. 26 modifica]

— Silenzio! Lingua d’inferno! — gridò il canonico Sulis dal balcone.

— Sentitelo, quell’altro! È impossibile dire la verità in sua presenza!

— Voi mentite sempre. Silenziooo!

— Lasciamo lo zio, allora, e parliamo del nipote. Vossignoria negherà forse che Priamo è un discolo? L’anno scorso è scappato di casa: quest’anno scapperà dal seminario. Ma sì, fatelo prete: diventerà....

— Cosa pretendi da un ragazzo? — chiese bonariamente il signor Sulis.

La vedova dichiarò francamente:

— Io lo metterei a macinare il grano, prima di farlo prete.

Il vecchio fece un cenno di addio con la mano.

— Se tutti i ragazzi sventati dovessero macinare il grano, buona notte, asini!

La voce stridula risuonò più alta.

— Ah, sì? Maledetto il peccato mortale! E perchè no? solo i poveretti devono esser buttati per terra e calpestati, appena mettono il piede in fallo? Povero agnello mio, figlio mio bello, tu eri povero: ecco perchè ti hanno rovinato.

Il suo «agnello» era in carcere per furto semplice; ed ella ne parlava sempre come d’un bimbo perseguitato.

— Siamo tutti eguali davanti a Dio, e nel giorno del giudizio Egli ci rimescolerà come [p. 27 modifica]ulive nel frantoio, — disse il vecchio impresario; e non si sapeva se egli scherzasse o parlasse sul serio.

Ma la vedova replicò subito:

— Una sola cosa vi dico. Neppure davanti a Dio siamo eguali! Perchè Egli ci ha creati diversi? Chi buono e chi cattivo, chi virtuoso e chi ubbriacone?... Tutti vorremmo esser buoni, maledetto il peccato mortale!

— Dio ci ha creati tutti buoni, vi dico! — gridò il canonico, che frugava nelle sue tasche come in cerca d’un proiettile da buttare contro la donna. — Zitta, vi dico, state zitta!... E il libero arbitrio?... Siamo noi che diventiamo cattivi. Gliel’ha detto Dio, al vostro Pascaleddu, di andare a fare il male?

La vedova si mise a piangere e ad imprecare; ma la discussione continuò, finchè il signor Sulis non si alzò per ritirarsi. Allora Paska andò nella piazzetta per chiamare Luca, che sedeva accanto alla zia Itria e taceva, ma pareva si divertisse moltissimo ad ascoltare le chiacchiere vivaci ed i racconti dei giovinastri amici della vecchia obesa.

Anche Paska si fermò, come attratta da un fascino malefico. Veramente il quadro, a metà illuminato dalla luna che nel suo corso obliquo già spuntava dietro il muro a fianco della piazzetta, era degno di osservazione; e quei dieci o dodici uomini, riuniti intorno alla vecchia come intorno a un idolo deforme, oltre [p. 28 modifica]ad avere le figure più strane che si possano immaginare, parlavano tutti in modo da far ridere anche i santi. Fra gli altri c’erano tre lavoranti d’una vicina calzoleria, un nano che sembrava un bimbo di sei anni, ma dal viso d’uomo malizioso, un ex-frate pallido in viso e coi capelli rossi, e un vecchio altissimo dalla piccola testa rassomigliante a quella d’una lepre, che facevano continui progetti di viaggio, proponendosi di andare nelle «grandi città» per esporre il nano come un «fenomeno vivente». E già si beffavano della gente che sarebbe accorsa a vederlo. Ma il tipo più interessante della compagnia era un vecchio paesano dalla faccia quasi nera circondata di lunghi capelli candidi e da un collare di barba bianchissima. Da giovane egli era stato quindici anni in carcere, e tutti lo sapevano, ma egli diceva che durante quella sua prolungata assenza dal paese era stato alla guerra, con Vittorio e con Garibaldi, e raccontava le sue vicende in modo così arguto e suggestivo che molti lo ammiravano come un eroe autentico.

— Andiamo, Luca, se no ti chiudo fuori, — disse Paska dopo un minuto d’attesa.

— Tu! Proprio tu? — egli rispose assumendo il tono beffardo degli altri giovinastri che già deridevano la serva.

— Luca, non si parla così alla propria balia! — disse l’ex-frate. [p. 29 modifica]

— Paska, dorme ancora con te, questo marmocchio?

— Itria Sulis! — impose Paska severamente — di’ a tuo nipote che suo padre mi ha ordinato di chiudere la porta.

— Bene, vattene; non voglio storie, io, — disse la zia Itria a Luca.

Egli però non si mosse. Paska se ne andò; ma dalla finestra Gavina sentì che quei giovinastri continuarono a deridere la serva. Il nano proponeva di darla in moglie al «reduce» e la zia Itria canticchiò dei versi in italiano, a proposito di questo matrimonio:

Un bel gobbo ed una gobba
All’età di ottant’anni,
Storpi e pieni di malanni,
Si giuraron fedeltà.... fedeltà.... fedeltà....

Stizzita Gavina chiuse la finestra verso strada e andò a quella verso l’orto.

Lì almeno tutto era fantastico e puro. La luna illuminava le montagne, i cui ultimi profili sembravano nuvole azzurre orlate di madreperla; i grilli stridevano sull’elce, nero ed immobile sullo sfondo luminoso del paesaggio; e persino i cavoli rassomigliavano a strani fiori grigiastri ricamati d’argento. Dalla vegetazione tropicale che circondava il pergolato salivano acute fragranze; e l’odore amarognolo dell’oleandro richiamò alla mente di Gavina il ricordo dei cacciatori appostati fra le macchie della brughiera. [p. 30 modifica]

E come la rugiada che cadeva e si fermava sugli aridi fili dei ragni, tra cavolo e cavolo, trasformandoli in fili di brillanti, i sogni caddero sulla piccola anima di lei.

Ella pensò ancora a Priamo e sognò un luogo fantastico, una solitudine di roccie e di macchie illuminate dalla luna, ove poter vivere con lui. Egli era povero e cattivo: ella era molto ricca ed avrebbe potuto renderlo buono col suo amore.... Per un momento tutto brillò intorno a lei; poi d’un tratto tutto fu di nuovo buio. Ella credeva di peccare, pensando ad un uomo che non poteva sposarla; e un accesso di misticismo la piegò e la contorse. S’inginocchiò davanti alla finestra e il suo sguardo sembrò quello di una allucinata; e le sue labbra pronunziarono preghiere che parevano bestemmie. Domandava al Signore di farla soffrire, di punirla in ciò che aveva di più caro sulla terra, se si lasciava vincere dal peccato; e mentre pregava si ficcava le unghie nella palma della mano e di tanto in tanto batteva la fronte alla pietra del davanzale.

Fuori la luna grande e melanconica saliva sul cielo azzurro, come desiosa di allontanarsi il più che era possibile dalla terra per non vederne le miserie e gli errori.

Note

  1. Il soldato, in guerra, — Dicono che si è dimenticato, — Non si ricorda di Dio. — Si riduce il corpo mio, — Dopo che è seppellito, — A sette oncie di polvere.