Sopra lo amore/Prefazione

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Prefazione

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PREFAZIONE





Naturalmente, nessuno può attendersi di trovare in questo libro una «psicologia» o una «fisiologia» dell’amore, e in Marsilio Ficino uno Stendhal, o un Balzac, un Bourget o un De Roberto del secolo XV. Non è da questo punto di vista che il libretto, che ripubblichiamo, possiede il suo lato interessante: sebbene, anche considerandolo come psicologia dell’amore, il lettore possa essere talvolta gradevolmente colpito da qualche osservazione, tra ingenua e sottile (come quella del cap. X dell’Orazione VII sul giuoco degli occhi quale «cagione ed origine di questa malattia») che spunta fuori qua e là fresca e vissuta di sotto il denso velame della dottrina mistica. Ma l’interesse vero del volumetto sta altrove.

È in primo luogo un interesse letterario, poichè è questa una delle pochissime prose italiane che del Ficino si abbiano; prosa tersa e quattrocentescamente elegante e saporosa, per chi sappia e ami talvolta gustare la signorile venustà con cui gli antichi trattavano la nostra lingua. Nè alla valutazione letteraria di questa prosa può nuocere il contenuto di filosofia, e per di più d’una filosofia, a primo aspetto, così lontana dal nostro pensiero, più che esso non nuoccia riguardo ai poeti del «dolce stil nuovo» i quali, in sostanza, come Marsilio dice di Guido Cavalcanti, (Oraz. VII, Cap. I) tutte queste stesse cose artificiosamente chiusero nei loro versi. La speculazione filosofico-mistica intorno all’amore, che tanto occupò i nostri scrittori prima e durante il Rinascimento, [p. 6 modifica] e forma gran parte del contenuto della loro prosa e poesia, ha anzi appunto in questo volumetto la sua espressione più piena, completa e matura. Sicchè esso giova massimamente ad illuminarla; a illuminare, cioè, quello che costituì il perno principale attorno a cui girò la nostra antica letteratura. E se si ripubblicano tuttora e si leggono i trattati d’amore del cinquecento, che rappresentano la decadenza e la degenerazione di questa speculazione sull’amore, tanto più era opportuno ridare alla luce un trattatello, come questo, frutto del momento e dell’uomo in cui tale speculazione non era ancora diventata artificio, convenzione o scherzo, ma si conservava fede intellettuale viva, animato dallo sconfinato entusiasmo devoto con cui la cultura superiore e più raffinata dell’epoca, precisamente soprattutto in Marsilio come suo più perfetto esponente, aveva scoperto, abbracciato, rivissuto in sè l’antico pensiero platonico-alessandrino.

Ma l’interesse principale che offre il presente trattatello è quello cui queste ultime parole ci richiamano: cioè l’interesse filosofico. E tale interesse è duplice. Riguarda, anzitutto, lo scritto di Marsilio considerato semplicemente come commento al Convito platonico: giacchè (come abbiamo altra volta avuto occasione di avvertire ed esemplificare)1 il Ficino, forse per l’affinità di temperamento intellettuale, e certo per l’appassionato e ardentemente adesivo abbandono del suo proprio pensiero al pensiero di Platone, riuscì quasi sempre a penetrare quest’ultimo con più intima profondità di quanto, non ostante l’apparato critico immensamente progredito, non abbiano saputo fare molti moderni. Poichè (precisamente al contrario di quel che oggi, e specie tra contemporanei, si pratica) il segreto per penetrare il pensiero d’uno scrittore è quello di non porsi contro di esso in atteggiamento di critica ostilità, bensì quello di lasciarsi anzitutto trasportare, con simpatia e con sincera disposizione a trovarlo vero, dalla corrente di [p. 7 modifica]idee che lo scrittore svolge. L’Amore è, forse, anche il secreto della comprensione: e questo amore, questa simpatia profonda, per la quale soltanto si comprende, e si comprende appunto perchè, come dice la parola, si sente insieme, si sente la stessa cosa, si ha il medesimo pathos fondamentale, si appercepisce identicamente, questa simpatia fu massima nel Ficino rispetto a Platone; massima, quindi la comprensione.

Ma questo scritto è più che un semplice commento al Convito, e più largo è l’interesse ch’esso presenta. Il platonismo è appreso da Marsilio soprattutto nell’interpretazione alessandrina; ma a questa egli aggiunge qualche cosa di suo, una nota originale. Ed è l’interpretazione cristiana del platonismo alessandrino, o, se si vuole (e forse più esattamente) l’interpretazione platonico-alessandrina del Cristianesimo. Abbiamo qui, adunque, l’esposizione del Paganesimo secondo l’elaborazione religiosa e filosofica profondamente spirituale, che i pensatori alessandrini, sospinti a ciò dall’istesso conflitto con le nuove idee cristiane, vi avevano dato; e, insieme, l’integrazione di questa fase del pensiero pagano coi dati del Cristianesimo, o, meglio, la collocazione e la sistemazione di questi dati nel quadro di quel pensiero. Così, le pagine che seguono contengono il succo di quel sincretismo religioso pagano-cristiano, che fu tentativo originale degli umanisti, e di cui Marsilio fu il principale fattore; epperò raccolgono in sostanza, tutto il nocciolo della massima opera filosofica ficiniana, la Theologia Platonica.

Che se al disotto del linguaggio teologico pagano e cristiano, delle morte concezioni cosmologiche, delle complicate e fantastiche rappresentazioni mitologiche, di cui si compiaceva allora il pensiero, e che oggi ci sono così estranee e ci sembrano così vuote, noi cerchiamo di cogliere il punto vivo e vero di questa, come delle altre analoghe speculazioni sull’amore, potremo constatare che in essa si esprime, con linguaggio a noi remoto, un concetto che ci è vicinissimo. Codesto Amore, che, come [p. 8 modifica]più antico di tutti gli Dei, ha dato origine all’universo e agli Dei, che muove anche le anime dei pianeti, che, come «inclinazione lapidea» del ferro verso la calamita, è quello stesso per cui un’anima scoccando la sua scintilla per mezzo degli occhi, tira a sè un’altra anima — codesto Amore, accenna all’odierna filosofia volontaristica; accenna a Schopenhauer e a Bergson (due pensatori che vanno ravvicinati per i due punti essenziali che hanno in comune: la Volontà, in linguaggio schopenhauriano, ossia, in linguaggio bergsoniano, lo «slancio vitale» considerato come essenza della realtà, e la preminenza dell’intuizione sull’intelligenza discorsiva). L’Amore del Ficino è la Volontà o Brama primitiva e universale, che ha suscitato tutti i mondi, e tutto nei mondi, e si è incarnata nei mondi, nelle cose, negli animali ed in noi.

Non solo. Ma chi legga con attenzione ed accorgimento scoprirà agevolmente, entro al remoto linguaggio, i concetti fondamentali di tutto l’idealismo moderno: così il concetto che non il mondo esteriore crea la coscienza, ma la coscienza foggia il mondo esteriore, ed è lo spirito che suscita e plasma la natura — ossia, in linguaggio ficiniano, l’Anima reca in sè e proietta fuori di sè la forma dei Corpi. Così, ancora, il concetto che lo spirito che è in noi è una scintilla più o meno vivida dello Spirito universale e assoluto, in noi immanente; concetto espresso dal Ficino con la sua dottrina del rapporto tra la Mente divina, la Mente angelica, e la Mente e l’Anima umane. E quanto è questa dottrina, in alcuni suoi aspetti, nonchè quella delle divinità costituenti l’Anima dei vari pianeti, lontana dalla fase politeistica della filosofia di W. James?

Mistica è la dottrina ficiniana dell’amore, ed ha la sua mistica morale. L’Amore non si spegne per aspetto o tatto di corpo alcuno, perchè non questo o quel corpo cerchiamo, ma la luce divina, che in tutti rifulge, ossia cerchiamo, errando, nella creatura finita, di saziare un amore che è infinito perchè datoci dall’infinito e per l’infinito, dall’Assoluto per sè. Il male morale non è dunque [p. 9 modifica]alcunchè di positivo. Esso consiste nell’arrestarsi dello slancio d’Amore, che questo, come suscitatore ed essenza dell’universo, cioè Dio, ha posto in noi: nel suo arrestarsi alle creature finite, al particolare, invece che progredire all’Universale. «Il vero Amore non è altro che un certo sforzo di volare alla divina bellezza, desto in noi dallo aspetto della corporale bellezza», il bene morale, quindi, è unicamente il percorrere che faccia in noi questo slancio d’Amore interamente la sua via, nel giunger come meta al suo punto di partenza, nel salire là donde mosse, all’Universale, all’Infinito, a Dio. «Questo gran dono ci dà quella celeste Venere, mediante lo Amore, cioè mediante il desiderio della Bellezza divina, e mediante lo ardore del Bene».

Spinoza, nè Malebranche (e nemmeno, forse, il Croce) hanno detto cose diverse.




Si è tenuta presente, per la traduzione italiana, l’edizione di Neri Dortelata, Firenze, 1544; per il testo latino l’edizione di Basilea, 1561.

Firenze, maggio 1914.



Note

  1. Cfr. di chi scrive Il Genio Etico (Bari, Laterza, 1912).