Sotto il velame/Le rovine e il gran veglio/XI

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Le rovine e il gran veglio - XI

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Le rovine e il gran veglio - XI
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XI.


E l’ira? Virgilio in questo cerchietto s’è rissato un’altra volta davvero col suo discepolo. Gli ha detto:1 [p. 275 modifica]

                          Ancor se’ tu degli altri sciocchi?
               Qui vive la pietà quando è ben morta:
               
               chi è più scellerato che colui
               che al giudicio divin compassion porta?
               Drizza la testa, drizza...

E qui come nelle altre bolgie è Virgilio stesso che invita Dante a guardare e a compiacersi della vendetta di Dio; mentre all’ultimo lo rimprovera d’una “bassa voglia„ nell’udire i due in quel piato volgare. Al duca Dante piace, quando e’ canta quelle note al papa simoniaco.2 Dopo avergli fatto vedere Iason che ritiene ancora aspetto reale e avergli raccontato di lui il bene e il male (l’esserci di lui il bene, oltre il male, ammorza il disprezzo), il duca vuole che osservi ancora la sozza scapigliata fante;3 e si offre a lui per interrogar questi e consiglia a lui di domandar quelli, con particolar cura, che diremmo quasi crudele. Quella volta, nella quarta bolgia, Dante vedendo gli indovini così difformi, piangeva.4

               Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
               di tua lezione, or pensa per te stesso
               com’io potea tener lo viso asciutto,
               
               quando la nostra imagine da presso
               vidi sì torta, che il pianto degli occhi
               le natiche bagnava per lo fesso.
               
               Certo i’ piangea...

E così la sua scorta lo rimbrotta. La pietà qui vive col morire.

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Abbiamo veduto che la pietà diminuisce via via e s’annulla, rispetto ai peccatori d’incontinenza a mano a mano che l’incontinenza offende, quasi inconsapevolmente, la giustizia, o alla giustizia, per la rea inerzia, non basta; e che, rispetto ai peccatori di violenza o bestialità, è più o men viva, secondo che nel peccato predomina la incontinenza o la malizia. Qui abbiamo la conferma del pensiero di Dante. La pietà deve essere morta avanti quelli la cui malizia fu aiutata anche dall’intelletto, e fu proprio mal dell’uomo. Deve essere morta; eppur non sempre è morta; e anche qui è più o men viva: viva, per esempio avanti gl’indovini, morta e ben morta avanti, per esempio, i simoniaci. Così la vergogna in quali è grande, in quali è minore, in quali, poniamo, nulla. C’è un filo che ci conduca?

Il fatto è che nell’altro cerchietto della frode la pietà scema ancora e la vergogna cresce. I traditori tengono il viso basso.5 Subito uno di Caina,6

                                             pur col viso in giue
               disse: Perchè cotanto in noi ti specchi?

Non vorrebbe esser veduto; ma pur conta degli altri, e finisce col dir di sè:

               sappi ch’io fui il Camicion de’ Pazzi
               ed aspetto Carlin che mi scagioni.

Dante s’avanza nella seconda circuizione e qui narra:7

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               Se voler fu o destino o fortuna
               non so; ma passeggiando tra le teste
               forte percossi il pie’ nel viso ad una.

Fu volere forse: a ogni modo, fosse pure stato destino o fortuna, a Dante non increbbe. E vuol sapere il nome del traditore e lo prende per la cuticagna; fin che un altro dice quel nome; e il Poeta allora esclama, che “alla sua onta„ porterà nel mondo notizie di lui. E questi allora rivela quanti più può compagni di pena e d’ignominia: quel da Duera, quel di Beccheria, Gianni del Soldaniero, Ganellone, Tebaldello. Si vede finora ben chiaro che i traditori non amano essere veduti e nomati. Pure è una differenza tra il Camicione e Bocca: quello dice il suo nome, questo no. Ora anche tra i giganti, che certo significano, colà ritti, qualche cosa, è una differenza. C’è tra loro uno “che parla ed è disciolto„:8 gli altri, no; e a quel di loro, la cui ribellione a Dio fu, diremo noi, con più d’intelligenza, a Nembrotto, Virgilio dice: Anima sciocca! anima confusa! Sono essi raffigurati come enormi bestioni legati, chè non hanno più linguaggio e non hanno più umanità alcuna. Eppure sì dell’uomo avevano. Chè Virgilio pronunzia:9

               Natura certo, quando lasciò l’arte
               di sì fatti animali, assai fe’ bene...
               . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
               
               chè dove l’argomento della mente
               s’aggiunge al mal volere ed alla possa,
               nessun riparo vi può far la gente...

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Or l’argomento della mente non hanno più; salvo Anteo che parla, salvo Anteo che non è considerato un bestione, poichè è disciolto. Perchè? Perchè non “contra il sommo Giove„ esercitò la mente e il mal volere e la possa, non essendo stato “all’alta guerra de’ suoi fratelli„;10 sì contro Ercole lottò. Perciò muove ancora le braccia che non menò contro il Dio direttamente, e può distendere le mani che strinsero il figlio del Dio; e parla, e di più è sensibile allo scongiuro della fama.11 La quale “qui si brama„ dice Virgilio; eppure Dante da Bocca sente dirsi poi:12

                       Del contrario ho io brama;
               levati quindi e non mi dar più lagna,
               chè mal sai lusingar per questa lama.

E Bocca non vuol dire nè dice il suo nome, che, in vero, non può nel mondo che sonare onta. E il Camicione, sì, lo dice. Non è esso un Anteo rispetto a Nembrotto o qualunque altro dei giganti legati e muti? Tanto più che nella pena assomigliano i giganti e i dannati della ghiaccia: il gelo di Cocito serra questi, come le catene quelli. E chi non vede ora la ragione della pena stessa? I giganti avevano possa, mal volere e mente. Ebbene or non possono più, chè sono incatenati, sebbene vogliano il male ancora, chè Nembrotto grida e vorrebbe disfogar l’ira o altra passione,13 e Fialte si scuote come torre per tremuoto rubesto. Il mal volere resta in loro; ma le catene impediscono la gran possa, e una confusione totale oscura la loro mente, sì che Nembrotto non [p. 279 modifica]sa trovare il corno sul gran petto, e parla un linguaggio che non s’intende, e non intende alcun linguaggio che gli si parli. Questo difetto del linguaggio non ha Anteo, il quale ama, nel tempo stesso, la lode. È chiaro dunque che anche i dannati che sono al piede dei giganti, il non parlare e il non amar fama l’hanno per castigo o per contrasto a ciò che nel loro peccato fu inordinazione della mente. Il che s’è veduto in Vanni Fucci, che si dipinse di trista vergogna perchè anche con la mente peccò, e non con solo l’animo e la volontà. Possiamo dunque conchiudere che maggiore fu nei peccati l’inordinazione nella mente, e più grave è, in Malebolge e nella Ghiaccia, la vergogna del fallo e l’orror per la fama. Dico la vergogna del fallo: in vero Ulisse risponde a Virgilio, perchè questi ha dichiarato prima, che lo interrogherà su tutt’altro; e Guido risponde anche sul fallo suo proprio, perchè crede che chi lo interroga, sia morto. E così il Conte Ugolino si sente chiedere non la sua pecca, ma quella del traditore che rode;14 e perciò risponde, e dice subito il suo nome, che è necessario dire se si vuol procacciare infamia all’altro. Nel che è da osservare che il non essere i pessimi dà a questi dannati coraggio di palesarsi; come è il fatto di Camicion de’ Pazzi e di tanti di Malebolge.

Più grande è dunque l’inordinazione dell’intelletto, più grave è la vergogna e l’ostinazione a nascondersi. Bene: ma perchè Farinata e Cavalcante non mostrano vergogna? In tanto posso dire, che il loro nome non dicono essi; sì, dell’uno, Virgilio lo [p. 280 modifica]proclama, dell’altro, Dante lo legge.15 C’è, senza dubbio, una gradazione con quelli del limbo; dei quali pur nessuno si noma da sè, e Virgilio stesso sul primo apparire a Dante il suo nome non dice, sebbene l’esser suo dichiari; ed anche a Sordello comincia con l’indicarsi per la patria, sebbene poi dica anche il nome, che a Stazio è detto da Dante e non da lui. Ma lasciamo questo, sebbene non sia assurdo pensare oltre che alla modestia del virgineo, anche a una peritanza consimile a quel turbamento da cui il dolce poeta fu preso una volta.16 Certo è che l’inordinazione dell’intelletto si ha da intendere a quel modo che Dante insegna per bocca di Virgilio:17

                          dove l’argomento della mente
               s’aggiunge al mal volere ed alla possa;

si deve, dunque, dire che la vergogna è maggiore dove è maggiore l’inordinazione della mente posta al servigio del mal volere. E si può così definire quest’inordinazione, considerando in che consista la frode e che parte vi abbia l’intelletto. Frode è dell’uom proprio male, cioè con la mente. Per questo essere con la mente, rimorde la coscienza, perchè la mente vede chiaramente il male che fa o aiuta a fare. Si usa in colui che si fida e in chi non si fida. Il primo de’ due modi uccide l’amor naturale e lo speciale; il secondo, solo quel primo vincolo dell’amore che ci lega a tutte le creature. Ora, secondo il Poeta, la mente, in tali peccatori, è inordinata per ciò che sa e vede l’un vincolo e l’altro, e pur l’oblìa [p. 281 modifica]e l’uccide.18 È inordinata, non accecata. Se cieca fosse e come non fosse, Lucifero sarebbe Capaneo, e Fucci sarebbe nella riviera di sangue. Chè il vincolo che fa natura, lo spezzarono gli omicidi e i predoni; eppure non sono rei di ciò che rimorde ogni coscienza. L’argomento della mente fa peggiore la reità non perchè i fraudolenti usino arti sottili, ma perchè essi sono coscienti del vincolo che li stringe a quelli, contro cui le usano. In vero questo uso medesimo mostra in loro che c’è la mente; e perciò la coscienza. Il che Dante dice nel suo solito modo così evidente e così non veduto. I viatori sono nella sesta bolgia, dove è la rovina. C’è un crocifisso in terra con tre pali: Caifas, il consigliere della morte di Gesù. Perchè non è esso tra i rei direttamente contro Dio? Perchè19

               consigliò i farisei che convenia
               porre un uom per lo popolo ai martiri.

Caifas in Gesù vedeva l’uomo e non il Dio. C’era in lui dunque tanto di mente, da vedere che egli infrangeva il vincolo di natura, non tanto da vedere che obliava anche l’altro “di che la fede spezial si cria„.

Sicchè tanto è dire che il rimorso de’ fraudolenti e la loro vergogna è in proporzione della loro mente, quanto, che in proporzione della loro coscienza. Quindi è minimo in Vanni Fucci e massimo in Caifas e nel papa simoniaco, in Malebolge; minimo nel conte Ugolino, di cui si vede laggiù un “bestial [p. 282 modifica]segno„;20 e massimo in Bocca e in Bruto. Il quale si storce tra le mascelle di Lucifero, come soffia nella barba Caifas.

Ora la pietà in questo regno della frode vive ancora, un poco, nel secondo dei tre cerchietti; è spenta nel terzo, dove non si esercita se non una volta; e per i figli di Ugolino, non per lui, per il quale è quasi ammessa la crudel pena21 che ebbe a soffrire. Ma nel secondo va ancora in volta. Dante piange, quando Virgilio gl’intima, che la pietà lì vive quando è morta.22 Il momento è solenne e significativo. Dante si rivolge al lettore, che prenda frutto di sua lezione; come a lui si rivolge Virgilio, poichè la sua visione gli frutti. I dannati della bolgia hanno il volto tornato dalle reni. È lor tolto il veder dinanzi. Chi vede dinanzi è prudens, cioè porro videns.23 Assomigliano essi a quelli che hanno mala luce, e vedono ciò che è lontano, e ciò che è presso non vedono.24 Qui Virgilio, oltre l’ammonimento ch’esso fa a Dante e Dante fa al lettore, espone a lui l’origine di Mantova lungamente, e conclude:25 [p. 283 modifica]

               la verità nulla menzogna frodi:

la verità che è il bene dell’intelletto. E ricorda “l’alta sua tragedia„ e ricorda che il suo discepolo “la sa tutta quanta„.26 E infine, con uno splendore che illumina tutti i miei poveri argomenti e tutte le mie umili giravolte dietro il viatore del mistero raggia “la luna tonda„ che significa la prudenza.27

Dante ha sanata la ferita della concupiscenza nel secondo cerchio, venendo meno di pietà avanti Francesca; quella dell’infermità passando lo Stige e respingendo Filippo Argenti; quella della malizia attraversando il primo cerchietto; quella dell’ignoranza, per sè, nel cimitero degli eresiarche; quella dell’ignoranza complicata con la ingiuria, nei due ultimi cerchietti. La libertà e la prudenza innate ha riacquistate nel vestibolo e nel passo d’Acheronte e nel limbo; la temperanza e la fortezza passando lo Stige; la giustizia passando Flegetonte: la prudenza avanti i mal veggenti delle arche e avanti i dietro veggenti della bolgia quarta.

La pietà della quale vien meno al principio, qui all’ultimo deve essere morta, come morta ha da essere la viltà sul proprio entrare dell’inferno.

Note

  1. Inf. XX 27 segg.
  2. Inf. XVIII 121 segg.
  3. ib. 85 segg. 127 segg.
  4. Inf. XX 19 segg.
  5. Inf. XXXII 37.
  6. ib. 53 seg.
  7. ib. 74 segg.
  8. Inf. XXXI 101.
  9. ib. 49 segg.
  10. Inf. XXXI 92, 119 seg.
  11. ib. 96, 115 segg.
  12. Inf. XXXII 94.
  13. Inf. XXXI 67 segg. 71 seg.
  14. Inf. XXXII 137.
  15. Inf. X 32, 65.
  16. Purg. III 45.
  17. Inf. XXXI 55 seg.
  18. Inf. XI 25, 52 segg.
  19. Inf. XXIII 116 seg.
  20. Inf. XXXII 133. Per il conte Ugolino, rimando alla «Minerva oscura». Non posso che confermare quanto di lui ho scritto. Posso aggiungere che la parola «bestial segno» riconduce alla bestialità che Aristotele ha tanto di mira, dei cannibali: la quale bestialità di Ugolino è poi attestata da un’antica cronaca edita dal Villari (I primi due secoli della storia di Firenze p. 251) e già a me indicata dal Torraca: Rass. Bibl. d. lett. it. III 250 sg.
  21. Inf. XXXIII 85 seg.
  22. Inf. XX 25.
  23. Vedi più su a pag. 30.
  24. Infatti l’an. fior. comenta: «Et ancora si può qui moralizzare questo loro andare piccino ch’è per opposito del trascorrere ch’egliono feciono collo intelletto in giudicare le cose di lungi et lontane, et in questo modo perderono et non seppono le presenti».
  25. Inf. XX 99.
  26. Inf. XX 114.
  27. Vedi più su a pag. 41. La prudenza è significata dal «carbonchio che allumina la notte». Brunetto, Tesoro, Vol. III prologo.