Sotto il velame/Le rovine e il gran veglio/VI

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Le rovine e il gran veglio - VI

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Le rovine e il gran veglio - VI
Le rovine e il gran veglio - V Le rovine e il gran veglio - VII
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VI.


L’incontinenza è, nell’inferno, tra la prima rovina e lo Stige, sino alle mura della città che ha nome Dite. La rovina è, forse, l’entrare stesso; è l’entrare stesso, per chi creda alla virtù dello stile Dantesco, di compiere a poco a poco il suo concetto.

Ma, a ogni modo, Minos, parlando di ampiezza d’entrare, segna un nuovo principio dell’inferno, che pur comincia con la porta disserrata. In vero qui comincia l’inferno del peccato attuale; e questo inferno comincia con l’incontinenza, la quale si estende sino a Dite. E l’incontinenza è di due specie; di concupiscibile, o concupiscenza; d’irascibile, o infermità. L’una è connessa con l’altra come causa ad [p. 213 modifica]effetto. La lonza è leggera e presta molto, come leggeri sono al vento e trascinati in rapido volo di stornelli e di gru e di colombe i peccatori carnali; ma contro lei vale il farmaco stesso che doveva valere, contro la loro infermità, ai fitti nel fango. E la femmina è, sì, inferma di tutto il corpo; ma diventa via via dolce sirena. Il fiume Stige è, nel gettarsi dal cerchio degli avari, cerchio che è d’incontinenza di concupiscibile, è sì fervido e corrente (bolle e riversa),1 ma si fa perso e buio e fangoso. Ed è tristo, come tristi sono quelli che nella sua belletta son fitti.2

Or come nel proprio ingresso dell’inferno, nel vestibolo, Dante, a conforto di Virgilio, mortifica la viltà,3 qui nel cerchio che è primo del peccato attuale e primo dell’incontinenza, cade “come corpo morto„.4 Ma di pietà, vien meno; di quel sentimento cioè che non prova se non al cominciare, e smette poi e non deve provare nel vestibolo; sì nel limbo, e in alto grado, poichè esso è un gran duolo che gli prende al cuore. E questo sentimento è vivo anche nel cerchio della gola; pur meno che nel [p. 214 modifica]precedente chè non se ne muore già! E tuttavia le parole prime di Dante a Ciacco non son senza compassione, e le altre sono pur pietose:5

                          Ciacco il tuo affanno
               mi pesa sì che a lagrimar m’invita.

Sono queste molto simili a quelle di Dante a Francesca:6

                       Francesca, i tuoi martiri
               al lagrimar mi fanno tristo e pio;

pur meno dolenti; e d’altra parte non si concludono con quella pietà per la quale Dante vien meno avanti il pianto de’ due cognati. Trapassando sulla vanità di quei peccatori e pestando la sozza mescolanza dell’ombre e della pioggia, toccano “un poco la vita futura„; e Dante sa che, dopo il gran dì, quando l’ombre avranno ricoverato il loro corpo, soffriranno ancor più. Nel cerchio degli avari, la pietà di Dante scema, ma non si annulla. Egli esclama subito:7

             Ahi giustizia di Dio, tante che stipa
             nuove travaglie e pene...?

E poi, dopo aver veduta meglio la ridda, egli “avea lo cor quasi compunto„. Ma nessun nome è fatto, a nessuna ombra in particolare è volta questa quasi pietà. E qui si tocca della eternità della lor pena e poi della fortuna “che i ben del mondo ha sì tra branche„.8 E poi si scende “a maggior pièta„9 [p. 215 modifica]e a tanto minor pietà. Chè al peccatore che si fa dinanzi alla barca e dice:

               Vedi che son un che piango;

Dante risponde:

                       Con piangere e con lutto,
               spirito maledetto, ti rimani;
               ch’io ti conosco ancor sia lordo tutto.

E il maestro gli grida:

               Via costà con gli altri cani!

E Virgilio abbraccia e bacia il discepolo, e ne benedice la madre, lodando il suo sdegno. E trova giusto e conveniente il disìo di Dante, di vedere attuffar nel brago il misero. E si lascia quell’infelice “che in sè medesimo si volgea coi denti„ con quelle parole di spregio che assomigliano al “dicerolti molto breve„ e al “guarda e passa„ del vestibolo:10

       Quivi il lasciammo, che più non ne narro.

La pietà è diminuita a mano a mano da Francesca a Ciacco e agli avari, finchè avanti a Filippo Argenti è nulla: invece di pietà, sdegno; invece di pietà, gioia; invece di pietà, disprezzo. E tutto questo, sdegno e disprezzo se non gioia, si trova nel vestibolo, mentre nel limbo si prova gran duolo. C’è dunque quasi una posposizione: nell’inferno del peccato originale, prima è lo sdegno e poi la pietà; nella prima parte dell’inferno del peccato attuale, [p. 216 modifica]ossia tra l’incontinenza, prima è la pietà e poi lo sdegno: pietà per la concupiscenza, massima nella lussuria, minima nell’avarizia; sdegno, per che cosa? per l’infermità speciale, che è l’inordinazione dell’irascibile all’arduo. E qui ci troviamo davvero avanti all’arduo, con la nostra interpretazione; poichè i lettori e i critici fissi nell’idea che “color cui vinse l’ira„ siano i rei d’ira, chiudono gli occhi e abbassano il capo e recalcitrano.

Io ho già detto che come avarizia è la denominazione della colpa sì degli avari e sì dei prodighi nel cerchio precedente, così nella palude accidia è sì di color cui vinse l’ira, sì dei tristi che hanno mozza la parola e portarono dentro accidioso fummo. Ora dirò come l’infermità dell’irascibile, per cui esso è destituito del suo ordine all’arduo, sia non solo accidia, come è chiaro, ma sia accidia anche dove pare ira e non è. In vero la virtù che è nell’irascibile come in subbietto, è la fortezza.11 Or la fortezza, come Dante stesso dice, “è arme e freno a moderare l’audacia e la timidità nostra nelle cose che sono corruzione della nostra vita„.12 Poichè “ciascuna di queste virtù ha due nemici collaterali, cioè vizii, uno in troppo, e un altro in poco„,13 i due nemici collaterali della fortezza sono appunto l’audacia e la timidità. La timidità Dante chiama, nel luogo della Comedia, tristizia o accidia: come chiama l’audacia? Chè il contrario di quella tristizia la quale è timidità, è l’audacia, e non altro. La chiama “orgoglio„.14 [p. 217 modifica]

               Quei fu al mondo persona orgogliosa:
               bontà non è che sua memoria fregi.

E orgoglio in Dante è il rimpettire e tronfiare e rotare dei colombi,15 e quel di Serse, a gettare un ponte sul mare,16 e quel degli Arabi a passar l’Alpe,17 e quel della gente nuova,18 e quel che cade, insieme con l’uncino, a Malacoda, appena Virgilio gli ha parlato.19 Tutte queste volte l’orgoglio è qualche cosa che cade subito, qualche cosa di vano e in sè e nell’effetto. Grazioso è il fatto dei colombi: il loro orgoglio, quella loro pettoruta e fremebonda alterigia, cessa a un tratto per una manata di becchime: beccano queti: a un tratto un sassolino che cade vicino a loro, li fa levar su in un impeto di paura. Non sono davvero forti, i cari colombi, ma orgogliosi o timidi. E passando agli uomini, orgoglio è, dunque, in Dante non tanto a indicare la grandezza del pericolo affrontato e dell’impresa assunta, quanto a significare la subita fine d’una vampa improvvisa e vana. Così è di Serse, così degli Arabi, così di Malacoda. E come non della gente nuova? E come non di Filippo Argenti?

Così inteso l’orgoglio è proprio tutt’uno con l’audacia. Nel libro di Tullio, donde prese la violenza e la frode, Dante leggeva un detto di Platone,20 che “un animo pronto al pericolo, se è spinto da sua cupidità, non dal comun bene, deve avere piuttosto il nome di audacia che di fortezza„. Ora egli dice di Filippo Argenti: [p. 218 modifica]

               Bontà non è che sua memoria fregi;

e ciò dice subito dopo aver mentovato il suo orgoglio. Non è lecito presumere che il pensiero di Dante sia appunto che quello dello Argenti era orgoglio od audacia per ciò che il suo animo non era spinto dal bene comune, sì che nessun bene di lui si poteva raccontare? Ma un’altra cosa certo il Poeta non ignorava, chè era del maestro di color che sanno e nella Etica la quale Virgilio a Dante dice: Tua. Aristotele, riportato nella Somma, dice che “gli audaci sono prevolanti, e volanti avanti i pericoli; ma quando ci sono dentro, si partono„.21 I forti, dichiara il dottore, i forti invece persistono nel pericolo, perchè nulla d’impreveduto vi provano, anzi vedono il rischio minore di quel che pensavano. E sèguita: “o anche perchè affrontano i pericoli per il bene; il qual volere di bene persevera in essi, per grandi che i pericoli siano; mentre gli audaci li affrontano per la sola estimazione, la quale dà speranza ed esclude il timore„; per la sola estimazione che sia possibile la vittoria.22 Dal che si raccoglie che l’audacia, non essendo per il bene, finisce subito in viltà.

Or non è tutto ciò in Filippo Argenti? Egli è prevolante:23

               Mentre noi correvam la morta gora,
               dinanzi mi si fece un pien di fango,
               e disse: Chi se’ tu che vieni anzi ora?

Dopo breve diverbio,24 [p. 219 modifica]

               allora stese al legno ambo le mani...

Fosse per salire o per trarre seco Dante nella palude, l’atto è di audace. Ebbene come risponde, alla spinta di Virgilio, questa ombra che affronta un vivo e un morto e un navicellaio degli abissi nel suo legno?

Ma: non risponde. Si toglie giù subito della sua impresa, quale ella fosse. Poi le fangose genti ne fanno strazio; sia questo strazio di sole grida, sia anche di percosse, e con mano e con la testa, col petto e co’ piedi (il che non credo); ma sia come sia: che cosa risponde alle grida Filippo Argenti?25

               Il fiorentino spirito bizzarro
               in se medesmo si volgea coi denti.

Alle grida risponde così, non certo a uno strazio, se ci fu, manesco. Provatevi a imaginarlo, battuto e addentato e lacerato, che morde sè stesso! per la gran rabbia! mentre ha lì presso su chi sfogare la furia! No, no. Vedete tanti di quei fangosi in gruppo che urlano e beffano e ridono, correndo verso lui, che non aveva detto il nome: A Filippo Argenti! a Filippo Argenti! Esso si rode, si morde. Perchè gridano quelli? perchè si morde esso? Perchè è stato vile prima, gridano; e perchè è vile ora, si morde. L’audacia che era stata grande avanti il pericolo creduto lieve, era sbollita subito avanti Virgilio, e non si mostra più avanti le fangose genti.26 Con [p. 220 modifica]tutta la sua furia, non si slancia contro gli assalitori e gridatori e beffeggiatori. E poi? Dante più non ne narra; ma il pericolo in cui l’orgoglioso si trova e le percosse che riceve o riceverà, non avranno potere di rendergli la sua audacia, chè, a destar l’audacia, occorre l’ira, e l’ira non sorge, per lesioni, se non c’è qualche speranza di vendetta. È dottrina della Somma e di Aristotele.27 L’Argenti rassomiglierà ai tristi, perchè tristizia nasce e non ira, quando non c’è quella speranza:28 ai tristi, ai quali gli audaci assomigliano in un’altra cosa: nel tremore; sebbene nei primi avvenga per il correre del sangue alle parti basse e nei secondi per il suo affluire al cuore.29 A ogni modo pensiamo che l’audacia è tanto contraria, quanto è la timidità, alla fortezza, e che l’audace è un non forte, un vile, come il timido; e ripensiamo che il vizio di Filippo Argenti è quello dei colombi che fanno la rota, e poi per un po’ di contrasto s’impaurano e volano su rombando.

Note

  1. Inf. VII 101 e segg.
  2. Dante sapeva da Servio (Aen. VI, 134, 94) che Styx moerorem significat... a tristitia Styx dicta est. Sapeva da lui che lo Stige è la continuazione dell’Acheronte, chè trovava al 297 che l’Acheronte getta la sua arena in Cocito, scilicet per Stygem. Sapeva anche il perchè della polionimia dell’unico fiume, chè trovava al 295 qui caret gaudio (Acheronte è interpretato caret gaudio), sine dubio tristis est. Sapeva, che Cocito è luctus (297 e 132), qui procreatur e morte. Sapeva, oltre che da Virgilio che ha al 550, rapidus flammis ... torrentibus amnis, sapeva da Servio che il poeta per Phlegethonta (c’è anche la ragione della forma Flegetonta) ignem significat.
  3. Inf. III 15, 20.
  4. Inf. V 142.
  5. Inf. VI 58.
  6. Inf. V 116 seg.
  7. Inf. VII 19, 36.
  8. ib. 36, 52 segg. 55, 67 segg.
  9. ib. 97.
  10. Inf. VIII 31 segg.
  11. Summa 1a 2ae 85, 2.
  12. Conv. IV 17.
  13. ib.
  14. Inf. VIII 46.
  15. Purg. II 126.
  16. Purg. XXVIII 72.
  17. Purg. VI 49.
  18. Inf. XVI 74.
  19. Inf. XXI 85.
  20. De off. I, 19. 63.
  21. Eth III 7; Summa 1a 2ae 45, 4.
  22. ib. Art. 44.
  23. Inf. VIII 31 segg.
  24. Inf. VIII 40.
  25. Inf. VIII 62 seg.
  26. B. da Buti: «E dice l’autore che li altri spiriti gridavano contra costui, e concordavano a gittarli del loto, et attuffarlo, e sommergerlo nel palude». Dante non ci narra come poi l’attuffassero; più non ne narra. E lascia la narrazione appunto quando il tuffo non era ancor dato. Lo «strazio» è per me «la baia». L’Ottimo pare intenda così. «Discrive l’autore come fu contento dello strazio, che fu fatto di quello spirito, e ivi palesò il nome suo». Ivi, cioè nelle grida: e lo strazio era dunque di grida.
  27. Summa 1a 2ae 45, 4.
  28. ib. 46, 1.
  29. ib. 45, 4.