Sotto il velame/Le rovine e il gran veglio/VII

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Le rovine e il gran veglio - VII

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Le rovine e il gran veglio - VII
Le rovine e il gran veglio - VI Le rovine e il gran veglio - VIII
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VII.


Difficile è sbarbare le quercie secolari, quando tutta la roccia vien via con loro.

Si dice: Color cui vinse l’ira, sono certamente rei d’ira, checchè s’argomenti. Bene. Vedendo la moltitudine degli Ebrei schiamazzare e prendere in [p. 221 modifica]mano le pietre per lapidare Moisè ed Aronne, chi non direbbe che sono rei d’ira?1 Vedendo le donne troiane furiose (actae furore) inalzare insieme un alto grido e prendere il fuoco di su l’are e ardere le navi; chi non direbbe che sono ree d’ira?2 E no: a questi e a quelli dispiacque il bene, la gloria, la terra promessa: sono rei d’accidia, come afferma Dante, ponendo gli uni e le altre, sebbene pure schiamazzassero e prendessero in mano fiaccole e pietre, ad esempio appunto d’accidia.3 Chè l’accidia è definita, in quel canto, negligenza e indugio messo per tepidezza in ben fare. Qual peccato è di Filippo Argenti, di cui si dice che

               bontà non è che sua memoria fregi?

Non è quello stesso dei gran re che staranno come porci in brago, lasciando di sè disprezzo? Perchè questo accenno alla memoria lasciata dai peccatori della palude? Come mai consuona così perfettamente con ciò che Dante dice della turba troiana che

               sè stessa a vita senza gloria offerse?

Il Poeta dice che il medesimo castigo nello inferno e la stessa cattiva memoria nel mondo aspetta sì quelli che in vita dormirono e sì quelli che sembravano anche troppo desti: gridarono, s’atteggiarono, si pompeggiarono: e non fecero nulla di buono. I gran regi? Già, grandi furono: molte parole e fatti pochi, gran gesti e punte gesta. Reo d’ira Filippo [p. 222 modifica]Argenti e i rissosi del pantano? Ma dunque, per Dante, l’ira è sempre senza ingiuria? Perchè costoro non sono colpevoli di malizia, della quale, ingiuria è il fine: sono di qua non di là della città roggia. Sempre senza ingiuria? Così fatta che l’ingiuria ne è sempre esclusa? Dicono: di là degli spaldi, sarà punita l’ira con ingiuria; qui è l’ira senza ingiuria. Già: di qua anche la lussuria senza il suo atto o abito proprio? e così gli altri peccati d’incontinenza? Perchè l’ingiuria, ingiuria per ingiuria cioè vendetta, è il proprio fine dell’ira, come il piacer carnale è della lussuria, e la ricchezza che mal si tiene o mal si spende, dell’avarizia. Un’ira senza ingiuria sarebbe come una lussuria senza piacer carnale e come una avarizia senza mal dare o senza mal tenere. Diranno: un’ira senza altra ingiuria che meditata e non fatta. Già: come una colpa della gola senz’altro stravizio che pensato e disegnato: colpa da poverini, e non da Ciacchi. Ma via: l’ira che medita ma non fa l’ingiuria, non è ira. L’ira è pronta, è subitanea, è pazza. Dice S. Tommaso che tristizia, non è ira, si forma nel cuore di chi la vendetta non ispera.4 E a ogni modo veniale è l’ira che non si conduce ad effetto.5 È un movimento cattivo seguito da un buono. Ma diranno ancora: le genti fangose stanno con sembiante offeso e si percotono6

                                    non pur con mano,
               ma con la testa e col petto e co’ piedi,
               troncandosi coi denti a brano a brano.

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E poi fanno strazio (qual che sia) di Filippo Argenti, e gridano e s’avventano contro lui. Come non fanno ingiuria costoro cui vinse l’ira?

Fanno, ma non fecero. Sarebbero, se ingiuria avessero fatta, puniti dove è punita la malizia che ha l’ingiuria per fine: ripeto. E se si fossero troncati coi denti in vita, sarebbero, per esempio, nella riviera di sangue o più giù. Si troncano dunque, coi denti; non si troncarono. Ed è poi così certo che tronchino altrui, e non sè stessi? A ogni modo sarebbe stata ingiuria, se in vita fosse avvenuta, anche contro sè. Il fatto è che in vita contro la giustizia non operarono, almeno direttamente: incontinenti sono, non maliziosi o felli o ingiusti. E dunque quel percotersi e troncarsi è la figurazione della loro colpa, non la ripetizione; è la figurazione, quale la rapina del vento e lo strosciar della pioggia e il rotolar massi. Ora, per quanto si muovano e si agitino, sono nel pantano, nel brago, nella belletta, che è impeditiva e vischiosa e lenta: ozio e accidia. Una differenza è certo tra quelli che vi son fitti e quelli che vi si percotono; ma non tale che il pantano, dove sono gli uni e gli altri, valga per gli uni e non per gli altri. Ora se, come non c’è dubbio, il pantano che lega e tien fitti, simboleggia il difetto di fortezza; se il brago dove stanno i porci, significa il manco di magnanimità, che è tutt’uno con la fortezza; il pantano o brago vale a sottrarre anche nei rissossi e clamorosi qualche cosa a quei loro atti e fatti, sì che non s’interpretino come di forti. Questo qualche cosa è ciò che manca alla audacia o all’orgoglio, per essere magnanimità o fortezza; mentre è invece assurdo pensare che caratterizzi il peccato [p. 224 modifica]dell’ira veloce e speditiva. Nè si dica che ben può significare l’ira, come si disse prima, che medita la vendetta e non la fa. Come, anche ammettendo che quella si possa chiamare ira, come Dante che già degli altri peccati capitali ha data la figurazione etica precisa e intiera e generale, così, per esempio, da tradurre tanto chiaramente nel quarto cerchio e nel quinto il detto del mistico “che l’accidia dà all’anima dolore, e l’avarizia, fatica„;7 così per esempio, da porre nel medesimo cerchio, in balìa del medesimo vento la vinta da un punto e la legislatrice del vizio; qui l’ira significherebbe in una sua forma secondaria e imperfetta? Qual definizione potremmo noi raccoglierne? Questa: l’ira è quel peccato per cui non si lascia buona memoria di sè. Questa: l’ira è quel peccato per cui si medita la vendetta e non si fa. Ma tutto è piano e ragionevole, se diciamo: L’accidia è quel peccato per cui non si lascia alcuna buona memoria di sè; ed è, questo peccato, non solo dei timidi e dei lenti, ma di tanti altri audaci e bizzarri e orgogliosi, che paiono il contrario dei primi e su per giù sono tali e quali.

Ma Dante dice: color cui vinse l’ira. Dice: ira, ira, ira. Dunque è ira, quella del quinto cerchio, [p. 225 modifica]checchè si sofistichi e si sottilizzi: ira e non altro.

E allora anche Virgilio, il quale sta coi parvoli innocenti e fuori che le tre virtù sante ebbe tutte le altre, anche Virgilio è reo d’ira e dovrebbe rissare e percotere o percotersi nel pantano? Egli in vero dice:8

                                Tu perch’io m’adiri
               non sbigottir, ch’io vincerò la prova.

E se adirarsi a qualcuno non paia essere quel che accendersi d’ira o usare ira, ecco che Virgilio si spiega meglio:9

                                la città dolente
               u’ non potemo entrare omai senz’ira.

E non è ira quella di Dante quando dice a Filippo Argenti:10

                                Con piangere e con lutto,
               spirito maledetto ti rimani?

Virgilio, per quest’atto, lo chiama: Alma sdegnosa. E non è ira quella del Maestro quando dice: Via costà con gli altri cani? E se il disdegno11 de’ diavoli che parlano “stizzosamente„ è ira o giù di lì, come non è ira quella del Messo del cielo? Dice di lui Dante:12

            Ahi quanto mi parea pien di disdegno!

E non suonano ira le sue parole ai cacciati del cielo?

[p. 226 modifica]Nel brago dunque e Dante e Virgilio e questo Messo, di cui le irose parole sono dette sante? Nel brago anche Dio? Non ha ira anche Dio?13 E si fa dolce nel suo segreto, quest’ira, che si esercita contro ognuno che venga all’Acheronte. E questo sarebbe il suo proprio peccato, chè si dice spesso che fa vendetta, che è il fine dell’ira14 e non mai che egli sia superbo, invido, accidioso e via dicendo. Ma no. Ira non è sempre nome d’un peccato, nè sempre è cattiva: tanto è vero che beati chiama l’angelo non quelli senz’ira, ma quelli che son senz’ira mala.15 Il fatto è che vi è ira16 passione dell’anima e ira vizio. Bene: le passioni dell’anima “in quanto sono fuor dell’ordine della ragione inchinano al peccato; in quanto sono ordinate dalla ragione, appartengono a virtù„.17 Vi è dunque un’ira passione la quale inchina ora al peccato, ora alla virtù.

Su questo era dissenso tra il Peripato e la Stoa. Il dissenso è detto da S. Tommaso più di parole che di sostanza.18 Così pensa Dante, il quale non si lascia persuadere da Seneca stoico, del quale conosce, o interi o per estratti, i libri de ira, e segue Aristotele, pur prendendo anche dall’altro, convinto che non si tratti se non d’una differenza secundum vocem.

Ora ecco la dottrina di Aristotele:19 “Abiti [p. 227 modifica]sono quelli per i quali intorno a queste cose (ira, timore, odio, etc.) ci comportiamo bene o male, come per l’escandescenza; che se ciò facciamo con ismodata iracondia, noi pecchiamo intorno all’ira; se in ciò che conviene non siamo commossi d’ira, così ancora pecchiamo intorno all’ira. Il giusto mezzo è dunque che non ci commoviamo smodatamente, nè siamo al tutto lontani d’ogni commovimento„.

Ognun vede che qui, in mezzo al soverchio e al difetto, c’è un’ira che s’ha a chiamar buona, e che non è un vizio, ma una passione. Il dissidio tra Peripatetici e Stoici è tutto su questa parola, a detta di S. Tommaso: gli Stoici non riconoscono passione buona e quindi affermano che i Peripatetici mettono come virtù un vizio. Ma Dante è con S. Tommaso, poichè ammette un’ira di Virgilio e di sè e del Messo buona, e un’ira persino di Dio, sebben metaphorice, e una vendetta di lui. E si vede chiaramente che egli pone tra quelli che si commuovono smodatamente, ciò sono i rissossi, e tra quelli lontani d’ogni commovimento, vale a dire i fitti nel fango, sè stesso e Virgilio e il Messo del cielo i quali hanno un giusto mezzo d’ira. E quelli sono incontinenti d’ira, come quelli del cerchio precedente sono incontinenti dell’amor delle ricchezze: dismisurati dunque. E questa espressione “incontinente d’ira„ è di Aristotele e della Somma, a ogni tratto, invece che “incontinente d’irascibile„; e non significa proprio nella Somma, colpevole del quinto peccato capitale; ma incontinente di quella passione dell’anima che è detta ira: incontinente della passione, non del vizio.20 [p. 228 modifica]Si tratta dunque di sapere se qui, in questo canto, incontinente della passione ira vuol dire reo del peccato o del vizio d’ira, o altrimenti.

I peripatetici la passione d’ira chiamavano “cote della fortezza„.21 Dicevano che d’uno, se preso d’ira, molto più veemente era l’impeto e contro il nemico esterno e contro il cattivo cittadino. Dicevano che combattere per le leggi, per la libertà, per la patria, non si può fortemente, se dall’ira non è scaldata e arroventata la fortezza. Dietro loro S. Gregorio chiamava l’ira “strumento della virtù„, aggiungendo che l’ira non deve essere della mente la padrona ma l’ancella;22 un’ancella pronta sempre ai suoi servigi e che quindi sempre stia a tergo. La passione dell’ira, dice S. Tommaso, è utile, come pur tutti i movimenti dell’appetito sensitivo, a ciò che l’uomo più prontamente eseguisca quel che la ragione detta. E dice S. Tommaso che lodevole è questa passione dell’appetito sensitivo, lodevole l’appetito d’ira, “se qualcuno appetisce, che secondo l’ordine della ragione si faccia vendetta (giustizia); e questa si chiama ira per zelum„.23

Ora ognun vede che lo sdegno di Dante contro il pien di fango è questa ira per zelum. “Con piangere e con lutto„ esclama egli, rimani a scontare la tua pena, chè è su te giusta vendetta. Ognun vede che l’ira, a cui si dispone Virgilio, è quell’ira utile a più prontamente eseguire ciò che la ragione detta, è [p. 229 modifica]quell’ira che è strumento della virtù, è quell’ira che rende più veemente l’impeto contro gli avversari.

Ma quell’ira è uno strumento della virtù, non è una virtù; poichè è una passione, ripeto. Quale è la virtù di cui è strumento? Quella di cui è cote, secondo i Perlpatetici; quella di cui è arme e sprone, secondo Dante: la fortezza o magnanimità, che per quella si accende. Ebbene, come si sostituisce al nome della passione, contenuta ne’ suoi modi, il nome della virtù, che per quella si esercita; così si deve sostituire al nome della passione, quando è dismisurata, quando non ubbidisce alla ragione, quando non è freno nè sprone, il nome del vizio, cioè dei due vizi collaterali, che per quella dismisura si formano. E questi sono audacia e timidità, oppure, orgoglio e tristizia.

Fortezza è la virtù di Dante quando inveisce contro il fangoso; fortezza, quella di Virgilio e del Messo; chè a fortezza pertiene stare contro qualunque ostacolo;24 a fortezza spetta conservare tutto l’ordine della giustizia.25 Tutto in questo episodio parla di fortezza. E non voglio tacerne un esempio, atto singolarmente a darci un’idea dello stile drammatico e allegorico del poeta. Dice Virgilio a Dante spaurito e scoraggiato:26

               Ma qui m’attendi; e lo spirito lasso
               conforta e ciba di speranza buona...

C’è il senso ovvio delle parole, ma c’è anche un senso dottrinale; c’è l’eco di questa asserzione di [p. 230 modifica]Aristotele: “il forte è di buona speranza„.27 Si tratta di fortezza da una parte e di audacia e timidità dall’altra, aggirantisi, tutte e tre, intorno alla passione dell’ira; poichè la prima ne è animata all’azione per la giustizia, e le altre due, per eccesso di quella o per difetto, riescono al contrario della fortezza cioè al contrario dell’azione, cioè all’infermità. La fortezza è necessaria a conservare l’ordine della giustizia. Di questo uso di tal virtù dà prova Dante sdegnando il pien di fango, e assentendo alla sua pena, e lodandone Dio, giusto giudice:28

               Dopo ciò poco vidi quello strazio
               far di costui alle fangose genti
               che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.

E Virgilio porge di ciò altissimo encomio a Dante, ed esso medesimo, e col suo sospingere l’audace od orgoglioso e col suo approvare Dante, dà esempio della medesima virtù. La pietà, che in tutti e due è stata massima nel limbo e grande nel secondo cerchio ed è diminuita nel terzo e nel quarto s’è fatta quasi nulla, qui non si mostra più. Il disprezzo che Virgilio consiglia e Dante adempie contro gli sciaurati del vestibolo, qui diventa, a giudicare umanamente, crudele. Ora quale è la propria ragione di questo ordine di fatti? Che non è tale da avere la sola spiegazione nel sentimento e nel compatire dell’uomo. C’è, per esempio, dalla lussuria all’avarizia un digradare di pietà che risponde, è vero, non solo al [p. 231 modifica]sentimento di Dante, ma al nostro; e tuttavia quel digradare risponde anche all’ordine classico dei peccati capitali. Quale, la propria ragione di quel fatto? Perchè approvare, sancire, lodare la giustizia, di Dio particolarmente per gl’ignavi, per gli avari e massime per gl’infirmi del brago?29 C’è una ragione dottrinale, oltre la ragione del sentimento? Chè si tratta proprio di questo fatto: riconoscere la giustizia di Dio nella pena di questi peccatori più marcatamente che in quella di altri. Dice Virgilio degli ignavi:30

               Misericordia e giustizia gli sdegna;
               non ragioniam di lor, ma guarda e passa.

Dice degli avari:31

               In eterno verranno alli due cozzi...

E prima Dante e poi Virgilio ributtano il pien di fango nel suo fango e nella sua pena: Rimani! Via costà! Di più Flegias, il barcaiuolo dello Stige, è colui che grida nell’inferno Virgiliano: Imparate giustizia! Di più gli avari e prodighi sono concepiti come tali che si siano affannati e “rabbuffati„ per contrastare alla “ministra e duce„ che permuta li ben vani: ella ha un occulto giudizio, ella giudica.32 Già notai come il mal tenere è principio d’ingiustizia; chè non può alcuno abbondare senza che ad altri [p. 232 modifica]manchi. Dice Dante altrove33 che nell’avvenimento delle ricchezze “nulla distributiva giustizia risplende„. All’ingresso di questo cerchio è Pluto, che è detto maledetto lupo e il gran nemico; che è perciò l’avarizia, o meglio cupidità, in quanto riesce a mala volontà, cioè a ingiuria. E gl’ignavi, perchè non operarono, furono, sì, privi di ogni virtù, ma specialmente di quella a cui le altre virtù concludono: della giustizia; come della prudenza, che le altre virtù conduce, furono privi quelli del limbo. Tutte queste osservazioni portano a riconoscere che la giustizia c’entra nel disprezzo mostrato contro questi dannati e da Virgilio e da Dante.

Si ricorda e si loda, insomma, la giustizia di Dio a proposito di loro, più che d’altri, perchè nella giustizia in qualche modo offesero. Ma gli ignavi sono nell’inferno del peccato originale, e non peccarono attualmente; ma gli avari e i fangosi sono incontinenti e non maliziosi o ingiusti. Bene; ma gl’ignavi rappresentano la mancanza di “giustizia originale„; ma gli avari sono rei della colpa media tra l’incontinenza e la ingiustizia; ma color cui vinse l’ira e i fitti nel fango ebbero i due vizi contrari alla fortezza, la quale è la virtù che è utile alla giustizia.

Note

  1. Num. XIV: Cumque clamaret omnis multitudo etc.
  2. Aen. V 659 segg.
  3. Purg. XVIII 133 segg.
  4. Summa 2a 2ae, 138, 3.
  5. Summa 1a 2ae 46, 1.
  6. Inf. VII, 111 segg.
  7. Hugo de S. Vict. All. in N.T. II, 5 «Acedia igitur animae dolorem facit, avaritia laborem, quia illa per tristitiam afficit, ista per varia desideria scindens in laboriosos conatus extendit». Altro da lui ha preso Dante, e anche, forse, la doppia manifestazione dell’accidia che è definita «tedio dell’anima... quando ella, perduto il suo bene, rimane solitaria e abbandonata e si muta sibi ipsi (in sè medesima) in amaritudine e dolore». Dolore è quello dei tristi, amaritudine quella dei rissosi. Non pare? E ciò non esclude l’equazione filosofica di accidia uguale a difetto di fortezza.
  8. Inf. VIII 121.
  9. Inf. IX 32 seg.
  10. Inf. VIII 37 seg.
  11. ib. 88, 83.
  12. Inf. IX 88.
  13. Per limitarci, cfr. Inf. XI 74, Purg. XX 96, Inf. III 122.
  14. Per esempio, Inf. XIV 16: «O vendetta di Dio!»
  15. Purg. XVII 68 seg.
  16. Per esempio, Summa 1a 2ae 23, 3: Ira est quaedam passio animae.
  17. Summa 1a 2ae 24, 2.
  18. ib. Stoici dixerunt, omnes passiones esse malas: Peripatetici vero dixerunt, passiones moderatas esse bonas. Quae quidem differentia, licet magna videatur secundum vocem, tamen secundum rem vel nulla est, vel parva, si quis utrorumque intentiones consideret.
  19. Magn. Mor. I 7, 3.
  20. Per esempio, Summa 1a 2ae 77, 2; 78, 4; 2a 2ae 53, 6; 156, 4 etc.
  21. Cic. Tusc. IV 19, 43. Qui Cicerone, giocando sulle parole, come egli riprova l’opinione degli Aristotelici, quest’ira la chiama iracundia, che è veramente vizio.
  22. Summa 2a 2ae 158, 1.
  23. ib. 2.
  24. Summa 2a 2ae 123, 2.
  25. ib. 12.
  26. Inf. VIII 106 segg.
  27. Summa 2a 2ae 123, 9: Philosopus dicit... quod fortis est bonae spei.
  28. Inf. VIII 58 segg.
  29. Il lettore tenga poi presente ciò che intorno all’Argenti scrissi nella Minerva oscura. Dante s’è ispirato al Palinuro Virgiliano che iniussus (Aen. VI 375) vorrebbe passar lo Stige. Così l’Argenti; iniussus, perchè, analogamente agl’ignavi, giustizia lo sdegna.
  30. Inf. III 58 seg.
  31. Inf. VII 55.
  32. Inf. VII 61 segg. 83, 86.
  33. Conv. IV 11.