Sulla lingua italiana. Discorsi sei/Discorso quarto

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Discorso quarto
Epoca quarta
dall'anno 1350 al 1400

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Discorso quarto
Epoca quarta
dall'anno 1350 al 1400
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Siamo oggimai all’epoca del Boccaccio, o a dir più giusto, del Decamerone, sul quale per più secoli i principj, gli esempi di tutte le regole, e le grammatiche, e il Grande Dizionario della lingua Italiana si sono fondati. Anzi le Novelle del Boccaccio furono considerate per quattrocento anni il deposito di ogni umana eloquenza; e le lodi sono ripetute da un illustre critico Francese, al quale non si possono apporre pregiudizj nazionali, nè superstizioni di accademie e di scuole. - Or da che noi non siamo in tutto della stessa opinione, stimiamo prezzo dell’opera e obbligo nostro di attendere con maggior cura all’esame di quest’opera, e del libro che la rende sì illustre.

Era Giovanni Boccaccio dotato dalla natura di facondia a descrivere minutamente e con maravigliosa proprietà ed esattezza ogni cosa. Mancava al tutto di quella fantasia pittrice, la quale condensando pensieri, affetti ed immagini li fa scoppiare impetuosamente con modi di dire sdegnosi d’ogni ragione rettorica. Però in tanti suoi libri di versi e rime pare spesso poeta nell’invenzione, e non mai nello stile; di che i fondatori dell’Accademia della Crusca atterriti, come di cosa fuor di natura, esclamavano che il Boccaccio, che sorpassò tutti gli scrittori nelle sue Novelle, non ha mai potuto comporre una stanza in rime degna del nome di poesia1. Del resto, quella sua prodigalità di parole sceltissime, e i sinonimi accumulati, e i significati purissimi, schietti per lo più di metafore, e vaghi di vezzi nella giuntura delle frasi giovano a lasciar osservare tutti gli elementi della sua prosa, e scemasi alquanto la somma difficoltà di scevrare le leggi certe grammaticali dalle arbitrarie de’ retori; e la materia perpetua della lingua dalle forme mutabili dello stile. Fra quante opere abbiamo del Boccaccio, la più luminosa di stile e di pensieri a noi pare la Vita di Dante: e la sua lunga Lettera a Pino de’ Rossi a confortarlo nell’esilio è caldissima d’eloquenza signorile; onde i vocaboli corrono meno lenti e più gravi d’idee che nelle Novelle. Le tante macchie di lingua scoperte dagli Accademici in que’ due volumetti2, sono invisibili a noi, colpa forse del non saperle discernere. Forse anche que’ volumetti dispiacquero perchè pajono in lingua piuttosto italiana che fiorentina; e sono meno ricchi di parole non necessarie, più rigorosi nella sintassi, e meno vezzosi di quelle grazie, le quali, per essere più dell’autore che della lingua, non furono imitate mai che non paressero smancerie. Loderemo dunque ogni superfluità di parole in quanto il Decamerone somministra maggior numero d’osservazioni grammaticali; e tanto più quanto la qualità diversa di cento novelle, e la varietà degli umani caratteri che vi sono descritti porsero occasioni all’autore di applicare ogni colore e ogni studio alla lingua, e farla parlare a principi e a matrone e a furfanti e a fantesche e a tonsurati ed a vergini, ed a chi no? onde in questo il Boccaccio è scrittore unico forse.

A critici suoi devoti pur nondimeno pare che il Boccaccio sia narratore più nobile di qualunque degli scrittori antichi; e più potente di Cicerone e di Demostene nelle dicerie de’ suoi personaggi; e più tragico d’Eschilo e d’ogni tragico nella rappresentazione di forti anime lottanti contro a passioni e sciagure; e più arguto di Luciano a deridere. - Ma lodi siffatte sentono di fanatismo. Il Boccaccio, senza essere sommo in alcuna di tante guise di stile, seppe trattarle felicemente pur tutte; il che non incontrò a verun altro, o a rarissimi.

Nondimeno M. Ginguené, uno de’ critici più eleganti e più celebri dell’età nostra, giudica che il Boccaccio, avendo avuto sotto gli occhi la storia di Tucidide e il poema di Lucrezio, abbia emulato le loro doti diverse in guisa, che gli venne fatto di superarli, e descrisse la peste da storico, da filosofo e da poeta3. Se il Boccaccio vedesse l’uno e l’altro di quelli scrittori non sappiam dirlo; ad ogni modo bastava il latino, il quale segue di passo in passo Tucidide. Molta parte dell’italiano sembra parafrasi, non pure di avvenimenti originati per avventura e in Atene e in Firenze dalla medesima epidemia, ma ben anche di riflessioni e minute particolarità, nelle quali è improbabile che gli scrittori concorressero a caso. Il merito della descrizione della pestilenza nel Decamerone non risulta così dallo stile - che raffrontato a quello di Tucidide e di Lucrezio è freddissimo, - come dal contrasto degli infermi e de’ funerali e della desolazione nella città, con la gioia tranquilla e le danze e le cene e le canzonette e il novellar della villa. In questo il Boccaccio, quand’anche avesse imitata la narrazione, l’adoperò da inventore. Bensì, guardando ciascuna descrizione da sè, la pietà ed il terrore prorompono insistenti dalle parole del Greco; e s’affollano, ma senza confondersi, da che ei procede con l’ordine che la natura diede al principio, al progresso e agli effetti di tanta calamità. Radunando circostanze due volte tante più che il Boccaccio, le dipinge energicamente in pochissimi tratti, sì che tutte cospirino simultaneamente a occupare tutte le facoltà dell’anima nostra. Il Boccaccio si sofferma a bell’agio di cosa in cosa pur a sfoggiarle con quel suo pennelleggiare che da’ pittori si chiamerebbe piazzoso; e le amplifica in guisa da far sospettare ch’egli esageri. - «Maravigliosa cosa è ad udire quello che io debbo dire; il che, se dagli occhi di molti e da’ miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fede degno udito l’avessi». E non gli basta. - Di che gli occhi miei (siccome poco davanti è detto) presero, tra l’altre volte, un dì così fatta esperienza... nella via pubblica4. Vero è che Tucidide narra con maggior efficacia, perchè n’ebbe esperienza più certa - Ho patito di quel morbo anch’io, e l’ho veduto patire dagli altri5; - ma s’astiene da ogni esclamazione rettorica, e da professioni di verità. La tempra diversa de’ loro ingegni e la diversità de’ loro studj gli ammaestrava a disegnare e colorire i medesimi fatti in due maniere affatto diverse. Le arti meretricie dell’orazione, che il Boccaccio derivò con ammirazione dai retori romani, non erano ancora fatturate da Isocrate e da que’ parolai, nè celebrate in Atene all’età di Tucidide; ond’è il men attico fra gli Ateniesi, perchè modellava il suo dialetto materno sovra la lingua universale e schiettissima discesa da Omero, la quale non fu congegnata a mosaico di dialetti diversi, com’è generale opinione, ma fu studiata da poeti e da storici a infondere qualità letteraria a’ dialetti delle loro città, sì che scrivendoli riescissero più agevoli a tutta la Grecia; - e perchè quella lingua primitiva era nazionale e vivente, i dialetti acquistavano decoro per essa, e non perdeano vigore. Il Boccaccio modellando l’idioma fiorentino su la lingua morta de’ Latini, accrescevagli dignità, ma gli mortificava la nativa energia. Finalmente Tucidide adopera i vocaboli quasi materia passiva, e li costringe a raddensare passioni, immagini e riflessioni più molte che forse non possono talor contenere; ond’ei pare quasi tiranno della sua lingua. Or il Boccaccio la vezzeggia da innamorato. Diresti ch’ei vedesse in ogni parola una vita che le fosse propria, nè bisognosa altrimenti d’essere animata dall’intelletto; e però a poter narrare interamente desiderava lingua d’eloquenza splendida e DI VOCABOLI ECCELLENTI FECONDA6, - La loro eccellenza gli era indicata dall’orecchio ch’egli a disporli nella prosa aveva delicatissimo. Certo è che l’esteriore e permanente beltà d’ogni lingua è creata da’ suoni, perchè sono qualità naturali e le sole perpetue nelle parole. Tutte altre qualità le ricevono dal consenso dell’uso, che è spesso incostante, o dalle modificazioni dissimili di sentire e di pensare degli scrittori. Non però è meno vero che quanto maggior numero di parole concorre a rappresentare il pensiero, tanto minore porzione di mente umana tocca necessariamente a ciascuna d’esse; bensì la loro moltitudine per le varietà continue de’ suoni genera più facilmente armonia. Quindi ogni stile composto più di suoni che di significati s’aggira piacevole intorno alla mente, perchè la tien desta, e non l’affatica. Ma se l’armonia compensa il languore, ritarda assai volte la velocità del pensiero; e il pensiero acquistando chiarezza dalle perifrasi, perde l’evidenza che risalta dalla proprietà e precisione delle espressioni. Sì fatti scrittori risplendono, e non riscaldano; e dove sono passionati sembrano più addestrati che nati all’eloquenza; perciò il lettore non può persuadersi che mai sentano quanto dicono: e narrando, descrivono e non dipingono: nè vien loro mai fatto di costringere la loro sentenza in un conflato di fatti, ragioni, immagini e affetti, a vibrarla quasi saetta che, senza fragore nè fiamma, lasci visibile il suo corso in un solco di calore e di luce, e arrivi dirittissima al segno. Bellissimi scrittori pur sono nel loro genere; non però vediamo come altri possa ammirare in essi riunite in sommo grado le doti dello stile de’ filosofi, degli storici, e de’ poeti. Sono doti dissimili, o che noi c’inganniamo, da quelle del Boccaccio; e n’è prova che il loro abuso le fa degenerare in difetti al tutto contrari. Tucidide ti affatica imponendoti di pensare senza riposo; e il Boccaccio forse t’annoia, come chi non rifina di ricrearti con la sua musica. È stile a ogni modo felicemente appropriato a donne briose e giovani innamorati che seggono novellando a diporto. - Ma che libri di politica, com’oggi alcuni n’escono, dettati in quell’oziosissimo stile, possano educare a sensi virili e pensieri profondi, non lo crediamo. - Di ciò veggano gl’Italiani, o più veramente, quando che sia, i loro posteri. Ma noi, guardando al passato, non possiamo da tutta la lunga storia delle lodi del Decamerone se non desumere, che la troppa ammirazione per quel libro insinuò nella lingua infiniti vizi, più agevoli a lasciarsi conoscere che a riparare; e guastò in mille guise e per lungo corso di generazioni le menti e la letteratura in Italia. Or se taluni incominciassero a’ dì nostri a cumulare sulle Novelle del Boccaccio tutti gli elogi meritati da’ lavori più nobili dell’umano ingegno, non sarebbero essi disprezzati per l’appunto da’ critici che li ripetono? Ma discendono tutti per tradizione continuata di grandi autorità e d’accademie e di scuole sino dal secolo di Leone X. Le tradizioni letterarie, nè giova indagarne il perchè, hanno più forza che le politiche e le religiose, anche negli uomini i quali possono considerare ogni cosa con filosofica libertà.

Ma di ciò avremo da dire allorchè osserveremo il secolo decimosesto, che fu la vera epoca grammaticale in Italia. L’esame riescirà tanto più nuovo, in quanto che la grammatica era intimamente connessa alle vicende politiche che sotto Carlo V trasformavano in tutto l’Italia, e alle riforme di religione che tolsero alla Chiesa di Roma una gran parte del popolo Cristiano. Allora dal concorso e dal concatenamento de’ fatti apparirà sempre più, che i falsi sistemi de’ critici, de’ grammatici e delle scuole sarebbero stati evitati, e l’Italia non avrebbe ne’ suoi scrittori di prosa altrettanti parolaj pedanteschi e gelati (come pur sono, da pochissimi in fuori), se il genio non fosse stato inceppato da troppe regole inesorabilmente imposte, patrocinate dalle accademie e tutte impossibili ad eseguirsi. Tanta miseria all’italiana Letteratura derivò dal non potere o non volere conoscere mai: - Che l’italiana è lingua letteraria; fu scritta sempre, non mai parlata. Ripetiamolo; perchè a questo centro concorrono tutti i fatti e le osservazioni; e il principio è innegabile insieme e negato, solo perchè non fu dimostrato mai. Quindi originarono, e infellonirono le questioni, e non cessano. Tutte le regole e le grammatiche e i dizionari e i giudizj de’ critici hanno adottato per unica base l’ipotesi che il Decamerone fosse scritto come si parlava a que’ tempi; - e che però si dovesse scrivere sempre indovinando finanche la pronunzia di quell’età, - e non si potesse usare senza precauzioni infinite nissuna frase o parola che non fosse o nel Decamerone, o ne’ migliori scrittori contemporanei al Boccaccio. Or chi crederà che nel tempo stesso e negli stessi libri dicevano, che il Boccaccio in tutte le altre opere in prosa non solo non è scrittore perfetto, ma che anzi è così dissimile da sè stesso in guisa, che pare un altro scrittore, e talvolta peggiore de’ suoi contemporanei? Così cadevano senza accorgersi nell’assurdità di asserire, che la lingua non fu parlata bene se non in que’ tre o quattro anni impiegati dal Boccaccio a comporre le sue Novelle. Il fatto sta che l’unico scrittore il quale scrivesse come si parlava fu Franco Sacchetti, autore di alcune poesie, e di trecento novellette, le quali è quasi impossibile di credere che noi le leggiamo, e pare d’udirle narrare buonamente. Franco pare sempre che discorra per ozio, senz’altra cura che di far ridere. Ma gli accademici della Crusca lo chiamano barbaro7: e nondimeno era concittadino e contemporaneo del Boccaccio, ed uomo di molta letteratura e di elegantissimo ingegno. Il fatto sta che Franco Sacchetti usava l’idioma popolare, e a’ critici parve barbaro; e il Boccaccio formava una lingua letteraria, e nella quale alle volte si sente più l’arte che la natura, ed a’ critici parve assai più che umana; e riducesi nè più nè meno ad essere lavoro raffinatissimo d’arte.

Il sommo, vero merito del Boccaccio sta nell’aver fatto uso del dialetto fiorentino meglio di qualunque altro scrittore, in guisa da convertirlo in lingua letteraria; e diede agli scrittori in prosa un grande esempio che non seguitarono, ed è: - Che tutte le lingue, e l’italiana più ch’altre, s’arrendono ad ogni trasformazione a chiunque può e sa far obbedire la lingua al genio. Ma ogni uomo ha genio diverso; e chiunque s’è fatto schiavo all’altrui, come molti a quel del Boccaccio, ha rinunziato alle forze sue proprie, e non può far molto uso delle accattate. Che se il Boccaccio avesse fatto prova men ambiziosa d’ingegno, i retori non avrebbero poscia usurpato il suo libro a mortificare alla lingua una facoltà nata seco, e di cui trecent’anni di inerzia, d’usi forestieri e di servitù l’avrebbero al tutto spogliata, se non fosse facoltà ingenita; ed è una ardente, diritta, evidente velocità, - vivissima nelle novelle composte forse un secolo innanzi al Decamerone. Il modo di scriverle fu agevolato dal mestiere di raccontarle, e dal costume d’udirle nelle corti de’ signori d’Italia; e ne trascriveremo una brevissima:

La Damigella tanto amò Lancialotto ch’ella venne alla morte, e comandò, che quando sua anima fosse partita dal corpo, che fosse arredata una piccola navicella, coperta d’un vermiglio sciamito con un ricco letto ivi entro, con ricche e nobili coverture di seta, ornato di ricche pietre preziose; e fosse il suo corpo messo in su questo letto, vestito de’ suoi più nobili vestimenti, e con bella corona in capo ricca di molto oro, e di molte ricche pietre preziose, e con ricca cintura, e borsa. Ed in quella borsa aveva una lettera dello infrascritto tenore. Ma prima diciamo di ciò che va innanzi alla lettera. La Damigella morìo del mal d’amore: e fu fatto de lei ciò ch’ella aveva detto della navicella sanza vela, e sanza remi, e sanza niuno sopra sagliente; e fu messa in mare. Il mare la guidò a Camalot, e ristette alla riva. Il grido fu per la Corte. I Cavalieri, e Baroni dismontaro de’ palazzi; e lo nobile Re Artù vi venne; e maravigliandosi forte molti, che sanza niuna guida questa navicella era così apportata ivi. Il Re entrò dentro; vide la Damigella, e l’arnese. Fe’ aprire la borsa; trovaro quella lettera. Fecela leggere, e dicea così: A tutti i Cavalieri della Ritonda manda salute questa Damigella di Scalot, siccome alla miglior gente del mondo. E se voi volete sapere perch’io a mio fine sono venuta, ciò è per lo migliore Cavaliere del mondo, e per lo più villano, cioè Monsignor Messer Lancialotto de Lac, che già nol seppi tanto pregare d’amore ch’elli avesse di me mercede. E così, lassa, sono morta per bene amare, come voi potete vedere.

Scarno com’è questo stile di narrazione, è pur vivo; qui la sintassi governasi da quella sola grammatica, ed è la vera e perpetua, la quale in ogni lingua vien suggerita dalla natura a tutti gli uomini, sì che s’intendano facilmente fra loro. Pochissime delle parole sono antiquate, e l’evidenza di tutte le altre si serbò sino a’ giorni nostri. Scorre per entro il racconto una certa grazia d’ironia così che, se la data non fosse avverata, darebbe da credere che lo scrittore mirasse con la sua breve e non mai terminata novella a deridere i novellatori del Decamerone, che non rifiniscono mai di prosare e ascoltarsi da sè. Alle volte anche quegli antichissimi s’industriavano di aiutarsi di molte parole, e ingrandire le descrizioni, e accrescere il calore degli affetti; ma o che la povertà de’ vocaboli della lingua ne gl’impedisse, o che non avessero ancora imparato come intrecciarle, incominciavano alle volte con un po’ di rettorica, e si tornavano sempre alla lor semplice brevità. Infatti l’autore della novelletta par che si fermi a mezzo per indigenza di locuzioni, e s’affretta a finire il racconto suo come può.

Se fosse piaciuto al Boccaccio di abbellire e allungare per via di molta varietà di circostanze, di passioni e caratteri, e di ricchezze di stile questo racconto, com’ei pur fe’ di que’ molti ch’ei derivò da’ romanzi, ei di certo si sarebbe giovato mirabilmente del nuovo modo di morire adottato dalla giovinetta, e le avrebbe disposte e colorite in maniera da conferire più verosimiglianza alla bizzarra invenzione. Se non che forse, volendo troppo descrivere la fanciulla morta vestita a nozze, e il cadavere ramingo nel mare senza certezza di sepoltura, e far parlare la giovinetta morente confortandosi della speranza di manifestare al mondo che il cavaliere non riamandola la lasciava perire, la rettorica avrebbe raffreddata la fantasia del lettore, e sparpagliate tutte quelle immagini e affetti ch’escono a un tratto spontanei dalla schietta ripetizione delle parole senz’arte. - La Damigella morìo del mal d’amore: e fu fatto de lei ciò ch’ella aveva detto della navicella sanza vela, e sanza remi, e sanza niuno sopra sagliente; e fu messa in mare. L’aridità di quasi tutti que’ primi narratori è talor compensata dalla libertà, alla quale essi lasciano la mente del lettore a sentire e pensare da sè.

Quanto più le scritture vengono verso l’età del Boccaccio, tanto più abbondano di vocaboli, e di membretti annodati da particelle, e disposti a periodi men rotti e più numerosi. Gli artifizj della sintassi si moltiplicavano per via di traduzioni e imitazioni libere dal latino; e moltissime ne giacciono inedite. La quantità di quelli scrittori, se si trovassero tutti, sarebbe innumerabile; e quasi tutti, se se ne tolgano gl’idiotismi volgari e l’incostanza dell’ortografia, possedevano quella proprietà di parole, e quella facile eleganza di metterle insieme che non fu mai più ottenuta, se non per mezzo di studio. Ciò che abbiamo affermato sulla fine del primo di questi Discorsi, Che la lingua fu rinvigorita quasi ad un tratto dalla costituzione democratica di Firenze, è illustrato specialmente da moltissimi documenti dell’età del Boccaccio. Poi quanta miseria la servitù politica portasse fin anche nell’eleganza della lingua, le seguenti epoche ne daranno tristissime prove. I Fiorentini s’arricchirono per le manifatture; passavano la lor gioventù in paesi forestieri per affari di traffichi, e ripatriavano importando nuovi usi, nuove idee, e quindi nuove parole, che in governo tutto popolare non potevano che divenir popolari in un subito. Erano repubblicani divisi in parti, che talvolta s’azzuffavano armate, e più spesso a parole nelle assemblee; e pochi vi avevano, fin anche fra gli artigiani, che non credessero le loro famiglie meritevoli della memoria de’ posteri. Scrivevano cronichette della loro repubblica, innestandovi le loro faccende domestiche, e ricordi de’ loro maggiori. Un d’essi registra: Il mio nonno faceva il badajuolo per campare8. - Un altro. Io ebbi un avolo, e fu maliscalco, e fu tenuto il sommo della città sua: ebbe tre figliuoli; Cristofano, appresso il padre, tenne il pregio della Mascalcìa, e avanzollo; mio padre avanzò Cristofano dell’arte in sua vita; onde, volendo il padre che appresso sè uno de’ figliuoli rimanesse all’arte, convenne a me lasciare lo studio della grammatica, come piacque a lui, e venir all’arte. Onde dinanzi a me furono di mia gente l’un presso all’altro, ciascuno maliscalco, sei; ed io fui il settimo9. - Bensì la ortografia di questo e d’ogni altro documento di quell’età, se non è ridotta all’uso moderno, palesa che il dialetto de’ Fiorentini, benchè evidente nella sintassi e nella proprietà de’ significati, era perplesso ne’ suoni, e mutabile ne’ segni delle idee consegnate alla scrittura. Scrivevano casa, chasa, ricordo, richordo, figliuolo, fighiuolo, figiolo, maniscalco, manescalco. La grammatica dalla quale il buon maliscalco fu disviato era la latina; e gli atti pubblici continuarono ad essere tutti scritti in quel gergo barbaro per due secoli e più10.

Il secreto del Boccaccio fu d’immedesimare lo spirito e la materia del dialetto volgare con tanta felicità da farne uscire una terza lingua. Il suo stile sarebbe stato schiettissimo d’affettazione, se, per procacciargli più dignità, non avesse usato un po’ troppo della trasposizione ciceroniana, e se fosse stato più parco di parole, le quali non servono che alla rotondità di periodi sonanti. Parecchi versi tolti dal poema di Dante e innestati nel Decamerone furono osservati da molti; ma chi guardasse più addentro s’avvedrebbe che il Boccaccio armonizzava la sua prosa, ajutandosi della prosodia de’ poeti latini. Li traduceva talora letteralmente e, mentre la loro misura suonavagli tuttavia intorno all’orecchio, inserivali nel suo libro. Di che giovi indicare uno squarcio bastantemente lungo nel Proemio, e sarà guida a’ dilettanti di sì fatte scoperte a trovarne molte altre da sè. Le donne sono molto men forti che gli uomini, a sostenere. Il che degli innamorati uomini non avviene, sì come noi possiamo apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar quella; perciocchè a loro, volendo essi, non manca l’andare attorno, udire e vedere molte cose, uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare. De’ quali modi ciascuno ha forza di trarre o in tutto o in parte l’animo a sè, e dal nojoso pensiero rimuoverlo, almeno per alcuno spazio di tempo; appresso il quale, con un modo o con altro, o consolazion sopravviene, o diventa la noia minore.

Ut corpus, teneris ita mens infirma puellis:
Fortius ingenium suspicor esse viris.
     Vos, modo venando, modo rus geniale colendo,
Ponitis in varia tempora longa mora.
     Aut fora vos retinent, aut unctae dona palestrae:
Flectitis aut froeno colla sequacis equi.
     Nunc volucrem laqueo, nunc piscem ducitis hamo:
Diluitur posito serior hora mero.
     His, mihi submotae, vel si minus acriter urar,
Quod faciam, superest, praeter amare nihil.11

Del Petrarca, grande contemporaneo ed amico del Boccaccio, che divise con lui fino a quasi tutto il secolo decimottavo la gloria di predominare assolutamente su la lingua italiana, non possiamo scriver nulla che non sia già noto, e pochissimo che serva al proposito nostro. Abbiamo già veduto nel Discorso precedente che la poesia italiana è poco atta a contribuire all’analisi e alla storia della lingua: inoltre molti ne trattarono e ne trattano giornalmente; mentre la critica degli scrittori in prosa rimane campo tuttavia poco esplorato. Eccettuati i versi amorosi e poche altre composizioni in rima, il Petrarca scrisse sempre in latino, fin anche le lettere a’ suoi intimi amici. I soli saggi della sua prosa italiana che forse esistono al mondo sono due lettere; e il fac simile degli autografi è stato da poco in qua pubblicato in un volumetto di saggi sul Petrarca. L’essersi poi smarriti que’ manoscritti per accidente fece dubitare se sì fatta preziosa curiosità di prosa italiana scritta dal Petrarca fosse stata invenzione, che somiglierebbe ne più nè meno a impostura. Fortunatamente le lettere originali furono ritrovate, e tornarono ad ornare la libreria di Hollandhouse, alla quale appartengono. Sembra che il Petrarca le scrivesse in fretta, e più intento a ciò ch’ei voleva significare a’ suoi corrispondenti, che al modo migliore d’esprimersi. Pur sono bastantemente lunghe da lasciar conoscere ch’ei non pose mai studio veruno a ripulire il dialetto in guisa da potersene giovare con facilità e correzione. A dir vero, la dicitura di quelle lettere appena serba ombra di dialetto fiorentino, o di veruno altro particolare ad una città qualunque d’Italia; ed è appunto quella lingua itineraria di cui abbiamo fatto menzione nell’epoca precedente; e che prevale tuttavia in Italia con le mutazioni portate dagli anni; ed è lingua che tutti intendono a un modo, ogni uomo la parla diversamente, e niuno può scriverla mai nè bene nè male.

Infatti il Petrarca non udì mai parlare nè il dialetto fiorentino, nè alcun altro della Toscana. Ben ei l’imparò da bambino da’ suoi parenti ch’erano di Firenze. Ma egli nacque in esilio. E mentre cominciava a pronunziar le parole, andò pellegrinando co’ suoi parenti che si domiciliarono in Francia; e però egli udiva e imparava tanti altri dialetti sino da quell’età, in cui l’orecchio e gli organi della pronunzia e la memoria raccolgono per forza di natura tutti i suoni e significati e inflessioni di voce; e non li perdono più. Nè poi da fanciullo fece suo studio che del latino; si rimase orfano giovinetto, e non udì più idioma di padre o di madre; e per grandissimo spazio della lunga sua vita dimorava or in città e in corte di papi francesi, or nella campagna d’Avignone fra contadini, or in casa de’ Colonnesi, i quali, se parlavano alcun dialetto italiano, dovea essere il romanesco. Viaggiò stando a lunga dimora in più luoghi, fuorchè in Firenze. Ne fra’ suoi famigliari, amanuensi ed amici domestici fu mai, che io sappia, un unico fiorentino; e co’ letterati di Firenze carteggiò sempre in lingua latina. Come egli dalle reminiscenze del dialetto materno e da quanti n’udì, e da rimatori provenzali, siciliani e italiani stillasse, per così dire, una quintessenza di lingua poetica, è uno di que’ misteri che si sogliono attribuire al genio, o in parole più chiare, all’organica costituzione de’ poteri intellettuali dell’individuo. Così Mozart fu grande nella musica dalla sua fanciullezza, e così Pascal fu matematico prima dell’adolescenza e senza maestro veruno. Al genio del Petrarca al contrario bisognava lunghissimo tempo, cure infinite, pazienza incredibile a perfezionare la lingua delle sue poesie amorose. Le date, accennate chiaramente ne’ suoi versi e registrate di sua mano ne’ suoi autografi, palesano che la raccolta di que’ versi fu scritta nel corso di trent’anni. Ogni stanza, ogni verso ed ogni parola furono ricorretti più volte, e riveduti in diversi intervalli di tempo. Da prima il Petrarca voleva bruciare tutti que’ versi; poi si riconsigliò, e attese a perfezionargli. Ma la loro lingua è più dell’Autore che della nazione, e si potrebbe propriamente chiamare col nome di petrarchesca. Infiniti uomini di studio indefesso e d’ingegno si applicarono ad imitarla, e tutti senz’eccezione riescirono o mediocri verseggiatori, o scrittori ridicoli: e questa è la prova più convincente che la lingua di quelle poesie non può dare esempj, nè regole, perchè è fuor d’ogni esempio, d’ogni sistema e teoria di grammatiche. Non ebbero fortuna migliore gl’imitatori del Boccaccio, perchè, quantunque scrivessero in un genere di composizione più soggetta a metodo logico d’esprimere i pensieri, e più regolare a secondare le norme grammaticali, e soprattutto più accomodata alla intelligenza di tutti i lettori, pur nondimeno è lingua nella quale la materia assume forme tutte proprie dell’arte e del genio dello scrittore. La fortuna del Decamerone animò la gara di que’ tanti novellatori a giornate, venuti a noia sin da’ loro tempi; e poscia, per la rarità delle edizioni, apprezzati dagli intendenti di libri. Enrico Roscoe, figliuolo dello storico illustre, raccolse per serie d’anni alcune di quelle novelle; e traducendole con eleganza di stile schiettissimo, palesò che la ripuganza di leggerle in originale derivava per lo più dall’affettazione comune a molti di andar prosando come il Boccaccio.

Certo, se il Petrarca avesse dovuto spendere a scrivere in prosa italiana la decima parte delle fatiche ch’ei diede a’ suoi versi, egli non avrebbe potuto scrivere tanto. Questa ragione contribuì, fra le molte altre, ad indurlo a comporre ogni sua cosa in latino; ma l’allettamento principale era la gloria allora ottenuta da’ poeti latini, e appena conceduta dagl’italiani, nelle università e nelle corti de’ principi. E nondimeno tutti sapevano poco o nulla intorno all’essenza e alla qualità della lingua latina. Coluccio Salutati era dottissimo, e in gran fama fra’ letterati di quell’età; e pronunziò che il Boccaccio nelle sue poesie pastorali scritte in latino non era inferiore che al solo Petrarca, ma che il Petrarca era superiore - chi il crederebbe? - a Virgilio12. Erasmo per altro, critico d’altri tempi e d’altra mente, osservando la letteratura del secolo decimoquarto, scema alquanto le lodi date al Petrarca, e ne aggiunge al Boccaccio giudicandolo scrittore di latinità meno barbara13.

Il danno che il Petrarca, per la troppa ambizione di scrivere in latino, recò alla sua lingua materna fu compensato da lui con l’infaticabile e generosa perseveranza a ridonare all’Europa gli avanzi più nobili dell’ingegno umano. Nè i monumenti dell’antichità, nè le serie delle medaglie, nè alcun manoscritto di romana letteratura fu trascurato da lui, ogni qual volta ei potè sperare di toglierlo alla dimenticanza e farlo trascrivere a moltiplicarne le copie. S’acquistò la gratitudine di tutta l’Europa, ed è tuttavia meritamente chiamato primo ristoratore della classica letteratura. Pur nondimeno al Boccaccio spetta non solo una porzione, ma la metà, a dir poco, di questa lode. Non ignoriamo che la nostra opinione sarà al primo tratto creduta paradosso avanzato per ambizione di novità; ma le prove, che anche brevissimamente possiamo darne, faranno invece meravigliare i nostri lettori della scarsa retribuzione che il Boccaccio ottenne fino ad oggi, malgrado i suoi giganteschi e felici tentativi a disperdere l’ignoranza del medio evo.

La mitologia allegorica, e quindi la teologia e la filosofia metafisica degli antichi, - gli aneddoti della storia di secoli più recenti, - e fino anche la geografia furono illustrate dal Boccaccio ne’ suoi voluminosi trattati in latino; oggi poco letti, ma allora studiati da tutti come le prime e le migliori opere di solida erudizione. Il Petrarca non sapeva di greco; e quanto in quel secolo la Toscana e l’Italia conobbero degli autori di quella lingua era dovuto tutto al Boccaccio. Andò in Sicilia, dov’erano ancora alcuni avanzi d’un greco dialetto, e maestri che lo insegnavano; e poi ricorse a due precettori di maggior merito, Barlaamo e Leonzio. Sotto questi due studiò per più anni; e per Leonzio ottenne dalla repubblica di Firenze che si fondasse una cattedra di lingua greca. Senza il Boccaccio, i poemi d’Omero si sarebbero rimasti sconosciuti ancora per lungo tempo. La guerra di Troia si leggeva nel romanzo famoso sotto nome di Storia di Guido delle Colonne, dal quale derivarono poi tante altre pazze invenzioni ed erudizioni apocrife de’ tempi Omerici, e diversi drammi simili al Troilo e Cresside di Shakespeare, e ne’ quali non v’è un’unica circostanza che si possa riscontrare nell’Iliade e nell’Odissea. Aggiungasi a ciò che l’impresa domandava abbondanza di danaro posseduta dal Petrarca; e il Boccaccio non conobbe mai che angustie di fortuna e di vita. Vi supplì con laboriosissima industria, e si assoggettò al lavoro meccanico contrario all’indole del suo genio, e copiò i codici di sua mano. Leonardo Bruni, il quale era già nato innanzi che il Boccaccio morisse, vedendo tutta quella moltitudine di autori ed esemplari trascritti da lui, ne rimase maravigliato14. Benvenuto da Imola, che fu discepolo del Boccaccio, racconta a questo proposito un curioso aneddoto, che noi riferiremo, perchè non sappiamo che possa leggersi fuorchè nella grande collezione degli scrittori del medio evo del Muratori, ed è una di quelle opere inaccessibili alla più parte de’ nostri lettori15. Arrivando il Boccaccio all’abbazia di Monte Cassino, celebrata per l’immenso numero de’ manoscritti che vi giacevano sconosciuti, richiese umilmente d’essere introdotto nella biblioteca del Monastero. Un monaco rispondendogli asciuttamente «andate, sta aperta», gli additò un’altissima scala. Il buon Boccaccio trovò mutilati e laceri quanti libri apriva; e gemendo che tante fatiche de’ grandi uomini dell’antichità fossero cadute in potere di sì tristi padroni, si partì lacrimando. Scendendo la scala incontrò un altro monaco, e gli richiese, come mai que’ libri fossero così tronchi? - noi delle pagine scritte in pergamena di que’ volumi rispose il monaco freddamente facciamo coperte di libricciuoli di preghiere, e li vendiamo per due, tre, e talvolta anche per cinque soldi. - Or va, conclude il discepolo del Boccaccio, va tu, povero letterato, a romperti il capo per comporre de’ libri.

Tali erano gli ostacoli che quest’uomo benemerito ha dovuto superare a promovere col Petrarca la civilizzazione del suo secolo; ed era debito di tarda, ma religiosa giustizia il manifestare, che in questa parte la porzione di ricordanza riconoscente ch’ei s’aspettava da’ posteri fu assegnata quasi tutta al suo più fortunato contemporaneo. Non concluderemo la nostra osservazione senza pagare un altro debito alla memoria del Boccaccio. La inverecondia delle Novelle, e la loro tendenza morale non può nè giustificarsi, nè attenuarsi: ma tanti scrittori, che, segnatamente in Inghilterra, ripetono quasi di anno in anno la censura meritata dal Boccaccio, pare che non sappiamo come, quasi subito dopo che egli ebbe pubblicate le sue Novelle, se ne pentì. Pur troppo lo studio della lingua e dello stile fu pretesto a gratificare l’immaginazione de’ lettori di fantasie, alle quali tutti propendono, e sono costretti a dissimularle; nè le Novelle del Boccaccio avrebbero predominato su la letteratura se fossero state più caste. L’arte di additare cose bramate e vietarle adula insieme ed irrita le passioni, e giova efficacemente a governare la coscienza e de’ fanciulli e de’ barbati e dei prudentissimi vecchi. Onde i Gesuiti non sì tosto s’insignorirono delle scuole d’Italia, adottarono quel libro, mutilato come avevano fatto de’ poeti licenziosi latini; ma i passi mutilati sono i più desiderati appunto perchè mancano, e l’immaginazione della gioventù vi supplisce idee peggiori che non avrebbero forse trovato ne’ libri, se fossero interi.

I Gesuiti, per adonestare l’uso ch’essi facevano del Decamerone ne’ loro collegi, indussero per avventura il Bellarmino a giustificare nelle sue controversie le intenzioni dell’autore. Fors’anche interpolarono quegli argomenti, come altri parecchi, nelle edizioni del Bellarmino, ogni qualvolta le sue dottrine non si uniformavano agli interessi dell’Istituto16. Inoltre è probabile che favorissero un libro famoso per le invettive contro alle regole claustrali, e scritto assai prima ch’essi nascessero ad occupare la giurisdizione di tutte. Anzi, il Bellarmino perdonò meno assai che il Boccaccio alla fama delle vecchie congregazioni; e benchè altri, a difenderle, chiami quel suo Gemitus Columbae aprocrifo, fu stampato a ogni modo mentr’ei vivea, fra l’opere sue. Ma quanto al Boccaccio, egli innanzi di morire aveva fatto ammenda del suo poco riguardo a’ costumi. Sentì che gli uomini lo credeano reo, ed espiò le Novelle con pena più grave forse che non era la colpa; e direste che le scrivesse indotto dal predominio d’una donna, forse quella ch’ei poco prima rinnegò, diffamandola nel Laberinto d’Amore. Comunque si fosse, scongiurava i padri di famiglia a non permettere il Decamerone a chi non aveva per anche perduto la verecondia. Non lasciate leggere quel libro; e se pur è vero che voi per amor mio piangete nelle mie afflizioni, abbiate pietà, non foss’altro, dell’onor mio.

Inoltre con rimorsi di coscienza, che fanno più onore alla probità della sua vita che alla forza della sua mente, fece ammenda anche a’ frati e alle loro superstizioni ch’egli aveva derise. Niuno forse, dopo Aristofane, ricavò tanto amaramente il ridicolo dalla sfacciataggine dei predicatori ignoranti, e dalla credulità d’ignoranti ascoltatori, quanto il Boccaccio con le Novelle, dove si mostra implacabile a’ frati. In una d’esse introduce uno di que’ vagabondi a vantarsi dal pulpito d’avere pellegrinato in tutti i paesi che sono e non sono nel globo terraqueo a trovar reliquie di Santi, e farle adorare per danari al popolo nelle chiese. E nondimeno il Boccaccio, morendo, diceva d’aver da gran tempo cercato per sante reliquie in diverse parti del mondo, - e le lasciava alla devozione del popolo in un convento di frati. Quella sua volontà trovasi scritta in un testamento in italiano tutto di suo pugno, e in un altro in latino fatto molti anni dopo da un notaio, e approvato e sottoscritto dal Boccaccio poco prima ch’egli morisse. E in tutti e due i testamenti lasciò ogni suo libro e manoscritto al suo confessore, e al convento di Santo Spirito, perchè i frati preghino Dio per l’anima sua, e i suoi concittadini potessero leggerli e copiarli per loro ammaestramento. È dunque più che probabile che fra que’ libri non vi fosse copia veruna del Decamerone; e dal seguente aneddoto, che rimase quasi ignoto perchè è da desumersi da libri che pochissimi leggono, apparirà che l’originale manoscritto delle Novelle fu distrutto lungo tempo innanzi dall’Autore; e infatti non è stato mai possibile di trovarlo.

Verso la fine dell’età sua, la povertà, che è più grave nella vecchiaia, e lo stato turbolento di Firenze gli fecero rincrescere la vita sociale, e rifuggiva alla solitudine; ed allora l’anima sua generosa ed amabile era invilita e intristita da’ terrori della religione. Vivevano a que’ dì due Sanesi che poi furono venerati sopra gli altari. L’un d’essi era letterato e monaco Certosino, e lo trovi citato dal Fabricio Sanctus Petrus Petronus. L’altro era Giovanni Colombini che fondò un altro ordine di frati, e scrisse la vita di San Pietro Petroni per divina ispirazione. I Bollandisti allegano che il manoscritto del nuovo Santo, smarritosi per due secoli e mezzo, capitò miracolosamente alle mani d’un Certosino che lo tradusse dall’italiano in latino, e nel 1619 lo dedicò a un Cardinale de’ Medici. Forse il Colombini non ha mai scritto; e il biografo de’ Santi nel secolo XVII ricavò le notizie de’ miracoli, registrati nelle cronache e nelle altre memorie del XIV; e, per esagerare la conversione miracolosa del Boccaccio, pervertì una lettera del Petrarca che nelle sue opere latine ha per titolo: De vaticinio morientium. Il Beato Petroni morendo aveva infatti commesso, verso l’anno 1360, a un frate d’intimare al Boccaccio che lasciasse da parte gli studj, e s’apparecchiasse alla morte; e il Boccaccio ne scrisse atterrito al Petrarca, il quale rispose: Fratel mio, la tua lettera m’ha riempiuto la mente d’orribili fantasie, ed io leggevala combattuto e da grande stupore e da grande afflizione. Or come poteva io senz’occhi piangenti vederti piangere e ricordare la tua prossima morte, mentre che io non bene informato del fatto, attendeva ansiosissimo alle tue parole? Ma oramai che ho scoperta la cagione de’ tuoi terrori, e ci ho pensato un po’ sopra, non ho più nè malinconia, nè stupore. - Tu scrivi come un non so chi Pietro di Siena, celebre per religione, ed anche per miracoli, predisse a noi due molte sorti future; e per fede della verità ti mandò a significare alcune cose passate che tu ed io abbiamo tenute secrete ad ogni uomo; ed egli, che non ci ha mai conosciuti, nè fu mai conosciuto da noi, pur le sapeva, come s’ei ci avesse veduto nell’anima. Gran cosa è questa, purchè sia vera. Ma l’arte di adonestare le imposture col velo della religione e della santimonia, è frequentissima e antica. Coloro che l’usano esplorano l’età, l’aspetto, gli occhi, i costumi dell’uomo; le sue giornaliere consuetudini, gli studj, i moti, lo stare, il sedere, la voce, il discorso, e più ch’altro le intenzioni e gli affetti; e derivano vaticinj ascritti ad inspirazione divina. Or s’ei morendo ti predisse la morte, anche Ettore in altri tempi la predisse morendo ad Achille; e l’Orode virgiliano a Mesenzio; e il Cheramene di Cicerone ad Erizia; e Calano ad Alessandro; e Possidonio, l’illustre filosofo, morendo nominò sei de’ suoi coetanei presti a seguirlo sotterra, e chi morrebbe prima e chi dopo. Non importa il disputare per ora intorno alla verità ed all’origine di simili profezie; nè a te, quando pur anche codesto tuo spaventatore (terrificator hic tuus) ti pronosticasse il vero, importa l’affliggerti. - Che? se costui non tel mandava a far sapere, avresti tu forse ignorato che non t’avanza molto spazio di vita? e s’anche tu fossi giovane, la morte non guarda ad età.» Ma nè questo, nè tutti gli altri argomenti della lettera del Petrarca, che è lunghissima, nè l’eloquenza con la quale egli congiunge i conforti della religione cristiana alla civile filosofia degli antichi, hanno potuto liberare l’amico suo da’ terrori superstiziosi. Il Boccaccio sopravvisse più di dodici anni al prognostico; e quanto più invecchiava, tanto più sentiva germogliare nel suo cuore a guisa di spine i semi sparsivi dalla nonna e dalla balia. Morì nel 1375 d’anni sessantadue, e non più che dodici o quattordici mesi dopo il Petrarca. Nè pure il Petrarca guardava sempre in faccia la morte con occhio tranquillo. Tale era il carattere di que’ tempi, e tale, sotto diverse apparenze, sarà perpetuamente la natura degli uomini.

Note

  1. Avvertimenti su la lingua, vol. I, pag. 244; edizione milanese.
  2. Ivi, vol. I, pag. 245.
  3. Ginguené, Hist, Litt. d’Italie, t. III, pag. 87 e sg.
  4. Introduzione.
  5. Tucidide, lib. II, 48 ult.
  6. Fiammetta, lib. IV.
  7. Salviati, Su la lingua del Decamerone, vol. I, pag. 249; edizione milanese.
  8. Badajuolo non è nel vocabolario; forse da bajulus, facchino.
  9. Presso il Manni, Illustrat., pag. 421.
  10. Varchi, Stor. Fior., lib. XV, an. 1536.
  11. Ovidio, Heroid., epist. 19.
  12. Colutius Salutatus, Epist. ad Bocc.
  13. Ciceronianus.
  14. Leonardo Aretino, Vita del Petrarca, in fine.
  15. Benvenutus Imolensis apud Muratorium, Script. Rer. Ital.
  16. Fuligattus, in Vita Bellarmini.