Sulla pietosa morte di Giulia Cappelletti e Romeo Montecchi

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Filippo Scolari

1824 Indice:Sulla pietosa morte di Giulia Cappelletti e Romeo Montecchi.djvu Saggi letteratura Sulla pietosa morte di Giulia Cappelletti e Romeo Montecchi - Lettera critica Intestazione 11 dicembre 2014 100% Saggi

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SULLA PIETOSA MORTE

DI

GIULIA CAPPELLETTI

E

ROMEO MONTECCHI


LETTERA CRITICA

DI

FILIPPO SCOLARI

CON ILLUSTRAZIONE A DUE LUOGHI

DELLA DIVINA COMMEDIA


VENEZIA

TIPOGRAFIA DI ALVISOPOLI

MDCCCXXIV.


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La verità nulla menzogna frodi.



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AL SUO ERUDITISSIMO


ED ILLUSTRE AMICO


BARTOLOMMEO GAMBA


A VENEZIA


L’avvenimento compassionevole di Giulietta e Romeo è siffattamente conosciuto in Italia e fuori, che giugnendo in Verona li forestieri ne indagano con tanta sollecitudine da poter affermare, che il modesto sepolcro delle loro sventure non è riverito meno delli monumenti superbi della romana grandezza. Egli fu anzi mestieri guarentirlo al pari di questi, onde serbarlo all’affetto dei posteri, ai quali lo si rapiva dai molti che, staccandone le particelle, amavano legarle in oro e formarne anelli amorosi.

Non sono pochi per altro coloro i quali tengono che questa generale e perenne [p. 6 modifica]tenerezza del nostro cuore verso quegli infelici amanti si debba credere assai più nutrita dal prestigio delli romanzi, e delle opere di poesia e di pittura, le quali ne usurparono l’argomento; che non dalla certezza di un caso, il quale avrebbe dovuto appartenere alla santità dell’istoria.

O consultino in fatti gli annali, o ne cerchino le reliquie, o ne leggano le novelle, essi non vi trovano che implicanze da non poter sciogliere, e per essi tutto aiuta la tenera fiducia che nasce in cuore di ognuno alla visita di quella tomba, che i fieri casi di Giulietta e di Romeo sieno, come scrive il Carli, una favoletta coronata dalla fantasia degli scrittori. Aggiungono per di più, che così debba credersi anche per questo, che il massimo dei poeti e degli annalisti Italiani non ne à mai fatto pur motto; quando invece è stata tale la infelice sorte di Giulia, ed accadde in tal’epoca, che il gran Cantore della Pia e della Francesca non avrebbe potuto dimenticarla.

[p. 7 modifica]Ma perchè dopo cinque secoli e più non mi sembra che tornar possa disaggradita ricerca quella che tenda ad assicurare al gran fatto il fondamento del vero, e perchè in esso fatto è posta una gran forza di utilità morale per conoscere a quali orrendi casi conducano le cittadine discordie (oltre di che io non sono d’accordo nell’affermato silenzio dell’Allighieri) piacciavi, egregio Amico, far buon viso a questo mio scritto, al quale soprattutto importa che: la verità nulla menzogna frodi.

Ma se ad uno ad uno io volessi qui prendere gli scrittori per mano, e notare le differenze del racconto di tutti, la mia sarebbe opera noiosa e lunghissima, nè seconderei l’insegnamento dell’arte critica, la quale ci comanda di ricorrere ai fonti. Miglior partito adunque io reputo quello di premettere quelle generali avvertenze, che portar possono l’ordine e la chiarezza nell’astruso argomento.

Sia pertanto la prima, che i soli principali scrittori di questo fatto sono quattro. [p. 8 modifica]Primo: Luigi Porto, il quale scriveva la sua Novella (Ven., Bindoni, senza data, in 8.vo ed ivi 1535) tra il 1520 ed il 1530, come si raccoglie dalle lettere del suo celebre amico il cardinale Pietro Bembo. Secondo: Certa Clizia dama veronese, di cui il Giolito nel 1555 pubblicò un Poemetto in ottava rima sull’infelice amore delli due fedelissimi amanti. Terzo: Matteo Bandello, che nel 1554 mandò in luce la sua famosa Novella intitolata al gran Fracastoro. Quarto in fine: Girolamo Dalla Corte, il quale scriveva la sua Storia di Verona nel 1550, la condusse fino al 1560, e la mandò fuori nel 1594. Due Novelle adunque, un Poemetto, e una Storia sono le memorie scritte da consultar in proposito1: memorie tanto diverse fra loro di autorità quanto di scopo, ma pure di autori quasi di un solo tempo e coetanei. Tutti li posteriori non avranno qui luogo, perchè non danno ragione delle loro disparità, e perchè, in fatto, di mano in mano e secondo il vario intendimento di [p. 9 modifica]ognuno, le circostanze si andarono a variare all’infinito; specialmente quelle che appartengono alla catastrofe, intorno alle quali è assai curioso, per esempio, veder il Carli (ultimo degli storici patrii e il compendiatore di tutti) che giunto a dover dire di Giulietta e Romeo, lunge dal mostrarsi messo alle prove per chiarire il vero, egli, (che avvisa nella sua prefazione di aver avuto l’agio amplissimo di tutto vedere, e cronache e registri di monasteri ec.) scrive all’opposto di voler seguire il Dalla Corte; ma poi non fa neppur questo, e prendendo l’aria del novelliere vi mette tanto del proprio da non far trovar più concordia fra il copiatore e il copiato.

È la seconda, che dalla storia del Dalla Corte alle due sopraccitate Novelle e Poemetto, la prima fede è dovuta certo allo storico, il quale non abbisogna nè dell’amplificazione nè dell’artifizio del novelliere e del poeta. Che per altro dove lo storico si accorda nella sostanza ancora con questi, è ben fatto; viceversa, spiegar con essi lo [p. 10 modifica]storico, quando per la maggiore sua brevità non fosse dato pienamente d’intenderlo. È manifesto in fatti, a chi ben veder voglia, che le circostanze vere ed essenziali, mentre le si possono raccogliere da tutti insieme, le si trovano poi tutte in ciascuno; ed è quindi, che se da un lato lo storico nel suo ristretto racconto non disse abbastanza, dall’altro i novellatori, a malgrado della loro romanzesca amplificazione, hanno conservato molto a supplirlo. Frattanto dal Panvinio in sino al suddetto Carli non abbiamo per primo storico di questo fatto se non che esso Dalla Corte, il quale è già tenuto dal gran Maffei per accurato in quello che aspetta l’aver consultato le Cronache antiche, tante delle quali non ponno essere arrivate agli scrittori di quasi due secoli dopo. E sebbene sia vero, che in qualche incontro non lo à fatto con tutta critica, ciò pure ammettendo, non potrà alcuno negare a lui quella fede, in quanto al sommo delle cose, che pel fatto gli procacciano lo stesso amor patrio, [p. 11 modifica]e l’accuratezza, che traspirano abbondantemente dalle sue pagine. Parlando egli alli Signori Provveditori della Città dell’opera sua, così scrive: Per giovare a’ miei concittadini con la Storia della patria nostra ho voltato e rivoltato con sommo studio e diligenza, a niuna fatica perdonando, quante istorie, quante croniche, quanti annali, in somma quante scritture ho giudicato potermi dar qualche lume a ritrovare la verità; seguendo a dire: che quantunque abbianvi assai mancamenti nella memoria delle cose antiche, tuttavolta spera di aver trovato e raccolto quanto per umana diligenza si potea ritrovare. Il perchè, tutte queste cose dirittamente considerate, non sarebbe che irragionevolezza il dipartirsi dal Dalla Corte, ed il negare di peso un fatto, di cui, nel lib. X, egli prende a scrivere non tanto come di cosa vera, ma come di fatto notorio, e il principale che sia accaduto nel 1303, quando Angelo da Reggio era il podestà di Verona.

Stabilita per questa forma la fede al [p. 12 modifica]Dalla Corte, ed il modo di usarne, la terza cosa da notare è, che o parlisi del silenzio degli scrittori prima di lui, o di quello d’altri che gli vennero dopo, le ragioni si trovano manifeste, o per attribuir questo all’indole delle opere loro, o per accagionarli di colpa assoluta nell’aver trascurato le memorie del tempo antico. Così, a cagione d’esempio il Saraina (Ver., per il Discepolo, 1586) trattò delle cose e fatti pubblici del Governo di Verona al tempo della famiglia Scaligera, e tacque di Giulia, la quale non entrava nel suo argomento. Il cronista Zagatta del secolo XV (Ver., Ramanzini, 1745), non fu che annotatore di patrie memorie, ma con infinite mancanze, e quasi per soli cenni, onde fu mestieri che lo supplisse ad ogni tratto il Biancolini, quello stesso cui dobbiamo le diligenti memorie sulle Chiese veronesi. Arrivato il Biancolini all’anno 1303, paragonò il suo Zagatta con lo storico Dalla Corte, e mentre gli parve necessario supplirlo pel fatto di Giulietta e Romeo, [p. 13 modifica]ricopiò (ossia trasformò alla maniera del Carli) il racconto del Dalla Corte; dopo di che, appostavi una tal quale obbiezione sua propria, e considerata la singolarità del fatto, si fece a conchiudere in ultimo: che debbasi farne conto come di Novelletta da intrattenere le semplici vecchierelle. Venne più tardi il Moscardo, ed egli ne tacque del tutto.

Al racconto dunque del Dalla Corte, la cui fede storica è stabilita più sopra, noi moderni, tutto raccogliendo, non possiamo opponere se non se:

I. Il silenzio dello Zagatta, e del Moscardo, o di altri tali;

II. Le circostanze, o singolari o impossibili, che paiono comprese nel racconto di lui;

III. L’incongruenza, od anacronismo che venne osservato dal Biancolini, come dicemmo, in iscredito del Dalla Corte;

IV. Per ultimo il silenzio dell’Allighieri sopra questo fatto, sebbene, per lo stesso Dalla Corte, famoso.

[p. 14 modifica]Io crederei, Amico carissimo, che distrigata per tal forma la inviluppata mattassa, ne avremmo il frutto di morale certezza, dove io potessi degnamente rispondere alli quattro capi di contraddizione suddetti. Proviamolo speditamente.

Perchè lo Zagatta ed il Moscardo, uno più dell’altro, potrebbero, per ragione di autorità, far forza contro il Dalla Corte, bisognerà combatterne il silenzio col loro silenzio stesso; imperciocchè quello storico il quale possa essere convinto di aver tacciuto cosa che sia registrata per certa in altre storie e volumi, non potrà più meritarsi fede dove si trovi che taccia di altra, sebbene non altrettanto certa; e meno poi ancora quando la cosa tacciuta fosse parte di quella già fatta certa per altri. A quest’effetto pertanto mi basterà contrapporre alla prima delle opposizioni suddette quel medesimo che servir dovrebbe a ributtare la estrema.

Le crudeli discordie delle due famiglie Cappelletti e Montecchi erano già [p. 15 modifica]famose per tutta Italia. Li documenti restano ancora, e l’autorità dell’Allighieri e delli suoi Commentatori bastano ad accusare di grave negligenza e lo Zagatta e il Moscardo. Un solo verso dell’Allighieri provvede al silenzio trascuratissimo degli storici, e la qualità di quel verso in cosa affatto recente, vale propriamente intero un racconto.

Nel Canto sesto del Purgatorio il poeta vuol adoperare tutti quanti gli occorrono li più efficaci argomenti per incuorare Alberto l’imperatore alla redenzione d’Italia. E che fa egli in cosa di tal momento? dimentica forse di chiamarlo ad essere il testimonio delle orrende stragi portate dalle civili discordie? No per certo; volendo anzi darne la prova, di quali altre lo chiama ad essere il testimonio se non se appunto di quelle dei Montecchi e dei Cappelletti? Ed in fatto mentre il poeta era in Verona non mettevano forse costoro le mani nel sangue l’uno dell’altro? E Giulietta e Romeo non avevano [p. 16 modifica]forse in quell’anno medesimo accresciuta la sciaurata celebrità dei lor fatti? Che non dovea dunque dire al cuore d’Alberto il solo verso: Vieni a veder Montecchi e Cappelletti? Dovea forse il poeta entrare in un esteso racconto, quando il solo vieni a veder era proprio un chiamarlo a quello stesso sepolcro di Giulia, al quale accorreva in quei medesimi giorni affollata la gente tutta per la strepitosa e recente singolarità del suo fine? Il Dalla Corte adunque, per la stessa voce di Dante, è uno storico di varissima fede2, e se è questo, quale peso dobbiamo dare al silenzio di storici, i quali con le stesse ragioni tacciono del pari la storia delle famose stragi domestiche delle due famiglie, e il fiero caso di Giulietta e Romeo che n’è stato solo una parte? Lo Zagatta e il Moscardo sono storici così fatti.

Posta una base, a mio credere tanto ferma, si renderà più agevole ed aperto il mezzo alle seconde risposte che distrigano la quistione.

[p. 17 modifica]Io dico adunque, che letto il Dalla Corte, ed inteso come si deve quel ch’egli ha scritto, non troviamo in lui cosa che secondo la condizione di que’ tempi non si dimostri possibile e naturale, non esclusa quella singolarità di eventi e di partiti ch’erano voluti dalle circostanze, e che poi resero giustamente memorabile questo fatto. Ecco com’io ragiono.

“Romeo Montecchi, bello e cortese giovane, osa cavarsi la maschera, e trattenersi alla festa di ballo (che dava essendo carnovale in sua casa messer Antonio de’ Cappelletti) come se non sapesse di essere in mezzo alli suoi più fieri nemici. Veduto da tutti con meraviglia non n’è per questo cacciato, a riguardo dell’età sua, e per essere accostumato molto e gentile. Comincia la danza, qual che si fosse, ed invitato da una gentil donna entra in ballo. Poco dopo lascia quella, e piglia un’altra assai bella giovane sulla quale aveva prima fermato gli sguardi. Essa il compiace [p. 18 modifica]danzando, e, come suole accadere, a mezze parole si palesano a vicenda la subita inclinazione del cuore. Finisce la festa, ma qual contrasto e sorpresa dopo, quando Romeo intende da un suo compagno, che quella giovane è Giulietta la figlia di M. Antonio, il capo della fazione nimica, e Giulietta intende da una sua balia, che quel giovane è Romeo dei Montecchi?”

Fin qui tutto è semplice. Vediamo che saprà fare l’amore, Amor che a gentil cor ratto s’apprende. Le difficoltà non hanno mai spaventato gli amanti, anzi ne accrebbero sempre li fervidi proponimenti.

“Romeo non teme dar segno di sè alla Giulietta, passando di notte sotto alle finestre di lei; e Giulietta, conosciutolo al raggio della luna, entra seco lui a parlare dell’amor loro, e questo accade in più notti. L’onestà presiede sempre a quei ragionamenti, e nasca che ne vuole, s’accordano in breve nella deliberazione di stringersi in matrimonio.”

[p. 19 modifica]Anche questo è tutto naturale e chiarissimo.

“L’uomo del maggior credito nella città, colui che frequentava nelle case di entrambi, era un frate Lorenzo da Reggio, persona dotta ed esperta, il quale udiva le confessioni e regolava gli affari di tutti. Romeo corre a lui, gli manifesta ogni cosa, e fra Lorenzo non solo l’accoglie e ’l conforta, ma si propone anzi con pensiero lodevolissimo ed evidente di cogliere l’opportunità per acquistarsi approvazione universale, e far bene a tutta Verona, rappacificando, per via di tal matrimonio, le due discordi e turbolenti famiglie. Fermatosi in questo, fra Lorenzo vede che sarebbe stato più facile il far sì, che i genitori d’ambe le parti si avessero a contentare del matrimonio fatto, di quello che del matrimonio da farsi; ed ecco ragionevole e savia la sua deliberazione di unirli tostamente, chiamandoli al suo confessionale uno per parte, e benedicendo la loro promessa, [p. 20 modifica]alla quale, per mezzo di una vecchia, va pure a susseguitare, benchè furtivo, l’effetto.”

Anche sino a qui tutto risulta con verità ed evidenza.

“Fatti sposi, ed assaggiate le dolcezze d’amore, Giulietta e Romeo non attendono se non che il frate, essendo vicina la Pasqua, arrivi al termine del suo proposito. Ma in questo s’intorbida molto seriamente la cosa. Li Cappelletti, sa Iddio per qual occasione, assalgono li Montecchi in sulla strada di Castel vecchio; Romeo nella mischia fa il possibile per pur cessarla; ma, che serve? Tebaldo dei Cappelletti, il cugino di Giulietta, gli viene addosso, e Romeo, nel ripararsi, lo ferisce nella gola, e lo uccide.”

Se è vero, come nessuno vorrà negare, che le fazioni delle due famiglie mettevano la città tutta in que’ barbari tempi a scompiglio, anche questa parte della storia offrirà tutt’i caratteri della verità e della morale certezza.

[p. 21 modifica]“L’avere morto Tebaldo, costringe Romeo prima a nascondersi, quindi a partire da Verona bandito; pensa alla situazione lagrimevole della sua Giulietta; vede già morta ogni sua speranza del meglio; e per istare lontano da lei il men possibile, consigliatosi con fra Lorenzo, il quale era non meno afflitto di lui, riparasi a Mantova”.

A questo passo, Amico mio, facciamo sosta, e prendiamo un poco in mano il sopraccitato Biancolini, non già nell’opera delli suoi Supplementi allo Zagatta, ma in quella delle Chiese di Verona. Consultandone il Volume III, a pag. 108 (Verona, Alessandro Scolari, 1748), ritroveremo con autentici documenti provato da lui medesimo, che nel 1275 vent’otto anni prima del 1303, quando nel convento de’ ss. Fermo e Rustico passarono li Minori Conventuali, ch’erano in s. Francesco del Corso in Cittadella, in esso convento di s. Francesco del Corso sottentrarono li frati dell’ordine di s. Marco di Mantova. Egli è assai probabile [p. 22 modifica]essere Romeo stato mandato a Mantova da fra Lorenzo, perchè dove fra Lorenzo aveva li suoi frati, ivi poteva più di frequente fargli giugnere nuove di Giulia. Badate a questa circostanza, e proseguiamo il racconto.

“Stavano così disgiunti li due poveri amanti e sposi, allora quando li genitori di Giulietta (i quali nulla sapevano, e non potevano sapere, perchè fra Lorenzo non aveva avuto mai campo veruno alla dilicatissima pratica) le proposero un partito nobilissimo di matrimonio.”

V’è cosa per una parte più naturale di questa, e per altra più evidente aggruppamento di circostanze fatali?

“Avvisatone con calde lagrime dalla povera Giulia, che farà mai fra Lorenzo? Angustiato egli medesimo, tormentato da Romeo ad ogni tratto, pauroso di più gravi mali se Giulietta senza addur buone cause non si presta al volere paterno; tra il pensare alla fuga [p. 23 modifica]di lei, ch’era il più espediente a torla d’imbarazzo, e il dover provvedere onde potesse poi unirsi a Romeo senza nuovi timori, fra Lorenzo abbraccia un suo pensiero di farla passare per morta; di ricovrarla per questo modo in convento, di vestirla quindi da frate, e di mandarla poi a Mantova al suo Romeo, da dove poscia con esso lui, e sempre con l’aiuto di fra Lorenzo, avrebbe potuto andarsene già dimenticata in parte di tutta lor sicurezza.”

Chi per le storie, dal mille al mille trecento, non si formasse giusta idea delli costumi nostri a quel tempo, chi ne giudicasse con la squisita civiltà d’oggidì, o chi pensasse che vi fossero allora speziali e medici, e che in vece un fra Lorenzo non fosse tutto, e non potesse far tutto fra gente ignara di tutto; questo tale troverebbe certo piena di difficoltà la risoluzione di lui, e tale da non essere mai creduta. Io all’opposto la veggo tanto più facile a venirgli fatta, quanto la più opportuna [p. 24 modifica]ed anzi l’unica a recidere per sempre il nodo.

“Contenta Giulietta del fatto suo riceve in chiesa da fra Lorenzo la polvere soporifera: presa questa, il suo sonno si prolunga oltre il solito; si tenta svegliarla, ma indarno; è chiamato alla casa fra Lorenzo (al quale confessavasi anche la madre di Giulietta) e ch’era, bisogna ripeterlo, tutto nella famiglia delli Cappelletti; ed egli, fatti alcuni esami, la dà per morta. Farla seppellire, e metterla in una tomba, a ciò da lui predisposta, non era che la conseguenza delle impegnate ed accorte sue cure.”

A questo luogo potrebbe alcuno desiderar di sapere quale possa essere stata questa bevanda. A me pare invece, che bastar ci debba il sapere di certo, che fra Lorenzo in tempi ne’ quali pur troppo ne sapevano di veleni e bevande letali più che a’ nostri giorni, poteva conoscere e praticare uno di que’ tanti soporiferi che anche adesso si conoscono, tra i quali àvvene [p. 25 modifica]di estraordinaria efficacia3. Nato poi l’assopimento, vorrete voi credere estrema difficoltà per un fra Lorenzo del 1300 il darla per morta? l’affrettarne il seppellimento? il collocarla in una tomba con opportuni respiri, onde il meno dell’aria non avesse poi a soffocarla? Notate, che una languida tradizione, e forse un erronea supposizione del volgo, narra anche al dì d’oggi, che due buchi uno presso all’interno capezzale marmoreo, l’altro ai piedi nelle pareti della tomba, ch’è tutt’ora creduta quella medesima, fossero stati fatti appunto dal frate per questo fine4. Ma poniamo termine alla narrazione.

“Romeo, prima di lasciare Verona, aveva comunicato ad un servo fidatissimo della sua casa il vincolo di amore che lo strigneva a Giulietta, e gli affanni suoi nel dover lasciarla. Che farà dunque questo uomo fedele, il quale non ne sa più di così, e che sente morta Giulietta? Tutto dolente pel suo caro [p. 26 modifica]padrone egli non sa fare di più che correre a Mantova per dargliene il tristo annunzio, ed assisterlo. Fra Lorenzo, per l’altra parte, non à sì tosto Giulietta in convento, che per uno de’ suoi gli manda una lettera in cui l’avvisa di tutto. Ecco il terribile contrattempo. Pietro, il fedelissimo Pietro, arriva il primo, e Romeo, che non può già dubitare e che ormai di sè più non cura, determina (che altro non gli rimane) di almeno correre disperato sulla tomba della perduta consorte, dove con un veleno à risoluto di dar fine alla dolorosa sua vita. E così accade. Romeo arriva di notte tempo; non pensa più a fra Lorenzo, dal quale anzi si crede abbandonato o tradito; va difilato al cimitero, che restava fuori della città, e fatto alzare dal suo Pietro il coperchio della tomba, vedere Giulietta, e prender il veleno, e gittarvisi dentro è tutt’uno. Ma che? mentre il veleno strazia le viscere di Romeo, Giulietta scuotesi dall’assopimento, ed accortasi di [p. 27 modifica]aver a lato Romeo, è là che compiesi, alla presenza di Pietro quella tragica morte, la quale doveva dar finalmente termine all’angosciosa vita di ambidue. Ignaro di tutto questo, fra Lorenzo esce dal convento accompagnato in sul far del giorno per cavar fuori Giulietta; e qual egli sia rimaso all’intendere la fiera ventura, e in vedere l’uno e l’altra morti nell’arca, non occorre più raccontare.”

Raccolta in questi termini la dolentissima istoria, io non potrò negarvi, egregio Amico, di non avere supplito o per dir meglio spiegato alcun poco il Dalla Corte, per quello appartiene allo sviluppo di questa vera tragedia; prevaluto essendomi, com’era debito, delle circostanze ragionevoli o che ho trovato negli altri due, quasi contemporanei scrittori, dei quali vi ho parlato a principio5.

Vicino dunque al termine del mio scritto, io la ragiono a tal modo. O si vuol negare il fatto, o le sue circostanze.

[p. 28 modifica]Se il fatto; tutte le regole della critica, sulla forza della tradizione e dei monumenti storici, costringono, per quanto ho detto, all’affermativa. A questa anzi condur ci deve un’altra ragione non meno aperta, derivandola dal fatto notabilissimo, che la tradizione di questa Storia si tenne tanto in vita e vigorosa, e tanto fu aiutata dalle cronache, che non solo il Dalla Corte dovette da storico farne conto come di cosa notissima; ma fra tutti li più gran letterati del 1500 se ne parlò sempre, a segno che il Luigi Porto mandava la sua Novella al Pietro Bembo; ed il Bandello al medesimo Fracastoro, al quale scriveva che gli parea cosa degna d’essere conservata all’età più remota.

Veniamo alle circostanze. Vuole il primo codice del mondo, quello della sana ragione, che, o si rigettino o si spieghino in modo verosimile quelle che o involgono contraddizione, o possono sembrar impossibili. Quindi è, che se negli scrittori contemporanei ne troviamo di tali [p. 29 modifica]che conservate da essi, e per altri fonti ricevute, dieno modo amplissimo a spiegare lo stretto racconto che fa lo storico, il farne uso è dovere. Il Dalla Corte poi, avendo lavorato sopra cronache, non ha certo avuto neppur esso vie chiare a tutt’affatto intender la cosa. E siccome degli avvenimenti medesimi de’ nostri giorni, per istrepitosi che sieno, le ultime circostanze si raccolgono sempre in confuso, così è proprio un’indiscrezione il non contentarsi del sommo delle cose ch’egli, il Dalla Corte, ebbe il merito di aver raccolte, ed a gran pena tre secoli dopo; più ancora, il voler negarle, quando già l’obbiezione di alcune circostanze finali non molto bene determinate, la si trova distrutta dal maggior numero delle principali, e di quelle che sono garantite dalla fede storica.

Ed eccomi aperto il campo all’ultima delle risposte che debbo all’opposizione del Biancolini. Io dico adunque, che s’egli avesse fatto buon uso di queste regole dell’arte critica; anzi se avesse [p. 30 modifica]adoperato con il Dalla Corte quella stessa discrezione che dimandò per se medesimo nell’opera delle Chiese di Verona, egli, per applaudire al grossolano silenzio del suo Zagatta, non avrebbe scritto in iscredito del Dalla Corte, che il racconto di lui gli pareva una novelletta da intrattenere le semplici vecchierelle; e meno poi gli avrebbe opposto, che e’ scrisse il falso perchè erano venti otto anni dacchè li Minori Conventuali avevano ceduto il convento ai frati e suore Umiliate.

Per l’appunto è verissimo (come vedemmo da lui provato più sopra), che nel 1275, venti otto anni prima del 1303, li Minori Conventuali di s. Francesco in Cittadella erano passati in s. Fermo, e avevano dato luogo ai frati di Mantova.

Ma in quell’opera stessa, nella quale egli ci dà questa prova (che in tutta quella dello Zagatta è sempre accennata, e mai si rinviene) sentite mo, come il Biancolini si spiega: “O’ trovato che li vecchi scrittori veronesi furono così poco informati [p. 31 modifica]dell’origine delle nostre Chiese, che è difficile saperne quanto basta per non parer del tutto ignoranti... e sarebbe errore grandissimo il credere di non prendere abbaglio in materia così scabra.

Se dunque così è; sia pur vero che il Dalla Corte parlò di frati Minori Conventuali, quando che i frati esser doveano di quelli da Mantova, che il Biancolini stima degli Umiliati; sia pure in lui questa inesattezza, e non la sia invece nel Biancolini; ma perchè egli, con li medesimi principi di critica, non si è fatto invece a scusarlo come puramente ingannato dagli scrittori anteriori a lui, ed ha voluto piuttosto redarguirlo di falso? Perchè non s’avvide invece, che all’incertezza od anche inesattezza sulla qualità dei frati, era sottentrata la notizia più importante della utile corrispondenza fra il luogo dove si era ricovrato Romeo dopo il bando, e il luogo dove fra Lorenzo contava di poter più facilmente fargli avere le nuove? che anzi, avendoci il Biancolini conservato [p. 32 modifica]la bella certezza, che li frati di s. Francesco in Cittadella nel 1303 erano di quelli venuti da Mantova, non ci ha forse conservato assai più di quello che potevamo bramare alla scoperta del vero?

Sia adunque fine alla mia lettera, e voi, Amico egregio, fatene quella ragione, che non all’amicizia, ma all’altezza del giudizio vostro parrà conveniente. State sano.

Verona addì 20 dicembre 1823.



Note

  1. [p. 31 modifica]Il nostro valente sig. Alessandro Torri mi fa sperare che da’ torchj di Firenze, ove egli adesso si trova, manderà presto in luce con la diligenza e buon gusto che lo ànno sempre distinto, tutti quelli componimenti e memorie intorno alla storia di Giulietta e di Romeo, ed alle famiglie loro, che da lui con sommo studio raccolte, ed a me gentilmente fatte conoscere, varranno a documentare per esteso le osservazioni contenute in questa mia Lettera. Non saranno men care al pubblico le varianti ch’egli à raccolto intorno alla lezione delle due Novelle, del Bandello e del Porto.
  2. [p. 31 modifica]Bello anzi è notare, come il Dalla Corte sia sempre d’accordo con Dante nell’illustrare le cose di Verona. Così in quel luogo tanto disputato:
    Qual è quella ruina che nel fianco
    Di qua da Trento l’Adige percosse
    nell’edizione di Padova rimane dubbiosa tutt’ora la spiegazione verace. Eppure basta aprire il Dalla Corte, e nel L. X. p. 608 (ed. di Ver. 1594) si trova registrato: che nel giorno 20 Giugno 1309 gran parte del monte sopra la chiesa verso Verona ruinò senza che alcuno s’accorgesse o di tremuoto o di vento — Vedasi bisogno assoluto di leggere assai nelle Storie antiche per chi voglia intendere la Divina Commedia!
  3. [p. 32 modifica]Per convincere li più increduli, e perchè sieno anzi d’accordo nell’ammettere, che l’affare della bevanda e dell’assopimento con successivi sintomi e segni apparenti di morte, non poteva mai essere un punto difficilissimo, quantunque arrischioso per un Fra Lorenzo, mi basterà averli d’accordo nelli soli seguenti fatti di ragione e di storia: I. Le genti del 1300 erano quanto feroci e superstiziose, altrettanto ignoranti e piene di credulità, specialmente verso li Fra Lorenzo. II. L’avere bevande letali, ed il somministrarle, poteva essere agevolissimo ad un uomo destro e creduto, e l’averle efficaci eragli facile, dappoichè una sola dose, anche non generosa di opio (veleno conosciutissimo ab antiquo) bastava a far nascere tutti gli effetti apparenti, che potevano essere desiderati da Fra Lorenzo. Chi non credesse, abbia la bontà di leggere nelli Discorsi del Mattioli a p. 699 dell’edizione 1555 del Valgrisio, e troverà più assai di quello che occorrer possa. Io cito un antico appunto per ragione del tempo, e per maggior fede in cosa popolare del tutto. III. Senza immaginare un sonno di molti giorni, ma di sole trenta ore, dopo una notte anche non dormita, Fra Lorenzo avea tutto l’impegno non solo di darla per morta, ma di persuadere ancora la necessità di una pronta tumulazione, la quale, fatta per mezzo di uno o due ministri di chiesa istruiti, fa dileguare del tutto l’idea di un fatto impossibile nel particolare di cui si parla. Egli è un fatto, che anche al [p. 33 modifica]dì d’oggi vive in Verona una signora la quale, avendo preso (e fu per mero accidente) dieciotto grani di opio dormì di seguito quarantott’ore.
  4. [p. 33 modifica]Il Monumento di Giulietta e Romeo, garantito per quel medesimo da una tradizione costante sino al tempo del Dalla Corte, e dal Secolo XV sino a noi, esiste tuttora. Egli consiste in una cassa antica di marmo de’ monti Veronesi senza ornamento veruno (ed ora anche senza coperchio) alta al di fuori centim. 70, incavata al di dentro 45, della grossezza nelle pareti di 13, larga internamente 66, e lunga al di fuori metri 2, centim. 26. Al di dentro vi si osserva scavato un basso capezzale con incavamento per collocarvi la testa di una sola persona. Li due buchi poi, uno vicino al luogo del capo nella parete sinistra, e l’altro nella parete vicina ai piedi si vedono fatti a traverso la pietra senza diligenza veruna, e quasi all’infretta. Il Dalla Corte scrive, che quest’arca (la quale adesso è già posta sotto la tutela municipale) egli la vide servire per lavello al pozzo delle Franceschine. — Ciò posto; li due buchi non potevano abbisognare a quella cassa usata come lavello, od al più bastava uno solo per poterla far netta di tanto in tanto; ed anche in tal caso il buco avrebbe dovuto essere stato fatto con qualche diligenza, per poterlo chiudere e aprire secondo il bisogno. Checchè siane, per me credo probabile, che quei due fori abbiano potuto essere stati necessari all’operazione di Fra Lorenzo, e certo, dove quelli si escludano, bisognerà credere che Fra [p. 34 modifica]Lorenzo abbia avuto almeno la cura di lasciar l’arca socchiusa.
  5. [p. 34 modifica]Tante circostanze e soliloquj che s’incontrano nelle Novelle di Giulietta non sono proprio che fantasie per aggrandire la cosa, e che la portarono fuori del verosimile senza bisogno. Tali, esempligrazia, che Giulietta avesse dovuto coricarsi nell’arca sopra il carcame e le reliquie dei suoi, ed anzi dello stesso Tebaldo; che Romeo entrasse in Verona nel momento in cui faceasi il funerale, ed altre esagerazioni siffatte. Lo stesso Dalla Corte in fatti spiega, che il Cimitero di s. Francesco riusciva fuori della città, nella quale Romeo non ebbe ad entrare, ed il Bandello aggiugne: che Fra Lorenzo aveva fatto ben spazzar l’arca. La prima cosa è certificata anche adesso della situazione del convento di s. Francesco; l’altra è voluta apertamente dalla ragione. In simili altre incongruenze è incorso pur esso il Porto, e basterà indicare che secondo lui: I. Fra Lorenzo, soltanto dopo l’arrivo di Romeo al Cimitero, venne a sapere, che Giulietta era stata seppellita per morta, quasi ch’egli non avesse tutto operato dal principio al fine. II. Romeo entrò in città quando non ve n’era il bisogno. III. L’arca era grande quanto una camera, dove Romeo entrò con un lume, e stette fra i morti a lato alla Giulietta a far molti lamenti, avendone oltrecciò levato egli solo l’enorme coperchio a malgrado dello stato del suo estremo dolore e del viaggio. [p. 35 modifica]Tuttavolta anche in esso Porto si trovano conservate circostanze preziose a capir il vero. Notabilissime p.e. sono queste: Io ho sempre Frati che vanno a Mantova; e Pietro (il servo) deliberò di portare egli stesso a Romeo la mala nuova; e tante altre. Così doveva appunto accadere. I Novellieri, premurosi del meraviglioso, non badarono gran fatto a frugar nel vero, e aggrandirono. Lo Storico, non premuroso di troppe particolarità in cosa al suo tempo notissima, volle accorciare il racconto, e rimase non ben inteso dai posteri.