Tigre reale/II

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I III


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II.



Ignoro dove e come si fossero incontrati; certo è che si conoscevano da qualche tempo, e s’erano cercati cogli occhi in mezzo alla folla delle Cascine e della Galleria degli Uffizi. — Non saprei dirti se sia bella, mi aveva detto Giorgio, so che amo come un pazzo cotesta donna di cui ignoro persino il nome, e che mi ha detto cogli occhi che le piaccio.

Vanità, curiosità, simpatia fisica, non importa, — c’era l’ignoto dentro — il gran dio.

La prima volta che seppe il suo nome, in un ballo a Pitti, seppe anche molte cose di lei: era [p. 12 modifica]civetta, orgogliosa, egoista, marmo di Carrara dentro e fuori; tal quale si vedeva, con quel sorriso glaciale, si diceva avesse spinto al suicidio il solo uomo che avesse mai amato, e amato alla follia, un amore da leonessa — si chiamava Nata, nome dolce come due note di musica.


— Vuol presentarmi a lei? disse Giorgio dopo avere ascoltato attentamente la viscontessa de Rancy.

— È inutile; ella lo conosce diggià.

— Ella?

— Sì, mi ha chiesto di lei ier l’altro, quando l’abbiamo incontrato a cavallo.

— Ebbene?

— Ebbene, no.

— Perchè no?

— Perchè ella non vuole.

— Ah!

— È innamorato di lei?

— Non so. [p. 13 modifica]

— Le piace?

— Molto.

— Per quel che le ho raccontato?...

— Forse sì.

— Vuole un buon consiglio, amico mio?

— Senz’obbligo di seguirlo però?

— Beninteso; non sarebbe un consiglio se fosse fatto per seguirlo. Qualora si sentisse disposto a montarsi la testa per la contessa, domandi d’essere destinato a Washington o a Costantinopoli, anzi a Washington addirittura, è più sicuro.

— Perchè mi vuole mandare tanto lontano, quando sto così bene qui! La contessa non vuole conoscermi, lei rifiuta di presentarmi; che pericolo c’è?

— Ebbene, eccole un altro consiglio — questo per esser seguito. — La contessa si è scusata col dirmi che partirà fra breve; io non posso dunque renderle questo servigio; ma cerchi del visconte, mio marito non è obbligato a sapere quello che Nata mi ha detto, e si faccia presentare da lui.

— Grazie, rispose La Ferlita collo stesso tono motteggevole. [p. 14 modifica]

Il visconte de Rancy era amico di Giorgio perchè si vedevano al Circolo ed all’Ambasciata di Francia, o al Ministero degli Esteri.

— Volontierissimo, rispose alla domanda di lui, ma è qui poi?

— Ci sarà di sicuro.

— Di sicuro?... Non sapete che viene a passare l’inverno in Italia per motivi di salute? È una donna andata, mio caro, e se volete farle la corte non avete tempo da perdere. Cerchiamo dunque.

Finalmente la scorsero in fondo ad una sala, al braccio del Ministro russo. In mezzo alla gran folla cotesta donna pallida e bionda a prima vista non era notevole che per una certa grazia delicata della persona; ma tutti si voltavano a guardarla, uomini e donne, forse per lo strano effetto di quei grandi occhi grigi, quasi verdastri, duri e splendenti come i diamanti della sua corona, o per l’eleganza della veste stretta e increspata sulle anche, che sembrava avvolgerla con abbracciamenti serpentini. [p. 15 modifica]

Allorquando i due amici si avvicinarono a lei ella si era fermata dinanzi a un camino; vedendoli venire aggrottò le sopracciglia con un rapido movimento, e fissò su di Giorgio, attraverso lo specchio, uno sguardo limpido e ghiacciato come il cristallo che lo rifletteva; poi si voltò intieramente, e gli piantò gli occhi in viso per due o tre secondi; sembrava che il consiglio della de Rancy fosse proprio giusto. La contessa accolse freddamente la presentazione, inchinò leggermente il capo, senza aprir bocca, senza guardar Giorgio, quasi senza badargli, e si allontanò appena egli ebbe scritto il suo nome sul taccuino che gli presentò. Qui accadde un garbuglio che i padrini di La Ferlita e del maggiore Guidoni, lo spadaccino famoso, non riescirono a mettere in chiaro, e che fu sciolto con un colpo di spada. Sembra che la contessa avesse avuto la bizzarria di offrire il suo taccuino a Giorgio quando la lista dei balli era piena zeppa, e che Giorgio avesse avuto l’altra bizzarria di sostituire il suo nome a quello del Guidoni, e costui a sua volta, da uomo ammodo, [p. 16 modifica] s’era inchinato sorridente e senza batter ciglio dinanzi a non so qual frase indifferente della contessa, la quale «lo pregava di credere che era sorpresa e dispiacentissima della cosa,» e allontanandosi alquanto dalla folla, insieme a La Ferlita, avevano scambiato tranquillamente poche parole. La contessa non aveva più ballato, del resto ballava pochissimo, e allorchè Giorgio la cercava pella sua contraddanza che gli costava un duello, la vide che se ne andava, senza rivolgergli neppure un’occhiata, come non si rammentasse di nulla.

Si curò poi di sapere quale di quei due uomini avesse pagato colla vita un suo capriccio da romana al circo? Nel tempo che Giorgio aveva guardato il letto, molte persone erano state alla sua porta, e gli erano venuti molti biglietti di visita, fra i quali, ultimo, quello senza nome che La Ferlita mi aveva mostrato. [p. 17 modifica]Alfine si erano incontrati. La viscontessa aveva un bel suggerire ottimi consigli; l’istinto del reciproco egoismo avea un bel mettere una diffidenza quasi ostile nel primo incrociarsi dei loro sguardi; il caso, la simpatia dei contrasti, la fatalità, li aveano posti faccia a faccia, e sin dalla prima volta ci avevano rimesso qualche cosa, egli un lembo di carne, ella una contraddanza, più tardi forse qualcos’altro.

Cotesta donna avea tutte le avidità, tutti i capricci, tutte le sazietà, tutte le impazienze nervose di una natura selvaggia e di una civiltà raffinata — era boema, cosacca e parigina — e nella pupilla felina corruscavano delle bramosie indefinite ed ardenti. Anch’ essa, come Giorgio, avea strascinato la sua stanchezza irrequieta dappertutto, in carrozza o in slitta, colla rapidità del vento che avea appassito le sue guance e increspato non senza leggiadria le sue labbra. Tutti avevano arso l’incenso dinanzi all’ idolo moderno, [p. 18 modifica]il marito che l’aveva sposata, gli uomini che tentavano rubarla al marito, le donne che le invidiavano le sue gemme e la sua avvenenza; questa grande passione umana, in nome della quale ell’era diva, le turbinava ai piedi, le ripeteva incessantemente lo stesso inno, glielo sbriciolava qua e là, al ballo, al teatro, nelle visite, in frasi galanti e in occhiate sentimentali. Ella, ritta sul piedestallo, s’annoiava, e provava delle curiosità pungenti. Una volta, una volta sola, quel sentimento ignoto, quel trastullo, quella forma dell’omaggio universale, l’avea investita dai piedi alla testa come una fiamma, e le avea dato febbri da leonessa. Più tardi, allorchè s’ erano veduti nelle feste la sua fronte di marmo e i suoi occhi asciutti, nessuno avrebbe potuto indovinare che ella soffocasse ruggiti di spasimo, e di quel turbine che in un’ora avea solcato la sua anima, di quella caduta di un istante, non rimanevano altre vestigia che il sorriso implacabile della sua civetteria, e certa aridità scintillante dello sguardo che sembrava cercare qualche cosa, un conforto, [p. 19 modifica]un ricordo, o una rappresaglia — non più scettica, ma diffidente — guardinga per sè, e spietatamente capricciosa cogli altri.

Dall’incontro di questi due prodotti malsani di una della esuberanze patologiche della civiltà, il dramma dovea scaturire naturalmente, dramma o farsa, come dall’urto di due correnti elettriche. Giorgio effeminato, effeminato nel senso moderno ed elegante, buon spadaccino all’occorrenza, nel quarto d’ora, e tale da giuocare noncuratamente la vita per un capriccio, ma solito ad esagerare il capriccio sino a farne una passione, e solito ad esagerare l’idea della passione sino a renderla realmente irresistibile; fiacco per non aver mai combattuto sè stesso. — Quell’altra con tutti gli impeti bruschi e violenti della passione inferma, vagabonda, ed astratta, però forte e risoluta, col cuore di ghiaccio e l’immaginazione ardente. Egli con tutte le suscettibilità, con tutte le delicatezze, con tutte le debolezze muliebri; ella con tutte le veemenze, tutte le energie, tutti i dispotismi virili.