Typee/XI

Da Wikisource.
XI

../X ../XII IncludiIntestazione 19 novembre 2016 75% Da definire

X XII

Interessamento di Kory-Kory – Sua devozione – Un bagno nel fiume – Passeggiata con Mehevi – Una strada maestra di Typee – I boschi «Taboo» – Il campo Hoolah-Hoolah – Il Ti – Vecchioni mummificati – Ospitalità di Mehevi – Fantasticherie della mezzanotte – Avventura nell’oscurità – Speciali onori resi ai visitatori – Strana processione e ritorno alla casa di Marheyo.

Allorchè Mehevi, come già narrai nel capitolo precedente, ebbe lasciato la casa, Kory-Kory cominciò a disimpegnare i servizi inerenti al posto assegnatogli. Ci portò varie qualità di cibo; e, quasi io fossi un fanciullino, insistette per imboccarmi colle sue proprie mani. Invano m’opposi a questo strano procedimento; egli si lavò le dita in un recipiente pieno d’acqua e, postomi innanzi una calabassa di «Kokoo» si mise a farne delle piccole pallottole cercando di introdurmele in bocca una dopo l’altra. Siccome tutte le mie rimostranze non sortivano altro effetto che quello di sollevare altissimi clamori, fui obbligato a cedere, e, facilitata così l’operazione, il pasto ben presto ebbe termine. Quanto a Toby gli lasciarono piena libertà di mangiare a suo modo.

Finito il pasto, il mio servitore aggiustò le stuoie perchè io potessi riposare, e pregatomi di sdraiarmi, mi coperse con un ampio mantello di tappa, esclamando:

— Ki-ki, muee muee, ah! moee moee mortarkee! — (mangiato bene, dormire benissimo!).

Non stetti a discutere la filosofia di tale giudizio: chè, non avendo dormito da diverse notti, ed essendomi ora diminuto il dolore alla gamba, mi sentivo assai disposto ad approfittare della favorevole occasione.

Destandomi il mattino dopo, trovai Kory-Kory sdraiato vicino a me, mentre Toby era dall’altro lato. Mi sentivo assai bene dopo quella nottata di profondo riposo, sì che acconsentii subito alla proposta del mio servitore di recarmi al fiume a lavarmi, sebbene fossi un poco sopra pensiero per le sofferenze che avrebbe potuto cagionarmi quel tragitto. Ma tale apprensione fu di breve durata, poichè Kory-Kory, balzando dal phi-phi e quindi appoggiandosi ad esso colla schiena, a guisa d’un facchino che si prepari a caricarsi d’un baule, con alte grida e gesti disordinati, mi fece capire come io dovevo salirgli sulle spalle per essere così trasportato fino al fiume, che scorreva a circa duecento metri dalla nostra abitazione.

Il nostro apparire sulla veranda di fronte alla casa, attirò una folla di gente che non finiva di guardarci e di discorrere tra loro con grande animazione. Non appena io ebbi intrecciato le braccia intorno al collo del mio devoto servitore, ed egli ebbe preso la corsa traballando sotto il mio, peso, la folla – composta quasi interamente di ragazzi e fanciulle – ci seguì con capriole e grida di gioia, accompagnandoci in tal modo sino al fiume.

Quivi giunti, Kory-Kory, guadando con l’acqua sino alla vita, mi portò quasi a metà del fiume, e mi depose sopra un lastrone levigato di pietra scura. che affiorava di circa un metro sopra la superficie. La ragazzaglia che ci seguiva si tuffò dietro di noi; e arrampicandosi sulle roccie erbose che sorgevano qua e là nel letto del fiume, si preparò ad osservare lo nostre abluzioni mattutine. A dir la verità, mi sentivo alquanto imbarazzato per la presenza del bel sesso, ma facendo buon viso a cattivo giuoco, mi tolsi il camiciotto e mi lavai dalla testa alla vita. Non appena però Kory-Kory si accorse che volevo così limitare il mio lavacro, parve fuori di sè dalla meraviglia, e precipitandosi su di me, mi assalì con un torrente di parole evidentemente intese a deprecare una sì scarsa operazione, e mi ingiunse con inequivocabili gesti di immergere nell’acqua tutto il corpo. Fui obbligato a consentire; e l’onest’uomo, considerandomi forse come un ragazzo inesperto, ch’egli doveva servire anche a costo di offendere, mi sollevò dalla roccia e con infinita cura procedette a lavarmi le membra. Finita quest’operazione, e ripreso il mio posto, non potei trattenermi dal dare in un grido di ammirazione per lo spettacolo che si svolgeva intorno a me.

Dalle verdeggianti superfici delle roccie affioranti qua e là sul fiume, gli indigeni si lasciavano ora scivolare nell’acqua, si tuffavano e celavano sott’acqua, nuotando allegramente; le fanciulle colle lunghe treccie sparse sulle spalle, si sollevavano a galla sull’acqua, gli occhi lucenti come goccie di rugiada nel sole, e il gaio lor riso echeggiante ad ogni giocoso incidente.

In quello stesso pomeriggio Mehevi ritornò a visitarci. Il nobile selvaggio era di ottimo umore e come sempre cordiale. Dopo essere rimasto circa un’ora con noi, si alzò dalle stuoie, e fece segno a Toby ed a me di accompagnarlo fuori. Accennai alla mia gamba, ma lui a sua volta accennò a Kory-Kory, e perciò, salito di nuovo sulle spalle del mio fido – proprio come il vecchio della montagna sulle spalle di Sinbad – andai dietro al Capo.

La strada nella quale ci inoltravamo mi colpì come ben atta ad illustrare l’indolenza degli abitanti. Il sentiero era certamente il più battuto di tutta la vallata, altri vi si immettevano, e forse per parecchie generazioni, esso era stato la via principale di quella regione. A tutta prima, fino a che io non acquistai maggiore famigliarità con le accidentalità del cammino, mi pareva difficilissimo inoltrarsi in quei recessi selvaggi. Parte di esso si svolgeva intorno a un aspro rialzo di terreno, la superficie del quale era interrotta da frequenti ineguaglianze, e seminata di affioranti masse di roccia, spesso nascoste alla vista dal fogliame della lussureggiante vegetazione. Talvolta il sentiero correva proprio sopra tali ostacoli, tal’altra invece li girava con vasto circuito; un momento bisognava scalare un improvviso pendio, un’altro momento bisognava discendere dall’altro lato, in un scosceso avallamento, e attraversare il sassoso letto d’un ruscello. Quivi il sentiero s’inoltrava in una radura, obbligandoci di tanto in tanto a chinarci sotto lunghi rami che orizzontalmente si proiettavano sul nostro cammino, o a scavalcare enormi tronchi d’albero, da tempo caduti, che ci sbarravano il passo.

Questa la pubblica passeggiata di Typee. Dopo aver camminato per un po’ di tempo, vedendo che il povero Kory-Kory ansava e soffiava sotto il mio peso, smontai dalle sue spalle, e, afferrata la lunga lancia di Mehevi, andai avanti aiutandomi con quella per superare le difficoltà del cammino. Finalmente, dopo aver scalata una piccola altura, ci trovammo alla meta della nostra gita.

Quivi erano i boschi «taboo» della vallata, teatro di tanti orgiastici festini, di tanti orribili riti. Sotto le cupe ombre dei sacri alberi del pane pareva effondersi un solenne crepuscolo, simile alla penombra di una cattedrale. Lo spaventoso genio del culto pagano pareva vigilare silenziosamente sul luogo, avvolgendo d’una specie di malia ogni oggetto circostante. Qua e là, dalle profondità di quelle ombre misteriose, seminascoste dalle masse di fogliame, sorgevano gli idolatri altari dei selvaggi, costruiti con enormi blocchi di pietra nera e levigata, sovrapposti l’uno all’altro senza cemento e innalzantisi sino a quattro e a cinque metri d’altezza. Erano sormontati da un rustico tempietto aperto, circondato da una bassa cinta di canne entro il quale potevansi scorgere offerte di frutti del pane e noci di cocco, nonchè i putridi resti di qualche recente sacrificio...

Nel mezzo della selva, si stendeva il sacro terreno dell’«hoolah-hoolah» destinato alla celebrazione dei fantastici riti religiosi di queste genti. Esso era costituito da un esteso, oblungo phi-phi, terminante ad ogni estremità in un alto altare a terrazza, guardato da due file di orridi simulacri di legno, e fiancheggiato dagli altri due lati da due ordini di tettoie di bambù aprentesi verso l’interno del quadrilatero così formato. Grandi alberi crescevano nella parte centrale di questo spazio che essi ombreggiavano coi loro vasti rami. Intorno ai loro enormi tronchi, a circa un metro dal suolo, erano stati costruiti dei leggeri soppalchi circondati da parapetti di canne, che, come rustici pulpiti, servivano ai sacerdoti quando volevano arringare i loro fedeli.

Questo santo luogo era difeso contro ogni profanazione dai più severi editti dell’onnipresente «Taboo», che condannavano ad istantanea morte la sacrilega femmina che osasse entrare nei sacri recinti, o che anche soltanto posasse il piede sul suolo consacrato dalla loro ombra.

Si penetrava nel recinto attraverso un corridoio laterale a cui si giungeva passando in un viale di alti alberi di cocco: questo viale era lungo circa cento metri, e alla sua estremità sorgeva un vasto fabbricato riservato a dimora dei sacerdoti e dei servi adibiti ai riti religiosi.

Vicino ad esso si osservava un altro edificio, anch’esso rimarchevole, costruito come al solito sopra un phi-phi. Aveva la facciata completamente aperta, e da un’estremità all’altra correva una stretta veranda, con una balaustra di canne. L’interno assomigliava a un immenso salone, col pavimento coperto di strati sovrapposti di stuoie divisi parallelamente da tronchi di noci di cocco, scelti opportunamente tra i più diritti e simmetrici della valle.

Mehevi ci condusse verso questo fabbricato che gli indigeni chiamano nel loro linguaggio il «Ti». Fin qui eravamo stati accompagnati da una folla di indigeni di ambo i sessi; ma a misura che ci avvicinavamo ad esso, le donne si allontanavano, e scostandosi da un lato, ci lasciavano libero il passo. Le inesorabili proibizioni del «taboo» si estendevano del pari a tale edificio, e le trasgressioni ne erano punite colle stesse terribili pene che difendevano il terreno dell’Hoolah-Hoolah dalla profanazione femminile.

Entrando in quel recinto, rimasi stupito nel vedere appoggiati alla parete di bambù, sei moschetti, dalle canne dei quali pendevano altrettanti sacchettini di tela, in parte pieni di polvere. Intorno ai moschetti, erano disposti, come i coltellacci che ornano il tramezzo della cabina di una nave da guerra, rudi lancie e pagaie, giavellotti e clave di guerra. Toby ed io pertanto pensammo che doveva essere quella l’armeria della tribù.

Inoltrandoci nel fabbricato, fummo colpiti dall’aspetto di quattro o cinque orribili vecchioni, dalle cui decrepite forme, il tempo e il tatuaggio pareva avessero cancellato ogni sembianza umana. Poichè i guerrieri dell’Isola continuano a tatuarsi sinchè si son fusi insieme tutti i segni e tutte le figure impresse in giovinezza, il corpo di costoro aveva finito con l’acquistare una uniforme tinta verdognola più o meno accentuata a seconda dell’età dell’individuo. La loro pelle era inoltre divenuta orribilmente squamosa, il che, unitamente a quel singolare colore, li faceva rassomigliare a polverose mummie color verde antico. Le carni pendevano dal loro corpo come la pelle sui fianchi del rinoceronte. Avevano il capo completamente calvo, mentre il viso, che era tutto una ruga, non presentava traccia di barba. Ma la cosa più caratteristica erano i loro piedi le cui dita, simili alle lancette radianti della bussola marina, puntavano verso tutti quattro i punti cardinali dell’orizzonte, particolarità certo dovuta al fatto che per forse un secolo, quei piedi non erano mai stati soggetti ad alcun genere di restrizione.

Questi antichi ruderi umani, che non faceva troppo piacere guardare, parevano anche aver perduto l’uso delle gambe; stavano accovacciati a terra in uno stato di torpore, e non parvero avvedersi menomamente di noi mentre Mehevi ci faceva accomodare sulle stuoie, e Kory-Kory si sforzava di spiegarci qualche cosa nel suo gergo inintelligibile.

Dopo qualche istante entrò un ragazzo con un piatto di legno pieno di poee-poee; e anche questa volta per poterne mangiare, dovetti di nuovo sottomettermi ai buoni uffici del mio infaticabile servitore. Parecchie altre portate seguirono il poee-poee e il Capo spiegò le più ospitali insistenze perchè ci servissimo, cercando col proprio esempio di toglierci ogni riserbo.

Finito il pasto, fu accesa una pipa e la si fece passare di bocca in bocca: così avvenne che, cedendo alla sua soporifica influenza, alla quiete del luogo e alle ombre più fonde annuncianti la notte, il mio compagno ed io sprofondammo in un pesante sonno, mentre anche il Capo e KoryKory vicino a noi sembravano dormire.

Poteva essere mezzanotte quando mi destai da un sogno tormentoso; e sollevandomi parzialmente dalle stuoie, m’accorsi che eravamo avvolti nella più completa oscurità. Toby dormiva ancora, ma i nostri compagni erano scomparsi. L’unico suono che rompesse il silenzio del luogo era l’asmatico respiro dei vecchioni, più sopra descritti, che giacevano a qualche distanza da noi. Nè, per quanto potevo giudicare, vi era alcun altro nella casa.

Temendo qualche funesta sorpresa, destai il mio compagno. E stavamo appunto discutendo a bassa voce sull’improvvisa partenza degli indigeni, quando ad un tratto, dalle profondità del bosco, vedemmo sorgere delle alte fiamme che in brevi istanti illuminarono tutti gli alberi circostanti, rendendo per contrasto ancor più fonde le tenebre che ci circondavano.

Stavamo osservando questo spettacolo quando scorgemmo alcune oscure forme muoversi davanti alle fiamme, mentre altre ballavano e saltellavano simili a demoni.

Osservando questo nuovo fenomeno, con non poca trepidazione, chiesi al mio compagno:

— Toby, che cosa significa tutto questo?

— Oh, nulla – rispose lui; – prepareranno il fuoco, ecco tutto.

— Il fuoco! – esclamai, mentre il cuore mi batteva a martello.

— Sì, il fuoco per farci cuocere. Per che cosa altro se non per questo, i cannibali si abbandonerebbero a tale fantasia?

— Oh, Toby! finiscila coi tuoi scherzi; non è il momento; succederà qualche cosa, ne son sicuro.

— Scherzi! – esclamò Toby indignato. – Mi hai mai veduto scherzare? Ma dimmi un po’ per qual ragione credi che quei demoni ci abbiano nutrito così lautamente per tre giorni, se non per uno scopo di cui tu hai timore perfino di parlare? Pensa a quel Kory-Kory! Non ti ha rimpinzato coi suoi diabolici manicaretti, proprio come si fa coi maiali prima di scannarli? Credi a me, saremo divorati questa notte istessa, e quello è il fuoco sul quale ci arrostiranno.

Questa prospettiva non era certamente fatta per calmare la mia apprensione, e io mi sentii rabbrividire considerando che eravamo proprio in potere di una tribù di cannibali, e che la terribile contingenza cui alludeva Toby non era affatto impossibile!

— Ecco! te l’ho detto! Ci vengono a prendere! – esclamò ora il mio compagno, indicandomi quattro indigeni che si prospettavano in alto rilievo contro lo sfondo illuminato, mentre salivano il phi-phi e avanzavano verso di noi.

Venivano innanzi nell’oscurità senza far rumore, anzi quasi guardinghi e certo già pronti a balzare su di noi prima ancora che noi potessimo fare un movimento. Dio misericordioso! quali orribili riflessioni feci in quel momento! La fronte madida di un gelido sudore, e come impietrito dallo spavento, attendevo il mio fato.

Ma a un tratto il silenzio fu rotto dalla voce ben nota di Mehevi, e ai simpatici suoi accenti, ogni mio timore immediatamente scomparve.

— Tomino, Toby, ki-ki! (mangiare).

— Ki-ki! davvero, eh? –disse Toby col suo fare burbero. – Ebbene, fateci pure cuocere prima. Ma che cosa è questo? – aggiunse, vedendo un altro selvaggio giungere con un gran vassoio di legno pieno di carne fumante, che depose ai piedi di Mehevi. – Sarà un fanciullino arrostito, mi figuro! Ma in quanto a me non ne assaggio, sia che si sia. Sarei proprio un idiota mi mettessi a impinzarmi anche di notte così da preparare un lauto pasto per questi sanguinari cannibali. No; conosco benissimo le loro intenzioni, e sono deciso di fare lo sciopero della fame e di ridurmi un mucchio di ossa e cartilagini, cosicchè se vorranno servirmi in tavola, facciano pure. Ma di’ Tommo, non vorrai mica mangiare di quella roba senza vederla? Come fai a sapere che cos’è?

— Come faccio? Assaggiandola, perbacco! – risposi masticandone un pezzetto che Kory-Kory mi aveva introdotto in bocca, – ed è davvero eccellente, sembra vitello.

— Un neonato arrostito, ci scommetto! – Toby con forza. – Vitello? ma se non si sono mai veduti altri animali nell’isola finchè vi sei giunto tu! Ti ripeto, stai mangiando gli ultimi resti di un defunto Happar, non è possibile sbagliarsi!

Mi sentii rivoltare lo stomaco. Che l’amico avesse ragione? Infatti dove mai questi demoni incarnati avrebbero trovato della carne? Decisi sincerarmi ad ogni costo e volgendomi a Mehevi, gli feci comprendere che desideravo un lume. Quando mi fu recata la solita torcia, guardai ansiosamente nel vassoio, e riconobbi i resti mutilati d’un giovane porchetto!

— Puarkee! – esclamò Kory-Kory guardando con compiacenza nel piatto, e da quel giorno non ho mai dimenticato che nel paese dei Typees per designare un porco, si dice «puarkee».

Il mattino appresso, dopo essere stati nuovamente convitati dall’ospitale Mehevi, Toby ed io ci alzammo per partire. Ma il Capo ci disse di attendere. «Abo-Abo» (aspettate; aspettate), disse, e per conseguenza dovemmo riprendere i nostri posti, mentre, lui, assistito dallo zelante Kory-Kory, pareva occupato a dare ordini ad alcuni indigeni, tutti intenti a certi preparativi di cui non riuscivamo a comprendere la natura. Tuttavia non rimanemmo lungamente in tale ignoranza, perchè pochi momenti dopo il Capo ci fece cenno di avvicinarci e ci accorgemmo allora che egli aveva adunato una specie di guardia d’onore per farci da scorta nel ritorno alla casa di Marheyo.

La processione era capeggiata da due selvaggi dall’aspetto venerando, ognuno dei quali impugnava una lancia alla cui estremità ondeggiava una specie di pennoncello di bianchissima tappa. Seguivano parecchi giovani che portavano calebasse colme di «poee-poee», i quali a loro volta erano seguiti da quattro gagliardi giovanotti recanti lunghe canne di bambù sulla cui cima erano appese capaci ceste piene di frutti del pane. Poi veniva una truppa di ragazzetti che portavano grappoli di banane mature e verdi cesti intrecciati di foglie, colmi di noci di cocco fresche e già sbucciate. Ultimo di tutti veniva un corpulento isolano recante sul capo un vassoio di legno con gli avanzi del nostro banchetto notturno, nascosti però alla vista da larghe foglie dell’albero del pane.

A quel che sembrava Mehevi aveva l’intenzione di rifornire la dispensa di Marheyo, forse pel timore che, ove non prendesse questa precauzione, i suoi ospiti non se la passassero troppo bene.

Non appena discesi dal phi-phi, la processione si mise in moto, con noi al centro, dove io rimasi per un certo tempo portato da Kory-Kory, dalle cui spalle però scendevo di tanto in tanto per sollevarlo dal peso. Al momento di metterci in marcia, gli indigeni intonarono un recitativo musicale, che, con parecchie varianti, ci accompagnò fino a casa.

Mentre procedevamo, frotte di fanciulle balzarono dalle vicine boscaglie, e si misero al nostro seguito con tali clamori di allegrezza, da soffocare quasi le profonde note del recitativo. Quando fummo presso la dimora del vecchio Marheyo, i suoi abitanti accorsero a riceverci; e mentre si riponevano i doni di Mehevi, il vecchio guerriero faceva gli onori di casa con non meno calore d’ospitalità di quello con cui un gran signore europeo riceve gli amici nell’avito palazzo.