Una politica agraria nel segno di Pulcinella/I

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Sviluppo economico e sottrazione di spazi agricoli

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Sviluppo economico e sottrazione di spazi agricoli
II
Tratto da: Genio rurale, XLIV, giugno 1981

Rivista I tempi della terra


INCERTEZZE E CONTADDIZIONI DEL DIBATTITO SULLA TUTELA DELLE SUPERFICI AGRARIE


Continua a ritmo incessante, a tutte le latitudini del Paese, la sottrazione di ampie superfici, in modo particolare in pianura, alla produzione agricola, da parte delle attività edificatorie. Dopo la lunga indifferenza degli anni del “boom” industriale, quando economisti ed amministratori pubblici erano concordi nel proclamare la corrispondenza di ogni metro di terreno di terreno agrario edificato a un metro di progresso economico, la compressione di un’agricoltura già povera di spazi entro confini sempre più angusti ha iniziato a suscitare allarme prima tra le forze agricole, poi in sfere più ampie dell’opinione pubblica. Le nuove apprensioni si sono venute componendo con l’opposizione, per anni inascoltata, che una schiera esigua di intellettuali, preoccupati del patrimonio paesaggistico del paese, esprimeva contro le forme assunte dall’edificazione incontrollata di cui erano teatro le coste, le aree collinari e montane, le campagne testimoni del millenario impegno dell’uomo a plasmare il territorio della Penisola. Insieme, i due ordini di riserve sono confluiti nelle istanze per la difesa del territorio che, pure nella genericità dell’ispirazione, possono essere definite la nuova “filosofia” ecologica. Nonostante il diffondersi dell’allarme, assolutamente indifferenti al problema della tutela degli spazi agricoli appaiono, ancora, i titolari delle amministrazioni locali, responsabili diretti del controllo dell’edificazione, la cui unica preoccupazione appare quella di imporre la propria mediazione sull’occupazione dei suoli, impegnandosi comunque ad assecondare le richieste di spazio avanzate dalle forze economiche e sociali di cui sono espressione, e alle quali sono legati da vincoli politici ed elettorali.

Quando l’Italia si scoprì povera di terra

La sottrazione all’agricoltura dei terreni per la realizzazione di opere pubbliche e private ha acquisito la dignità dei temi ammessi a costituire programma di convegni, titolo di giornali, oggetto di dibattito televisivo. Ignorato dai responsabili politici e sindacali, evitato dagli studiosi perché non baciato dalla moda, proprio negli anni in cui toccava il ritmo più travolgente, improvvisamente il “consumo territoriale” ha debuttato tra gli argomenti di cimento politico e culturale.

Prima tra le forze sociali, si è accorta del suo procedere inesorabile la Confagricoltura, per i cui associati dall’entrata in vigore della legge Bucalossi l’edificazione cessava di costituire l’ambito coronamento dell’attività agricola, per tramutarsi nella perdita senza ricompensa del bene assurto a forziere di impareggiabile sicurezza di qualunque patrimonio familiare. Lo scopriva, poi, in Emilia Romagna, l’Alleanza dei contadini, costretta a cercare la composizione tra l’appetito insaziabile di terra di comuni dall’attivismo ineguagliato e il rifiuto degli ex-mezzadri a vedersi sottratto il podere di cui erano appena divenuti padroni.

Ultima, tra le organizzazioni agricole, l’ha scoperto la Coldiretti, che si accorgeva che anche ottenendo le elargizioni più generose di denaro pubblico, in tempi di mercato congelato non sarebbe mai stato possibile assicurare al coltivatore espropriato l’acquisto di un nuovo podere sul quale continuare a svolgere il proprio lavoro: di terra disponibile ce n’è sempre meno, l’urbanizzazione da un lato, le leggi sull’affitto dall’altro ne hanno fatto il bene più ricercato in un paese in cui nessuno intende assumere l’onere di mettere le briglie all’inflazione. Chi terra possiede non ha alcuna propensione a cederla ad altri, fosse anche per il nobile scopo di restituire al coltivatore diretto la gioia di lavorare il minifondo tutto suo. Perché le famiglie coltivatrici possano protrarre la propria militanza confederale bisogna che la terra, fino che ci sono insediati, non la tocchi nessuno. Hanno scoperto il “consumo territoriale”, infine, i grandi organi di informazione, e di fertili campi ricoperti di cemento si è cominciato a leggere in impegnativi articoli di quotidiani e rotocalchi, la loro immagine ha debuttato nei servizi della televisione.

Infastiditi dalle proteste delle organizzazioni agricole, hanno dovuto accorgersi del problema anche gli amministratori pubblici, primi tra tutti quelli “progressisti”, che hanno trasmesso ai propri uffici stampa severe istruzioni perché non esaltassero più ogni nuovo insediamento industriale come passo avanti decisivo nel progresso dell’umanità. Secondo le nuove disposizioni l’occupazioni di spazi agricoli deve essere presentata come l’inevitabile sacrificio imposto dalla necessità di salvaguardare i “livelli occupazionali”. E alle esigenze dei “livelli occupazionali” tutti sappiamo di dovere l’ossequi più incondizionato. Senza chiederci come e perché.

Hanno scoperto l’esistenza del problema, ultimi nell’ordine, gli specialisti di studi economici, prima quelli più direttamente impegnati sui temi della produzione agricola, che appena percepito che occuparsi dell’argomento non costituiva più offesa alla moda, che poteva costituire, anzi, occasione di apprezzate relazioni in gremiti convegni, si sono addentrati sul nuovo terreno facendo del problema oggetto di dotte, impegnative dissertazioni. Quelli, per formazione, più prossimi al mondo dell’industria, hanno smesso, per parte loro, di misurare il progresso del Paese dai metri quadrati di campagna coperti ogni anno da autostrade, capannoni e “centri di servizi”. I fasti dell’economia nazionale offrivano, peraltro, metri di stima alternativi di interesse non minore.

Rilevato il nuovo interesse per il fenomeno, definirne con precisione l’entità resta impresa non più agevolmente realizzabile di quando esso si sviluppava serenamente nell’oblio universale. La sua definizione precisa potrebbe derivare, infatti, soltanto da specifiche rilevazioni topografiche, che nel Paese nessuno ha mai condotto. Dall’elaborazione dei dati Instat sull’uso del territorio, con tutta la prudenza dettata dalla loro non altissima attendibilità, Gaetano Breglia desunse che tra il 1966 e il 1975 il fenomeno aveva interessato 447.000 ettari, 45.000 all’anno. Ripetuto da Maurizio Grillenzoni con una procedura parzialmente diversa, il computo ha portato a risultati sostanzialmente analoghi: 500.000 ettari sottratti all’agricoltura nelle sole aree di pianura tra il 1967 e il 1975. Costituendo, i dati Instata, la base di computo delle estrapolazioni di entrambi gli autori, non il risultato di specifici rilievi cartografici, la grandezza stimata non può che reputarsi approssimativa: per trasformare l’approssimazione in certezza, date le croniche carenze dei nostri sistemi di rilevazione statistica, non è dato, peraltro, tentare alcuno stratagemma. Si può notare, tuttavia, come l’ordine di grandezza stimato da Breglia trovasse conferma, quantomeno in termini presuntivi, nei dati forniti, nel 1975, da alcune regioni del Settentrione sulla base delle prime elaborazioni eseguite, assumendo i poteri di governo del territorio, sui dati degli uffici tecnici comunali, frutto, questi, di rilevazioni sul terreno.

Di fondamento incerto, di fronte ai risultati delle analisi ricordate, appaiono le enunciazioni contenute in uno studio del Cnia, un centro studi dei problemi della bonifica, che sulla base di un’indagine campione svolta in alcuni comprensori di bonifica proclamava, nel 1977, che tra il 1950 e il 1970 il “consumo” di spazi agricoli non sarebbe stato superiore a 35.000 ettari all’anno, per cadere, successivamente, sotto ai 10.000 ettari all’anno. A conferma della propria scoperta gli operatori del Cnia adducevano la constatazione, tanto scontata quanto semplicistica, che la crisi dell’edilizia degli anni recenti avrebbe determinato una contrazione dell’entità dei suoli occupati dai costruttori di case, strade e capannoni.

Un argomento che rivela la propria inconsistenza appena si consideri, restando sul medesimo piano dell’esperienza comune, che se oggi si costruisce meno, si costruisce, tuttavia, a maglie assai più ampie che in passato: la superficie di capannone industriale necessaria per ogni addetto è cresciuta in proporzione al maggior numero e alla maggiore dimensione delle macchine che ogni operatore è in grado di controllare. Nelle attività commerciali le esigenze di spazio per lo stoccaggio, il confezionamento e la movimentazione delle merci, affidate sempre più ad apparecchiature meccaniche, hanno registrato aumenti ingenti. La crescita del benessere ha diffuso, per parte propria, la propensione per soluzioni abitative monofamiliari: all’ideale dell’appartamento nella “palazzina” in condominio la famiglia media ha sostituito quello del “modulo” entro una “schiera” di villette, con un evidente accrescimento del fabbisogno di spazio per ogni unità familiare insediata. Si può aggiungere, ancora, che la disponibilità, nelle mani delle amministrazioni locali, dei nuovi strumenti di legge che consentono l’acquisizione dei terreni a prezzi legalmente fissati su valori costituenti una frazione irrisoria di quelli offerti dal mercato, ha assicurato ai governanti locali l’opportunità di realizzare la propensione, a lungo coartata, di dimostrare la propria efficienza amministrativa, quindi i propri meriti elettorali, nella dilatazione delle superfici trasformate in centri industriali, “villaggi” artigianali, aree Peep. Trent’anni di edificazione: l’Italia muta il proprio volto Abbiamo rilevato l’impossibilità di pervenire a certezze irrefragabili nella definizione quantitativa dell’inclusione dei suoli agricoli negli agglomerati urbani e industriali: l’impossibilità statistica non pone alcuno schermo alla percezione fisica della trasformazione che in tre decenni il fenomeno ha imposto all’assetto geografico della Penisola. Una percezione tanto evidente da proporre quasi la prova visiva della conversione di un antico paese agricolo in nuova nazione industriale. Esercita un’eloquenza inequivocabile la vista delle pianure italiane dall’aereo, o lo scenario che ci circonda percorrendo in automobile strade principali o secondarie: attorno agli antichi abitati, inconfondibili nel disegno e nelle forme, si dilatano in tutte le direzioni, senza ordine né disegno, i centri residenziali, gli insediamenti industriali, le infrastrutture dalle forme inconfondibili degli ultimi decenni. Nelle aree dove il fenomeno ha conosciuto intensità maggiore, basti ricordare le province di Como e Varese, le campagne sono state ridotte a congerie di spezzoni informi, dove la sopravvivenza di un’attività agricola residuale si scontra con gli ostacoli di una frantumazione irreversibile.

Confermata visivamente l’imponenza del fenomeno, si deve rilevare come il milione di ettari che costituisce, probabilmente, il tributo dell’agricoltura all’urbanizzazione rappresenti, date le dimensioni e dato l’assetto fisico del Paese, cifra ingente: quel milione di ettari sono ubicati, infatti, quasi interamente, nelle pianure, nei fondovalle e nelle aree costiere, nell’antico Bel Paese patrimonio alquanto limitato, costituito, complessivamente, da non più di sei milioni di ettari. Proprio per la limitatezza dei nostri spazi agricoli di pianura, ha rilevato Cesare Selleri, continuando a convertire i suoli agricoli in aree urbane al ritmo degli ultimi anni il nostro paese esaurirebbe in cento anni le proprie disponibilità di buone terre di pianura. Nella storia di una nazione cento anni costituiscono entità posta tutt’altro che al di là degli orizzonti economici, politici, sociali.

Verificata, tuttavia, anche se mediante rilievi induttivi, la portata di un fenomeno di cui non ci è dato conoscere l’entità con precisione catastale, non possiamo evadere il confronto con la molteplicità degli interrogativi che rendono impresa necessaria, quantunque ardua, la definizione di un giudizio complessivo sul corso passato del fenomeno, sulla sua continuità presente, sul suo proseguire futuro. La complessità dell’impegno deriva, innanzitutto, dal comporsi, nel giudizio che ci proponiamo, di una pluralità di valutazioni, ciascuna delle quali impone di essere sviluppata in coerenza ai canoni della sfera conoscitiva entro la quale si collochi la sua formulazione.

Un giudizio sulla conversione della destinazione dei suoli agricoli ad usi urbani può essere ricercato, infatti, tanto in termini storico-economici quanto in termini geografici, naturalistici ed ecologici, tanto in base a criteri estetici quanto, infine, in termini agronomici. Dalla composizione di tali diverse valutazioni può derivare, infine, una valutazione sul piano politico, dalla quale potrà desumersi, come corollario, un rilievo amministrativo. E’ il terreno politico, infatti, quello sul quale deve giudicarsi la coerenza all’interesse a medio e lungo termine del Paese, dei provvedimenti di legge che disciplinano il governo del territorio nazionale. Formulato un giudizio politico, su di esso potrà fondarsi la valutazione della funzionalità dell’azione amministrativa svolta in applicazione dei medesimi strumenti normativi. Dal rilievo dell’ampia delega dei poteri operata, nella materia, dagli organi centrali dello Stato alle amministrazioni locali deve desumersi, peraltro, che se è ai primi, Governo e Parlamento, che deve attribuirsi la lungimiranza o la miopia degli indirizzi generali, è alle seconde che debbono ascriversi i meriti, o imputarsi le colpe, che dell’ampiezza, e delle modalità, con cui il processo si è sviluppato si vogliano attribuire ai responsabili della cosa pubblica del Paese.

Un imponente processo storico, economico, geografico Componendo l’elenco dei criteri sulla base dei quali può realizzarsi la valutazione del fenomeno, abbiamo identificato i primi in nelle categorie storico-economiche e in quelle geografiche. In termini di geografia economica non v’è dubbio che la conversione, in tre decenni, di oltre un milione di ettari di suoli agricoli in sede di opere pubbliche, abitative e industriali ha costituito, abbiamo rilevato, la controprova geografica della conversione dell’Italia da nazione agricola a paese industriale, una conversione che ha indotto mutamenti imponenti nel livello di benessere, nella cultura, nel costume della nostra società.

Non sono le pagine di questo periodico la sede per avanzare nuove ipotesi nell’agone, appassionante e, insieme evanescente, della ricerca del significato etico della trasformazione: è sufficiente constatare, mi pare, che nessuno dei cittadini italiani accetterebbe, oggi, malgrado qualunque dichiarazione contraria, di ricollocarsi nella situazione sociale ed economica dell’Italia dell’anteguerra, o in quella dell’immediato dopoguerra.

Restringendo il campo di osservazione all’ambito specifico delle trasformazioni del territorio, sulle modalità secondo le quali le terre della Penisola sono state investite dai mutamenti della società nazionale molto si è dibattuto: ancor più si è dibattuto, si può riconoscere, sulle modalità di trasformazione della stessa società italiana, di cui le alterazioni del territorio non hanno costituito che una delle conseguenze, pure se delle più appariscenti, e il rivelatore fisico più eloquente.

Ma anche riconoscendo i legami necessari tra trasformazione della società, secondo una locuzione abusata il “modello di sviluppo” seguito durante la crescita industriale, e le alterazioni del territorio, addentrarsi nell’esame delle prime condurrebbe sul terreno, tanto seducente quanto sfuggevole, delle valutazioni filosofiche, fino ad un “discorso sopra i massimi sistemi” politici che hanno conteso il primato sull’indirizzo dello sviluppo economico nazionale, una dissertazione che, oltre che pleonastica, perché mille volte ripetuta, risulterebbe praticamente sterile di risultati per il problema che ci siamo proposto.

Proprio le forze che si sono confrontate per imprimere allo sviluppo della società italiana strade opposte non pare abbiano espresso, ad un esame condotto al di là delle pure impegnative enunciazioni verbali, strategie divergenti nell’impegno sulla destinazione del suolo. E’ affermazione che può, forse, apparire sorprendente, sulla quale sarà necessario ritornare, in queste pagine, con la cura che esige un’asserzione che non vuole costituire enunciazione apodittica.

Sul terreno che ci siamo proposto come campo di indagine non sono mancate voci di dissenso e denunce anche vigorose del carattere distruttivo che i poteri pubblici hanno consentito che l’espansione edilizia assumesse sull’assetto del territorio: la loro risonanza e il consenso che hanno suscitato sono state, anzi, apparentemente, alquanto ampie. Ma è necessario distinguere, a proposito, quanto quel consenso promanasse dalla diffusa aspirazione, generica e priva di consistenza, per città ricche di verde, per casette in campagna, per spiagge incontaminate, quell’aspirazione che costituisce l’essenza di un’ideologia popolare dell’ambiente, capace di convivere con gli impulsi all’edificazione per la quale premono le forze partecipi della crescita economica, quanto costituisse, invece, espressione di autentica critica alle forme assunte dalla trasformazione del volto del Paese. E una critica autentica ai processi urbanistici da cui ha preso forma la nuova Italia industriale non ha costituito, si può asserire nella certezza dell’assunto, moto generale dell’opinione pubblica, è stata, piuttosto, opposizione minoritaria e sporadica.

Un’opposizione rappresentata da un esiguo drappello di cultori delle scienze del territorio, banditori per decenni di un messaggio sostanzialmente inascoltato dalla coscienza nazionale perché ispirato a argomenti che troppo poco avevano in comune con l’ideologia “volgare” della casetta nel verde, osteggiato dalle forze politiche perché ove gli argomenti che proponeva si fossero affermati avrebbero imposto remore fastidiose al procedere di quell’industrializzazione che vedeva solidali, nella sostanza, tutte le forze economiche e politiche protagoniste della vita del Paese. Le voce del dissenso: argomenti estetici, argomenti ecologici Le argomentazioni degli oppositori dell’ondata urbanizzatrice si sono sviluppate, dalle prime espressioni, su due dei terreni di critica del che abbiamo individuato, quello estetico e quello naturalistico. Sul primo veniva avanzata la denuncia della deturpazione del paese più ricco di ambienti rurali diversi, e più ammirato, per la propria bellezza, dell’intero Continente: le vallate alpine e le coste liguri, le campagne toscane e il litorale campano, i monti calabresi e le città siciliane, costituivano la composizione di elementi naturali irripetibili e dell’opera stratificata di tutte le civiltà sviluppatesi nel bacino del Mediterraneo, una composizione priva di eguali in tutto il Mondo. La coscienza estetica ed il consapevole orgoglio della bellezza della Patria ne avrebbero preteso la conservazione e la tutela.

Sul terreno naturalistico la denuncia è stata indirizzata all’alterazione, ove non alla distruzione, degli ambienti naturali: le fratture operate nei boschi e nelle foreste per impiantare villaggi turistici, per tracciare nuove strade e piste sciistiche, lo smembramento delle pinete costiere per disseminarvi le ville dei titolari della nuova ricchezza, l’alterazione degli alvei fluviali, distruggevano gli ultimi resti degli ecotipi originali in un territorio profondamente penetrato, nei millenni, dalla presenza dell’uomo, o ambienti formatisi con la lenta compenetrazione dell’azione antropica negli elementi naturali originari.

All’acuirsi, negli anni, della pressione sull’ambiente della nuova società industriale, la denuncia si sarebbe stesa all’inquinamento dell’aria, delle acque e del suolo, tre fenomeni che sono venuti acquisendo, negli anni recenti, una virulenza ancor maggiore di quella dell’occupazione fisica del suolo. Nati come espressione delle obiezioni di una schiera esigua di studiosi e di uomini di cultura, gli argomenti dell’opposizione all’alterazione incontrollata del territorio nazionale avrebbero costituito il primo nucleo di quella “coscienza ecologica” che, pure con considerevole ritardo rispetto ai paesi di più antica industrializzazione e di diversa tradizione culturale e religiosa, è venuto prendendo corpo anche in Italia, diffondendosi a strati sempre più ampi della società, tanto da imporre, faticosamente, alcune delle proprie istanze tra i convincimenti della coscienza collettiva, la quale ne ha imposto alla classe politica, in un processo non esente da conflitti e contraddizioni, la traduzione in prime norme dell’ordinamento giuridico.

Deficit alimentare, deficit territoriale

Ma se sul piano estetico e su quello naturalistico sugli esiti dell’edificazione si è acceso un dibattito che ha coinvolto, lentamente, sfere non più ristrette dell’opinione pubblica, qualsiasi impegno di analisi, non si può non rilevare, è finora mancato sul terreno agronomico, il terreno specifico per valutare gli esiti dello stesso fenomeno sulla produzione agricola del Paese. Un’espressione certamente non sorprendente dell’antica indifferenza della scienza e della cultura nazionali verso i problemi dell’agricoltura, un’indifferenza di cui ha costituito prova inequivocabile, pure se prova “a contrario”, l’improvvisa, estemporanea ventata di interesse che ha acceso, negli anni più recenti, un dibattito tanto intenso quanto improvvisato sullo squilibrio tra produzione e consumi alimentari del Paese, con un termine abusato il ”deficit agroalimentare”.

Parallelamente al dibattito sul deficit alimentare si è sviluppata la polemica, non meno appassionata, sul recupero produttivo delle “terre incolte”, i poderi, o gli spezzoni poderali, ubicati nelle aree di montagna e di collina, abbandonati nel corso della fuga dai campi degli anni ’50 e ’60. Non pochi degli interlocutori del dibattito nazionale hanno abbinato i due temi, stabilendo quasi una relazione di causa e di effetto, senza che nessuno, di quanti contro le cause delle sventure alimentari declamavano le arringhe più vibranti, paresse percepire quanto per l’approvvigionamento alimentare del Paese sia più rilevante la sottrazione delle fertili terre di pianura che l’abbandono di povere terre di montagna dalla vocazione naturale più forestale e pascolativa che agricola.

L’entità del deficit alimentare nazionale è dato a tutti noto. L’analisi più superficiale delle sue componenti fondamentali rivela come esso corrisponda alla differenza tra il valore dell’importazione di derrate ottenute da coltivazioni di carattere “estensivo”, grano, mais, oleaginose, fibre tessili, e quello dell’esportazione dei prodotti caratteristici di un’agricoltura intensiva, frutta, ortaggi, vino: un indizio inconfondibile di una situazione difficilmente modificabile, in quanto segno di un’agricoltura dalle scarse disponibilità di terra e ad alto impiego di capitali e di manodopera, strutturalmente incapace di produrre tutte le derrate “estensive” necessarie al Paese. Per produrre frumento, mais e soia capitali e tecnologia sono, infatti, fattori indispensabili, ma non sono sufficienti, ove non si accompagnino alle più ampie disponibilità di superfici arabili.

La connessione causale proclamata tra il deficit e l’abbandono di qualche campo in montagna ha prestato la conferma più eloquente della scarsa dimestichezza, o dell’ignoranza, dei problemi tecnici ed economici dell’agricoltura di quanti proclamavano l’urgenza di un rapido pareggio della “bilancia” agricola, un obiettivo impossibile in termini di autosufficienza produttiva, possibile, quantomeno sul piano ipotetico, solo ove fosse realizzabile un aumento imponente delle esportazioni di ortaggi, frutta e vino: un proposito assai arduo da tradurre in realtà, essendo provato dall’esperienza consolidata che le uniche derrate oggetto di esportazione sicura nel tempo sono quelle che l’uso definisce “strategiche”, quelle appunto di cui l’Italia è tributaria all’estero, mentre i flussi dei prodotti “superflui”, quelli tipici delle agricolture intensive, fiori e specialità gastronomiche, sono sottoposti alle più ampie fluttuazioni, determinate dal mutare dei rapporti di concorrenza, dall’evoluzione della tecnologia, dalle trasformazioni dei gusti.

Chi scrive ebbe occasione di suggerire, per ricercare, al di là dell’apparenza delle cifre, il loro significato agronomico, di tradurre il bilancio agricolo-alimentare nazionale nei termini delle superfici necessarie alle diverse produzioni. Escludendo dal computo le derrate tropicali, la cui produzione è impossibile sul nostro suolo, dal computo proposto risultava che i 5.000 miliardi del passivo della bilancia agraria del 1975 potevano reputarsi, allo stato attuale della produttività agricola e della qualità dei consumi, l’equivalente della produzione di 4,3 milioni di ettari di pianura. Non disponendo la Penisola che di 6 milioni di ettari di pianura, pretendere il pareggio alimentare equivaleva, annotavo, ad auspicare di viere in un paese diverso.

Nel suo carattere di semplice ipotesi esplicativa il computo riceveva il consenso di operatori autorevoli della statistica agraria, che riconoscevano la coerenza formale del procedimento, e la fondatezza, pure nel carattere di formulazione didascalica, dei risultati. In quel computo, a metà strada tra indagine statistica e supposizione economica, reputo si possa ancora individuare un approccio non privo di utilità per la valutazione del fenomeno dell’”espropriazione” dei suoli produttivi all’agricoltura, un saggio di calcolo utile tanto sul piano agronomico quanto su quello economico-agrario. In un paese al soddisfacimento dei cui bisogni alimentari mancano, allo stato attuale dei consumi alimentari e della tecnologia agricola, 4 milioni di ettari, la perdita annuale di una superficie di 50.000 ettari non può essere reputata insignificante, come è generalmente ritenuta dalla successione di decenni da cui si protrae incontrastata.

A comporre il quadro dei rapporti tra superficie agraria e produzione alimentare non si può non rilevare, del resto, come la produttività di tutte le colture abbia registrato anche in Italia, negli ultimi trenta anni, incrementi in più di un caso spettacolari: confrontando quegli incrementi con quelli registrati, in quantità e in qualità, dai consumi, non meno imponenti, non si vede come sia coerentemente possibile eludere la domanda se tra le cause che rendono incolmabile lo iato tra disponibilità e fabbisogni non debba attribuirsi un peso al meccanismo che, riducendo gli spazi coltivati, erode sistematicamente la maggiore produzione che i progressi della tecnologia consentono di realizzare nelle rese unitarie.

Chi ha ripetuto, dalle tribune congressuali e dai fogli di partito, il più acceso grido di guerra contro le terre “incolte”, una porzione del territorio nazionale valutata, secondo le fonti che si sono cimentate con le cifre, tra i 2,5 ed i 6 milioni di ettari, pare non avere mai percepito che dieci ettari recuperati, con l’impiego di mezzi costosi e in tempi non brevi, tra le pendici ed i calanchi appenninici, potranno giungere a fatica, dopo investimenti imponenti, a produrre quanto si ottiene, col semplice impiego dei carburanti e dei fertilizzanti necessari ai cicli annuali, da un ettaro di pianura sottratto all’agricoltura per costruire qualche villetta o un’area di parcheggio.

Dopo tanto clamore, proprio in Piemonte, una regione governata dal Partito comunista, il partito più chiassoso nel pretendere il recupero delle terre “incolte”, un’accurata indagine in campo ha costretto recentemente gli amministratori regionali a riconoscere che le terre abbandonate costituiscono un caleidoscopio di spezzoni tanto esigui da rendere improponibile qualsiasi programma di riutilizzazione, salvo varare generali provvedimenti di esproprio, che lo stesso Partito comunista scongiura risultando la maggioranza dei proprietari delle terre abbandonate antichi coltivatori oggi impiegati in fabbrica come operai.

Ho sottolineato che proporsi di misurare il deficit alimentare in termini di superficie agraria, oltre ad imporre di attribuire al computo un significato orientativo obbliga a circoscriverne il valore al tenore attuale dei consumi alimentari e allo stato presente della tecnologia agricola. Sono due condizioni al variare delle quali muterebbero, evidentemente, anche i risultati del calcolo. Come muterebbero, con ovvia corrispondenza, i termini delle conseguenti valutazioni, che ci siamo proposti di formulare, del fenomeno della devoluzione degli spazi agricoli a destinazioni alternative.

Viviamo un’epoca di mutamenti profondi dei flussi delle materie prime e delle possibilità di attingere alle loro fonti da parte delle diverse nazioni. Gli studiosi dei paesi agricoli più progrediti , in primo luogo quelli americani, paiono sempre più concordi nel pronosticare che quelle trasformazioni imporranno anche all’agricoltura una metamorfosi profonda, e ciò sebbene l’agricoltura del loro paese goda di difese assai più solide di quella italiana contro spinte e controspinte che si registrano sui mercati internazionali. Ritengo perciò non costituisca esercizio pleonastico approfondire l’esame intrapreso svolgendo qualche considerazione sui rapporti tra spazi agricoli e produzioni alimentari alla luce di alcune tra le ipotesi più attendibili sull’evoluzione futura dell’attività agricola.

Sviluppo agricolo: continuità o frattura?

Nella sfera dei consumi, nella quale interferiscono elementi tanto numerosi che qualsiasi previsione riveste inevitabili caratteri di aleatorietà, può quantomeno rilevarsi come l’inarrestabile lievitazione dei prezzi al consumo ha già allontanato i ceti meno capaci dai prodotti di più elevata qualità e di maggiore prezzo. Quali saranno gli esiti futuri di tale ristrutturazione del “paniere della spesa” è, oggi, impossibile prevedere. Sul terreno della produzione è possibile, invece, delineare due ipotesi alternative dai contorni sufficientemente nitidi da consentire di derivarne alcune indicazioni attendibili.

La prima corrisponde alla previsione, emblematica di una visione meramente tecnicistica, del perdurare indefinito dei processi di sviluppo in corso. La seconda, frutto, invece, di una filosofia che potremmo definire ecologica, prevede come inevitabile l’arresto dei processi di sviluppo attuali, a causa di vincoli e remore imposte dalla crescente rarefazione e dai costi in ascesa delle materie prime e dell’energia.

Fino a quando la perpetuazione futura del clima economico che caratterizzava l’alba degli anni Settanta ha goduto dignità di assioma incontrovertibile, nessuna incertezza sulla continuità della produzione agricola, allora protagonista di un ritmo di crescita inarrestabile, ha goduto del diritto di cittadinanza tra le preoccupazioni degli uomini politici e degli economisti. Gli eventi economici e politici succedutisi sulla scena mondiale dal 1973 avrebbero reso, invece, dubbi e perplessità diffusi e insistenti.

Assumendo, comunque, l’ipotesi della sicura continuità dei processi di sviluppo agricolo, riducendo le difficoltà incontrate dall’economia agricola negli ultimi anni a meri episodi congiunturali, appare coerente pronosticare, su scala planetaria, la capacità della sempre più intensa produttività a sopravanzare gli effetti dell’erosione della superficie agraria, come essa li ha sopravanzati negli anni recenti. Risulta peraltro oltremodo difficile, anche abbracciando le ipotesi più ottimistiche, pronosticare che il saldo attivo tra incremento delle produzioni e erosione delle superfici agricole possa equilibrare la “bilancia” agricola del nostro Paese: concentrandosi su spazi sempre minori pare inevitabile, infatti, che la nostra agricoltura tenda ad accentuare ulteriormente i caratteri di intensività, quindi la produzione di specialità ortofrutticole, enologiche, casearie. Non pare immaginabile che essa possa accrescere la produzione di quelle derrate di base che costituiscono la quota fondamentale delle nostre importazioni.

Appare peraltro improbabile che essa possa aumentare in modo sostanziale l’esportazione dei propri prodotti tipici: basti ricordare che le esportazioni italiane dovranno confrontarsi, sui mercati della Comunità Europea, con quelle dei nuovi paesi membri mediterranei, in particolare della Spagna, un paese dove le stesse produzioni dispongono di superfici agrarie senza confronto più vaste, dove sussistono, perciò possibilità di automazione e di efficienza operativa radicalmente diverse.

Un incremento imponente delle produzioni viene prospettato , nel futuro della nostra agricoltura, quale risultato dei progetti irrigui in corso di approvazione: si menziona la cifra di quasi un milione e mezzo di ettari prossimi ad essere collegati alle reti irrigue che saranno costruite nei prossimi dieci anni. Nella cornice delle considerazioni che abbiamo proposto è palese che 150.000 ettari di nuova irrigazione apprestati ogni anno compenserebbero ampiamente la sottrazione di 50.000 ettari edificati negli stessi dodici mesi. Chi conosca tempi e procedure di realizzazione dei progetti irrigui nel nostro Paese non può esimersi dall’esprimere, sui proclami della politica irrigua, quantomeno le proprie perplessità. Da tre decenni si prospettano i prodigi futuri dell’irrigazione in Capitanata, ma a quasi vent’anni dalla costruzione degli invasi la superficie irrigata in provincia di Foggia risulta inferiore a quella di vent’anni addietro, non avendo l’estensione delle nuove reti compensato la contrazione della superficie irrigua causata dall’esaurimento dei pozzi privati allora attivi.

Non si può, peraltro, mancare di rilevare che la parte assolutamente preponderante dei suoli sottratti all’agricoltura è costituita proprio dai terreni irrigati in epoche remote: le città si espandono inglobando le aree del circondario, sede, da Palermo a Bologna, di un’opera secolare di coltivazione e miglioramento, il cui lascito era costituito da reti irrigue che in secoli di impiego avevano trasformato la stessa struttura fisica dei terreni, esaltandone la fertilità qualsiasi ne fossero le caratteristiche originarie. Valga, per tutti, l’esempio della pianura milanese. Mentre si deve osservare che le aree di futura irrigazione, salvo quelle irrigate tramite reti di obsolete, che impongano opere di ristrutturazione piuttosto che di nuova adduzione, sono costituite da suoli dalle capacità produttive oltremodo modeste, cui corrisponde la primordialità delle tradizioni di sfruttamento. Elevarne le potenzialità produttive, anche condotta l’acqua, imporrà una serie cospicua di investimenti complementari, e un difficile impegno di stimolo delle capacità imprenditoriali.

Mentre la conversione dei suoli agricoli in aree edificate procede, cioè, sottraendo alla produzione suoli di elevate capacità attuali, per offrire un contributo più consistente di quello attuale all’approvvigionamento alimentare le terre dove sono previste nuove reti irrigue dovranno attendere non solo la realizzazione dei progetti, ma anche la conversione degli ordinamenti che richiede capitali e capacità tecniche, e che gli esperti sono unanimi nel giudicare lenta e laboriosa.

Verso i limiti dello sviluppo?

Affrontando l’esame della seconda ipotesi, quella che definisce le difficoltà incontrate dallo sviluppo della produttività degli ultimi anni l’avvisaglia di una crisi destinata, a causa delle difficoltà dell’economia mondiale, ad aggravarsi costantemente, non si può mancare di sottolineare, ho rilevato, che i responsabili del sistema agrario più poderoso del Pianeta, quello statunitense, stanno proponendosi senza reticenze gli interrogativi sulle possibilità di protrarre uno sviluppo agricolo dai caratteri identici a quello degli ultimi tre decenni. L’ulteriore crescita dei costi energetici, che si ripercuote direttamente sul prezzo del carburante e dei prodotti chimici impiegati nelle campagne, combinandosi con l’imposizione dei vincoli ecologici imposti dalla necessità di contenere i danni di tecniche misurate sul semplice criterio della produttività, causa tanto dell’erosione del suolo quanto dell’inquinamento della terra e delle acque, opporrà, secondo un novero crescente di studiosi, freni sempre più rigidi all’accrescimento della produzione agricola. Per alcuni dei protagonisti del dibattito agro-ecologico quei freni potrebbero arrestare ogni aumento della produttività, quantomeno per il periodo necessario al varo di tecnologie diverse di sfruttamento del suolo.

Che l’agricoltura italiana sia ancora più esposta di quella americana al rincaro dei prodotti petroliferi è verità che non richiede dimostrazioni troppo sottili per essere provata. Disponendo direttamente del 50 per cento del proprio fabbisogno energetico, e costituendo i consumi agricoli meno del 5 per cento dei consumi totali, la disponibilità di energia non pare costituire un limite per la funzionalità dell’apparato agricolo degli Stati Uniti. La percentuale dei consumi sale al 12 per cento considerando l’intero ciclo di produzione, trasporto e trasformazione e utilizzazione domestica delle derrate alimentari, un ciclo nel quale gli esperti sono concordi nel riconoscere vistosi sprechi, che dispiegano ampi spazi per contenere, con pratiche più razionali, i consumi. Scarseggiando il greggio, i dati dimostrano che negli Stati Uniti sarebbe sufficiente attribuire alla produzione alimentare una parziale priorità per mantenere gli approvvigionamenti di carburanti e fertilizzanti a livelli non lontani da quelli attuali, o per contenerne la riduzione entro termini tali da non pregiudicare l’efficienza del settore. Una facoltà di cui non dispone, palesemente, il nostro Paese.

Sul terreno ecologico, se l’Italia non conosce i fenomeni di erosione eolica e idraulica il cui contenimento potrebbe imporre, negli Stati Uniti, una drastica trasformazione delle pratiche agrarie diffuse nelle pianure interne, i problemi del dissesto idrogeologico sono, senza dubbio, più gravi nel nostro Paese che nella maggior parte delle nazioni agricole evolute, mentre i problemi dell’inquinamento non sono meno pressanti nelle nostre campagne che in quelle di tutto il mondo industrializzato: basti ricordare, tra tutti, a quello costituito dal deflusso delle acque reflue dall’area di maggiore intensività colturale del Paese in un mare, quale l’Adriatico, costituente bacino praticamente privo di ricambio.

E’ sufficiente ricordare, a proposito, che il sistema di affluenti del Po convoglia i fertilizzanti dilavati da 750.000 ettari di mais, in ciascuno dei quali non è raro vengano superati i 300 chilogrammi di azoto, da 700.000 ettari di frumento, in cui l’impiego medio di azoto può essere stimato di 100-150 chilogrammi, da 180.000 ettari di bietole, coltivate con un impiego medio di 150 chilogrammi di azoto, da 180.000 ettari di riso, sui quali la concimazione azotata tocca i 200 chilogrammi, oltre a tutte le colture orticole e frutticole, più di una delle quali realizzata con un impiego di fertilizzanti prossimo a quello del mais (che può essere superata dal pesco), e osservare che deve reputarsi dilavata dalle acque circa la metà dell’azoto distribuito nei campi, e quote limitate, pure globalmente non trascurabili, di anidride fosforica, per riconoscere come l’eutrofizzazione dell’Adriatico non costituisca, probabilmente, prospettiva che sfuochi in tempi remoti.

La con stazione impone di riconoscere come tra le condizioni per evitare la “morte biologica” del mare che bagna metà della Penisola non possa non includersi una conversione delle tecniche colturali tale da evitare il dilavamento dei fertilizzanti. Siccome, però, è proprio per compensare le frazioni dei fertilizzanti dilavate che, al fine di assicurare alle colture la disponibilità necessaria alle rese più elevate, sono state adottate le dosi oggi prevalenti, l’inversione di indirizzi non potrebbe non comportare , quanto meno negli stadi iniziali, un significativo contenimento della produzione, o, nell’ipotesi più favorevole, un arresto degli incrementi annuali che hanno collocato, nei lustri recenti, la cerealicoltura padana all’avanguardia tra quelle d’Europa, facendone uno dei punti di forza del nostro progresso agricolo.

Trasponendo queste considerazioni in termini di superficie agraria, non si può non ricavarne la conferma del carattere necessario ed insostituibile di ogni ettaro a disposizione dell’agricoltura nazionale, come condizione perche le eventuali trasformazioni delle tecnologie agronomiche che fossero imposte da imperativi energetici o ecologici non si traducessero inevitabilmente, componendosi con l’erosione della superficie agricola, in decurtazioni della già insufficiente produzione agraria nazionale. Ideologie e territorio: consapevolezza o indifferenza? Ho premesso che un fenomeno passibile di valutazioni molteplici, quale quello della sottrazione dei suoli agricoli, interessando una molteplicità di sfere scientifiche e operative, quella geografica e quella storica, quella paesaggistica e quella ecologica, quella agronomica e quella economica, può essere valutato in termini politici e amministrativi solo dopo avere formulato un apprezzamento secondo i criteri di analisi specifici dei terreni di conoscenza diversi che coinvolge. Dopo le riflessioni che abbiamo svolto sul significato storico ed economico del fenomeno nello sviluppo recente del Paese, dopo avere ricordato le riserve che esso ha suscitato sul piano paesaggistico e su quello ecologico, e analizzato le sue implicazioni sul terreno agronomico e su quello della politica alimentare, possiamo affrontare l’esame degli orientamenti urbanistici nazionali e della prassi operativa seguita dalle amministrazioni locali.

Sul piano nazionale non si può non rilevare come qualunque preoccupazione di tutela del patrimonio dei suoli agricoli del Paese sia stata assente nella lunga stagione di legislazione urbanistica compiutasi, in tre decenni, nelle aule del Parlamento repubblicano. Le Camere hanno rimesso, infatti, ogni potere sul governo del territorio alle amministrazioni locali. E’ all’operato degli enti locali, in quanto arbitri incondizionati delle destinazioni del territorio, che si deve dirigere, perciò, l’analisi della filosofia dell’impiego dello spazio fisico cui si è ispirata l’azione pubblica di controllo e mediazione tra le esigenze dell’edificazione e quelle di tutela dei terreni agrari del Paese.

Il primo dato che quell’analisi impone di rilevare non può essere che la constatazione dell’assoluta estraneità, tra le preoccupazioni delle amministrazioni locali nell’espletamento delle funzioni di indirizzo dei fenomeni edilizi, di quelle considerazioni geografiche, storiche, paesaggistiche ed ecologiche da cui abbiamo verificato non potersi prescindere nella valutazione del fenomeno. L’unico impulso che ha guidato gli enti locali a decidere dell’occupazione dei suoli agricoli a fini edificatori può affermarsi essere stato un impulso economico, o, più esattamente, economico-sociale: la volontà di soddisfare la pressione, vigorosa e spontanea, di una società in vivace sviluppo a espandere gli insediamenti urbani.

Nella contesa, tra i partiti politici, a rivestire il ruolo di interpreti “autentici” degli impulsi dello sviluppo sociale, quindi a farsi arbitri e garanti della concessione degli spazi necessari per l’espansione degli insediamenti, credo non possa non riconoscersi l’incontrastato primato, fino ad anni recentissimi, di un’unica “ideologia” dell’edificazione, suffragata dall’assioma che abbiamo riconosciuto radicato nella coscienza collettiva , il fondamento dell’apprezzamento comune della conversione edificatoria degli spazi agricoli: l’assioma per cui costruire costituirebbe comunque espressione di vitalità economica, manifestazione di progresso e condizione di benessere. Ogni metro quadrato sottratto alle campagne per costruire palazzine e capannoni ha rappresentato, per tutti i sindaci d’Italia, un metro quadrato di progresso.

L’identificazione in ogni metro edificato di un metro di sviluppo economico è stata l’ideologia dell’uso del territorio di tutte le amministrazioni locali d’Italia: se pure è indubbio, infatti, che le forme dell’espansione edilizia che si è realizzata alle diverse latitudini della Penisola, in dipendenza della natura industriale o puramente abitativa e terziaria dei nuovi insediamenti, e dell’ispirazione politica delle amministrazioni, hanno rivestito caratteri differenti, il comune denominatore “ideologico” dell’opera di indirizzo dell’espansione edificatoria non può non essere identificato nell’assoluta, assiomatica certezza del valore maggiore, in termini politici, economici, persino etici, del suolo urbanizzato rispetto al suolo agrario. Una’autentica ideologia dell’edificazione, quindi, per la quale qualsiasi ampliamento delle aree edificate ha corrisposto, sempre e comunque, all’assolvimento di un’esigenza primaria del progresso economico e sociale.

Sottostante a quell’ideologia non è difficile individuare un’autentica dottrina politica, la pretesa che il controllo di quell’espansione dovesse costituire, comunque, prerogativa della classe degli amministratori locali, che l’esercizio del potere di controllo ha concepito, tuttavia, e su questo piano si registra la divaricazione tra le forze politiche che hanno governato il Paese, secondo prassi significativamente diverse. Se, infatti, per le amministrazioni di centro, a predominanza democristiana, il controllo dell’edificazione ha sempre costituito privilegio e prerogativa da spartire tra i propri membri e imprenditori sensibili alle esigenze finanziarie del partito, è stato attribuito, quindi, come si assegna un appannaggio privato, per le regioni di sinistra, a maggioranza comunista, esso ha costituito strumento di gestione di un berne- condizione dello sviluppo economico, da impiegare con sagacia per imporre la mediazione e il controllo del partito sulle forze economiche e sociali in competizione per la conquista delle sfere nuove di attività aperte dalla crescita economica.

Edificazione, comunque, per entrambi gli schieramenti, come sinonimo univoco di progresso e strumento per imprimere il marchio di una forza politica sulla crescita economica: è stato fino ad anni recentissimi che l’assioma ha costituito il fondamento della politica edilizia di tutte le amministrazioni locali del Paese, fino a quando l’imporsi delle preoccupazioni paesaggistiche e naturalistiche ha imposto remore prima sconosciute agli amministratori comunali, quanto meno nelle regioni dove l’evolversi del quadro economico caratteristico della società industriale, e l’emergere delle sue contraddizioni, ha diffuso nell’opinione pubblica le prime riserve verso una diffusione senza limiti delle attività produttive. Riserve di cui possono riscontrarsi i primi effetti nel lento, né privo di arretramenti, mutare degli atteggiamenti collettivi verso il valore del paesaggio rurale. E’ stato in ottemperanza di una legge generale che l’affermarsi di preoccupazioni nuove ha imposto anche agli amministratori locali criteri di valutazione nuovi, che non è ancora, peraltro, una visione nuova della realtà territoriale.

Se, tuttavia, una sensibilità paesaggistica diversa è venuta imponendosi tra le coordinate entro le quali i responsabili della gestione dello spazio fisico del Paese sono tenuti ad operare, assolutamente estranea alle loro preoccupazioni risulta, ancora, qualunque considerazione del valore agronomico e del rilievo economico-agrario dei suoli di cui decidono l’urbanizzazione. Indotti dalla nuova pressione dell’opinione pubblica a preoccuparsi dell’esito estetico dei propri interventi, le riserve fino ad oggi emerse sul valore strategico del terreno agricolo appaiono ancora troppo sommesse per costringere a prenderne atto una classe politica che reputa la potestà di ripartire suoli edificabili tra le forze economiche e sociali cui intende imporre la propria mediazione la più essenziale delle proprie prerogative. E tra le istanze espresse dalle forze sociali non è dato percepire, oggi, alcuna pretesa di difesa delle potenzialità produttive della superficie agricola nazionale, ove si eccettuino, come abbiamo ricordato, le prime proteste delle organizzazioni dei produttori agricoli, costrette a riconoscere, dopo decenni di indifferenza, che l’espropriazione di un’azienda non può trovare, nel contesto economico attuale, compensazione né sul piano economico né su quello professionale. Ma le proteste sono, ancora, incerte e discordanti.

Rilevata l’indifferenza degli amministratori locali al problema della contrazione della superficie agraria del Paese, non si può mancare di sottolineare, peraltro, come il campo della politica agraria nazionale sia troppo vasto perché possano percepirne i contorni il consigliere del piccolo comune o quello della grande città, pressati entrambi da richieste di spazio avanzate in nome di necessità tutte ineludibili e tali che, assunte singolarmente, comportano la sottrazione all’agricoltura di superfici esigue per suscitare preoccupazioni di fronte all’entità della superficie agraria nazionale. Sarebbe ingenuo ritenere, cioè, che l’amministratore comunale possa guardare al di là della “variante” di piano regolatore, richiesta per soddisfare le esigenze di una cooperativa edilizia o di un consorzio di artigiani ai quali è legato, per di più, da solidi rapporti elettorali. La correlazione tra i 30.000 metri quadrati urbanizzati e la produzione agricola nazionale costituisce, per il consigliere comunale, problema al di là di qualsiasi possibilità di comprensione.

E’ proprio per le attitudini consolidate degli amministratori locali verso i suoli agricoli che non può non rivestire un rilievo precipuo, per l’evoluzione futura del fenomeno, l’attribuzione alle amministrazioni comunali, da parte di recenti provvedimenti di legge, di poteri che ampliano e consolidano quelle potestà sulla destinazione del suolo che da decenni gli amministratori locali reputano insufficienti ad assolvere alla propria vocazione di controllo dell’attività edificatoria.

Assumendo nelle proprie mani, insieme alla potestà di decidere della destinazione dei suoli, la prerogativa di acquisirli direttamente, trasformandosi in protagonista dell’edificazione, il ceto politico comunale ha coronato la più antica delle proprie aspirazioni, finalmente investito del potere di progettare ed eseguire le trasformazioni immobiliari che ha sempre dovuto delegare ad altri, per quanto sistematicamente scegliendo tra operatori legati dai più solidi vincoli politici. Disporre, come consentono le nuove norme, di terreni a costo praticamente nullo, quantomeno in rapporto ai prezzi del mercato, non costituisce stimolo per la più scrupolosa considerazione delle potenzialità produttive dei suoli agricoli. Non pare certamente un caso che documenti recenti della regione Emilia Romagna abbiano riconosciuto le dimensioni eccessive, sproporzionate, cioè, ai bisogni obiettivi, dei piani degli insediamenti di molti comuni amministrati dallo stesso partito al governo in sede regionale.

Non si intende certamente disconoscere i benefici che possono derivare dal nuovo status giuridico dei suoli, ma non si può rifuggire la constatazione del nuovo impulso che, data l’antica vocazione edificatoria degli amministratori locali, la nuova legislazione pare avere impresso all’occupazione dei suoli agrari, un impulso che pare assumere un vigore incoercibile. L’antica speculazione edilizia, si deve rilevare, obbedendo a leggi economiche cogenti, era indotta, quantomeno nelle aree più fertili di pianura, dotate di più elevate capacità produttive, quindi di più elevato valore economico, ad una maggiore parsimonia di quella che può pretendersi da amministrazioni locali per le quali il terreno costituisce bene a costo zero, e l’espropriazione del terreno lo strumento più agevole per provare il proprio attivismo, premiare forze collaterali, sollecitare nuove benevolenze.

Nuove preoccupazioni estetico- paesistiche paiono destinate a comporsi all’assoluta indifferenza per il valore agronomico dei suoli, con la propensione, anzi, ad utilizzare anche al di là dei bisogni le possibilità della loro occupazione nella libertà dalle remore antiche. Un esempio illuminante delle attitudini delle amministrazioni locali di fronte al problema della conversione edilizia dei suoli agricoli mi pare emerga da un esame anche meramente visivo dell’attività urbanistica dei comuni della provincia di Modena, riuniti in comprensori tra i più attivi dell’intero contesto economico nazionale: chi percorra le campagne della provincia e osservi i mutamenti dell’assetto fisico del territorio non può non rilevare il comporsi di due opzioni inconciliabili di cui si realizza, invece, la paradossale conciliazione. La prima, l’accoglimento delle istanze di tutela estetica del paesaggio, che si realizza nella difesa puntigliosa di vecchi stabili colonici, nella creazione di parchi e fasce versi, la seconda, il rinnovato impeto di espansione degli insediamenti promosso sulla base dei nuovi strumenti legislativi. Ne deriva un processo composito, che alla difesa di vestigia di un mondo rurale scomparso, ridotte a semplici relitti, disseminate in uno scenario rurale stravolto, una difesa perseguita con un rigore che non si può non giudicare patetico, si compone la realizzazione di progetti di urbanizzazione e industrializzazione che in nome di un disegno di “riequilibrio”, una parola cara agli amministratori di qualunque matrice politica, si incuneano e si dilatano nelle poche aree agricole rimaste integre, spesso costituite dai suoli migliori, quelli che per i prezzi raggiunti dal mercato fondiario la speculazione edilizia incontrerebbe difficoltà maggiori ad assalire per ricoprirli di cemento. Nessuna remora incontra lo zelo degli amministratori pubblici, per i quali il costo del terreno è, a lode della nuova disciplina, praticamente nullo.

All’impegno profuso nella creazione di nuovi insediamenti si somma quello a realizzarli secondo maglie sempre più ampie, per la lungimirante previsione di eventuali esigenze future delle attività economiche che vi si installeranno, per soddisfare la domanda di spazio che sale sempre più vigorosa dagli acquirenti di nuove abitazioni di ogni ceto sociale. Maglie più ampie costituiscono, del resto, condizione o pretesto per proclamare l’inserimento dei nuovi capannoni e delle “schiere” di villini nel paesaggio campestre: una dimostrazione di inequivocabile coerenza logica di come un’istanza paesistica ridotta a banale pretesto estetico si traduca nella giustificazione di fratture ancora più devastanti in quel paesaggio rurale che si proclama di voler tutelare con indefettibile rigore.