Versi di Giacomo Zanella/A Fedele Lampertico

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Versi di Giacomo Zanella Milton e Galileo
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deputato al parlamento italiano.




Ti dedico questi versi, che meglio di ogni altro conosci come mi venissero fatti. Le fatiche dell’insegnamento, a cui ho già consacrata la mia vita; e l’avere per tempo conosciute le difficoltà dell’arte, mi avrebbero agevolmente distolto da quello studio, se le tue amorevoli esortazioni e di altri amici tratto tratto non mi vi avessero richiamato. Reputo mia somma ventura di [p. vi modifica]essermi legato giovanissimo in amicizia con Paolo Mistrorigo, già professore di filologia e di storia nel liceo di Vicenza: bellissimo ingegno, di cui l’Italia ha vedute e lodate varie versioni da Orazio e da Ovidio. Eravamo nativi dello stesso luogo. All’autunno, nelle nostre passeggiate, una strofa o un distico di que’ poeti ci teneva compagnia per qualche miglio; ed avveniva non di rado che la sera ne separasse, prima che ci venisse trovata la frase da rendere con evidenza il pensiero latino. Utilissimo mi è tornato questo esercizio, al quale io non era nuovo, educato come fui nel seminario di Vicenza, e sotto abilissimi professori, fra cui ricorderò con eterna gratitudine Andrea Sandri e Giambatista Dalla Valle. Ne ho colto un bene non tanto allora avvertito, come adesso; cioè l’abitudine di non contentarmi [p. vii modifica]della prima forma. Nelle cave di pietra che sono in Chiampo, mio luogo natale, ho veduto che i primi strati non hanno valore, come quelli che facilmente si sfogliano e si sgretolano; solamente dopo il secondo o il terzo esce la lastra magnifica, che resiste alla forza dissolvente del sole e del ghiaccio.

Dirò nondimeno che questa cura della forma mi ha fatto nel primo tempo trascurare alquanto l’idea. Ho trovate fiorenti nel seminario le così dette Accademie. Erano esercitazioni poetiche, a cui prendeano parte gli alunni migliori. Il maestro di Belle Lettere dava un tema generale, com’è a dire Colombo, il Tasso, le Arti, e che so io; che veniva da lui stesso diviso in tanti temi speciali, quanti erano i giovani. Il tema era spesso antipoetico, se non altro, per essere comandato: ciascuno scriveva nel modo che [p. viii modifica]gli sembrasse più acconcio a buscarsi gli applausi del pubblico. Era naturale che essendo poesia non dettata dal cuore, riuscisse ad un sonoro e futile accozzamento di frasi. Io ebbi a durare non poca fatica per ridurmi a meditare direttamente sopra un soggetto e porlo in versi secondo l’impressione che mi avesse destata nel cuore. Con tutto ciò io non mi dolgo di quella forma di tirocinio poetico. Il cuore rimane; se veramente possiede il fuoco sacro, non mancheranno occasioni a destarlo; ma l’arte dello scrivere, cioè quel corredo di elocuzioni e di modi ch’è necessario ad esprimere convenevolmente il pensiero, se non si acquista negli anni giovanili, io credo non si ottenga mai più. Ho poste in questo volume molte versioni poetiche, nelle quali io mi sono esercitato per tempo; e ve le ho poste più [p. ix modifica]per un esempio a’ giovani, che per alcuna speranza ch’io m’abbia di trarne onore veruno.

I soggetti, che più volentieri ho trattati, sono quelli di argomento scientifico. Ma non è già l’oggetto della scienza che mi paresse capace di poesia; bensì i sentimenti, che dalle scoperte della scienza nascono in noi. Per questo io non ho mai posto mano ad uno di questi soggetti, che prima non avessi trovato modo di farvi campeggiar l’uomo e le sue passioni, senza cui la poesia, per ricca che sia d’immagini, è senza vita. Ciò si vedrà ne’ versi, che hanno per titolo Milton e Galileo. È noto come il grande uomo dopo la sua famosa ritrattazione fosse relegato ad Arcetri, presso Firenze. Vivea cogl’intimi amici e colle due figlie, monache nel vicino convento di San Matteo. Della [p. x modifica]maggiore, Suor Maria Celeste, furono ultimamente stampate alquante lettere dirette al padre, da cui si vede quanta conformità di opinioni e di affetti fosse fra loro. Milton giovane, viaggiando in Italia, ebbe agio di vedere Galileo. Lo ricorda egli stesso nella sua Areopagitica; e da due passi del poema, in cui tocca della luna veduta col telescopio del Toscano geometra, si può argomentare che l’Italiano facesse godere all’Inglese quello spettacolo allora nuovo. Quella visita mi parve soggetto opportuno ad esporre alcune idee sulla religione e sulla scienza, che altrimenti non mi sarei avventurato a mettere in versi.

Io non ti ho detto cosa, o carissimo Amico, di cui più volte non abbiamo insieme parlato. Le cortesi istanze dell’egregio Barbèra mi determinarono a raccogliere [p. xi modifica]questi versi in un volume; ne io so quanto ciò possa riuscire a bene nè dell’uno nè dell’altro. Ho gettati al fuoco altri miei versi; anche sopra alcuni contenuti in questo volume avrei molto a ridire, ma li ho lasciati correre soltanto per non parere di rinnegare del tutto la mia giovinezza.



Giacomo Zanella.



Padova, primo Agosto 1868.