Abèle (Alfieri, 1947)/Prefazione

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Abèle (Alfieri, 1947) Tramelogedia

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PREFAZIONE DELL’AUTORE1

Avendo io imposto un nome straordinario a questa mia teatral produzione, (qual ch’ella siasi) mi trovo costretto a dar brevemente ragione di essa, dichiarandone il titolo.

Tramelogedia, voce, che il tempo giudicherá poi se barbara debba riputarsi o Italiana, mi parve la piú adattata parola per caratterizzare quest’opera, della quale mi riuscirá forse piú facile il dire quello ch’essa non è, che di appurare quel ch’ella sia.

Tragedia non è; poich’ella pecca contro varie delle principali regole di un tal genere; e si prevale di mezzi che la sana Tragedia non può né deve assolutamente ammettere.

Commedia non è; poiché l’azione imita personaggi per la loro antichitá ragguardevolissimi, le peripezie ne sono dolorose, la catastrofe tragica quanto nessun’altra mai. E benché colla Pastorale sembri avere alcuna analogia, per la semplicitá dei soggetti; pure, ella se ne scosta affatto, nella condotta complicatissima e mista di molto mirabile, e nei mezzi di progredire, e nello scioglimento della favola.

Dramma non è; (intendendo questa parola nel senso adottato dal presente secolo) poiché se del Dramma musicale parliamo, questa composizione mia sí per l’unitá d’azione rigorosissima, sí per avere circa i due terzi delle sue scene scritte e recitate a Tragedia, non lo somiglia per nulla; se poi del Dramma (cioè Tragedia urbana) parliamo, essa lo somiglia ancor meno, trattandosi, come ho dianzi osservato, di personaggi eccelsi, e prevalendosi essa continuamente del mirabile e del soprannaturale.

Tragi-commedia non è; perché quella parte che in essa non è tragica, non è perciò comica in nessuna maniera. [p. 182 modifica]

Né, finalmente, da chi sa di quest’arte si potrá dire che il presente poema somigli alla Greca tragedia, nella quale la melodia de’ Cori vi si trova frammista in maniera da farla giustamente chiamare Melo-tragedia; titolo che per essere sano e ragionevole, mal si converrebbe alla mia, che tutta è sragionevole forse, e stravagante per certo. Nella Tragedia Greca vi ha anche alcun luogo il mirabile; ma con unitá stretta di luogo, e di tempo, e d’azione: i Cori vi sono cantati da personaggi non fantastici, i quali poi anche recitano in versi giambi, e dialogizzano coi personaggi Eroici, e sono di continuo innestati in ogni atto di essa. Al contrario in questa mia i personaggi cantanti e fantastici rimangono quasi totalmente separati dai tragici; e benché tutte due queste specie diverse operino per lo stesso fine, elle operano per lo piú ciascuna da se; nel modo appunto, in cui ne’ poemi epici le macchine celesti concertano separatamente fra loro quelle operazioni soprannaturali, che poi influiranno per mezzi straordinarj su le azioni degli eroi.

Opera-tragedia sarebbe dunque il vocabolo che piú esattamente verrebbe a deffinire una Tragedia mista di melodia e di mirabile, qual è questa. Io perciò, volendole dar un titolo che dignitosamente spiegasse la cosa, ho intarsiata la parola melo nella parola tragedia, in maniera ch’ella non ne guastasse la terminazione, non badando alla radice del nome. Che se badato ci avessi, non avrei certamente spaccato in due il τραγος, temendo che i pedanti non me ne lasciassero poi giustamente le corna: ma ho voluto che la stravagante parola a bella prima interpretasse la stravagante intenzione dell’autore di voler innestare nella Tragedia la Cantata Epica, senza pur togliere massimamente al quint’atto la totalitá del tragico effetto. Ma io stesso sarò il primo a riconoscere questo genere (ove pur genere sia) per mostruoso, e da non dover mai trovar luogo in alcuna sana poetica. Mi si dirá: perché dunque inventarlo, e valersene? Ed ecco, mi appresto a dare anche di questo ragione.

La stolta e puerile vanitá di voler essere riputato l’inventore di un nuovo genere drammatico, non fu certamente il motivo che a questo m’indusse. Troppo ben m’era noto, che la vera palma letteraria si acquista col perfettamente eseguire nei generi di giá ritrovati; e non mai coll’inventarne, peggiorando, dei nuovi. Ma siccome io stava scrivendo in lingua Italiana, e per gl’Italiani, non poteva in tutto interamente prescindere dagli usi ed abusi, e [p. 183 modifica] pensare e non pensare dell’Italia. Questa regione d’Europa giace presentemente in una quasi totale politica nullità, la quale moltissimo influisce su la sua o nullitá, o trista, o falsa esistenza morale, letteraria, e massimamente teatrale. Ciò essendo, o nessune, o pochissime tragedie, degne di un tal nome, vi si scrive; e nessunissima poi se ne recita mai mediocremente, perché non vi sono Attori, perché non vi sono spettatori, perché non vi sono né intendenti né pagatori. Avvezzi dunque gl’Italiani a marcir ne’ teatri, senza pure aver teatro, coll’Opera in musica hanno ritrovato uno stucchevole trastullo all’orecchio, che a poco a poco li ha poi fatti incapaci di esercitare in questi loro sedicenti teatri nessuna di quelle facoltá intellettuali necessarie per sentire, gustare, giudicare, od intendere almeno, una vera tragedia. Cosí, tutta orecchi, e niente mentale trovandosi essere la platea Italiana, da questi orecchiuti giudici ne scaturiscono dei vieppiú orecchiuti scrittori ed attori: onde per questa parte altresí, come per non poche altre, noi siamo giustamente il ludibrio del rimanente dell’Europa.

Questa sola ragione, giá fin dai primi miei anni letterarj, mi movea ad indagare, se non sarebbe stato possibile di presentare a sí fatta gente un misto spettacolo, in cui per mezzo degli orecchi usando una util fraude ai loro intelletti, si venisse ad infondere in essi il gusto della tragedia. Nel tempo ch’io scriveva (o credeva scrivere) delle vere tragedie, non volli ad esse frammischiare questo genere spurio, per non nuocere a quelle: onde di questo Abèle io feci l’ossatura soltanto: e cinque altre Tramelogedie ideai, riserbandomi poi, a tragedie finite, di eseguirle. Varie circostanze mi disturbarono questo mio disegno in appresso; sí che questa sola, che io mi trovava aver giá abbozzata, impresi a finire. Dell’altre cinque abbandonai totalmente il pensiere: perché, se il genere sará tale da poter riuscire, un altro scrittore potrá, migliorandolo, comporne molte altre sul modello di questa; se poi il genere non fosse eseguibile, sará molto meno male l’averne io fatta una sola, che sei.

Dopo sí fatto preambolo, mi rimane di dare alcuni schiarimenti su l’intenzione, sui mezzi, e su l’esecuzione di questo mostruoso spettacolo; e di spiegare con qual arte egli possa (come il puntello d’un edifizio, che a poco a poco tolto via, lo lascia poi puro e perfetto) servire, direi cosí, di mezzano al futuro gusto ed intelligenza della semplice e vera tragedia; la quale poi da se stessa a sostituirsi verrebbe alla tramelogedia, qualora questa fosse [p. 184 modifica] pervenuta a riaprire la necessarissima comunicazione fra l’intelletto e l’udito, che ora per disgrazia degl’Italiani si trova totalmente intercetta nelle loro platée.

Chi dunque volesse scrivere delle tramelogedie, (ove pure alcuno, persuaso da questa mia prova, intraprendesse ciò mai) dovrebbe da prima eleggersi soggetti rimotissimi da noi, di tempo, di costumi, e di luogo; ai quali si possa con verisimiglianza adattare il mirabile religioso, senza renderli troppo improbabili, o risibili. Dovrebbe poi usare una somma avvertenza nel distribuire l’episodico maraviglioso, che è la parte musicale, in tal maniera ch’egli venisse a servire all’effetto della tragedia senza guastarlo, ed anzi accrescendolo quanto sará possibile. E parimente nella parte tragica dovrebbe far sí, che ancorch’ella riceva alcuna influenza dalla parte episodica e maravigliosa, venga nondimeno a dominarla in tal guisa, che nessuno ponga in dubbio il primato della parte tragica su la parte musicale: ma che pure l’una coll’altra riescano coerenti e avviluppate talmente, che non si possa togliere l’Opera senza menomar la tragedia; né toglier la tragedia, senza annichilare il tutto. E non sará facile che io chiarissimamente mi spieghi per tutti, trattandosi di materia nuova, ed, in parte, dipendente dalla fantasia. Ma spero che per chi intende dell’arte, queste mie poche parole, comentate poi dall’Abèle che le segue, verranno a spiegare, o ad accennare l’intenzione dell’autore, col fatto.

Comunque poi si venisse a distribuire il poema, sarebbe avvertenza necessaria il fare il quint’atto tutto meramente tragico, non interrompendo né guastando mai la catastrofe con nessuna mistura melodica. Si potrebbe accrescerla bensí, appena ch’ella fosse eseguita, coll’aggiungervi alcuno squarcio melodico: ma sempre con molto giudizio; perché l’intenzione di questo spettacolo essendo di lasciare gli uditori occupati intellettualmente, e commossi di cuore, non giá di lasciarli colla semplice romba musicale negli orecchi, il termine dev’esserne tragedia assoluta. Anzi dalla destrezza dell’autore nel maneggiare queste due parti a dovere, ne avverrá che gli uditori stimando d’essere venuti all’Opera, si saranno, per cosí dire, senza avvedersene ingojata la tragedia; ma questa cogli orli del vaso inzuccherati, come appunto si dá la salute e la vita agli infermi fanciulli.

Io, quanto alla distribuzione, in questa tramelogedia ho voluto fare il prim’atto tutto Opera, il secondo tutto tragedia, il terzo ed [p. 185 modifica] il quarto tragedia mista, ed il quinto di nuovo schietta tragedia; fuorché in ultimo i pochi versi della Voce d’Iddio, che sono come lo scioglimento della macchina. Altri fará a posta sua altrimenti; ed io pure, se avessi compiute quell’altre, avrei in ciascuna variato circa la distribuzione, secondo che avrebbe richiesto il soggetto.

I culti religiosi degli antichi Egizj, dei Persiani, degli Ebrei, Caldei, Arabi, ed Indiani, dei Celti e Scozzesi, dei Greci stessi, e fra i moderni popoli, quelli dei Messicani e Peruviani, come rimoti molto di luogo, possono prestare ampia materia a questa specie di Dramma, essendo tutti a dovizia forniti di quel mirabile che quí si richiede; e lo possono somministrare sempre nuovo e diverso, ed egualmente efficace. Il campo, come poesia, è vastissimo. Chi è buon Lirico vi può sfoggiare; e cosí chi è buon Tragico: poiché raccozzati questi due rami di sublime poesia possono tra lor gareggiare senza che l’uno l’altro danneggi. Potrá l’autore ai su detti culti religiosi e costumi di queste remote nazioni appoggiare dei fatti cavati dalla tradizione, dalla favola, dalla storia, ed anco interamente inventati, ma sotto la scorza di nomi giá cogniti, e di avvenimenti verisimili secondo gli usi e lo stato politico di quelle contrade in cui si vorrá fingere il fatto.

Ma chi poi volesse far recitare, o questa, od altra tramelogedia, che su queste basi posasse, avverta principalmente di provvedersi due ben distinte Compagnie, l’una di attori tragici, l’altra di Cantanti; le quali, per lo piú disgiunte di scena, dovranno ciascuna coi loro diversi mezzi cooperare all’istesso fine. I tragici attori supporranno di recitare una qualche tragedia, in cui alcun cantante, senza punto sturbarli, viene introdotto a cantare. I Cantanti all’incontro (come piú presontuosi, piú ignoranti, e assai piú viziati che non lo sono per ora gli attori) supporranno che pel loro comodo e riposo, fra un atto e l’altro della lor Opera, i Tragici danno un intermezzo. Cosí lusingata, o delusa la loro stolida superbia, e tenuti poi in rispetto dalla generosa paga, costoro serviranno forse al soggetto senza avvedersene.

Se questo genere potesse operare il miracolo d’instillare negli Italiani l’amore della tragedia, io mi verrei forse allora a pregiare d’averlo promosso; e desidererei, anche non lo stimando per buono, ch’egli fino ad un certo segno si propagasse: essendo ben certo in me stesso che in breve poi la sana e schietta tragedia ne farebbe piena giustizia, col sottentrare essa in suo luogo, e sbandire la tramelogedia fra i parti mostruosi ed anfibj. Ma questo [p. 186 modifica] mostro sarebbe almeno stato utile in parte se alla tragedia avesse disgombrata la strada, finora pur tanto impedita.

Se poi questa mia temeraria impresa di voler inventare del falso, quando giá tanto ce n’era, non dovesse produrre che degli errori, e dei mostri peggiori ancora di quest’Abèle, desidero in tal caso d’essere stato io ’l solo a tentarlo, e che un sí fatto genere in questo solo mio parto e nasca e perisca.

Del resto questa specie di rappresentazioni, come molto spettacolosa piacerá facilmente al volgo; come nuova, ed in parte anche falsa, piacerá pure ai tanti amatori del nuovo e del falso. La Tramelogedia, oltre ciò, avrá gran bisogno della protezione dei Principi, e dei governi, o sia dei potenti e dei ricchi; perché ella non potrá mai essere bene eseguita in teatro, ad ottenere il suo pieno effetto, senza un’enorme spesa nei vestiarj, decorazioni, e soggetti. Questa sua natia dipendenza, di cui ella è degna, e che tanto meno me la rende gradita, parrebbe dover essere un grande ostacolo al di lei esito: ma quella stessa ragione potrebbe anche operare il di lei innalzamento. Un qualche matrimonio di Principi, una coronazione, una pace gloriosa, o qual altra di simili feste, potrebbe forse prestar l’occasione di tentare per amor di novitá la rappresentazione d’una tramelogedia con la necessaria sua pompa. Ed in sí fatta occorrenza, la borsa del Principe potrá, non in tutto, ma in parte supplire al poco ingegno ed al poco giudizio degli autori, ove tali pur fossero; stante che anche una mediocrissima composizione, coll’ajuto magico del mastro di cappella, dei cantanti, ballerini, attori, scene, e vestiario, verrá pure a dilettare moltissimo il volgo. E questa è altresí l’una delle principali ragioni per cui io stesso, piuttosto padrigno che padre, giudico la tramelogedia di gran lunga inferiore alla vera tragedia; poiché questa col solo mezzo di cinque o sei personaggi che intendano e sappiano l’arte loro, soggiogherá e l’intelletto ed il cuore degli ascoltanti, senza che v’entri per nulla il veicolo degli altri sensi, e senza il superfluo apparato pomposo.

Finisco, augurando all’Italia ch’ell’abbia una volta (se non per mio mezzo, per quello di qualunque altro autore) un vero teatro, in cui si assegni a ciascun’arte il suo debito luogo; e che l’Opera confinata dentro ai naturali suoi limiti di argomenti favolosi, scherzosi, e amorosi, non si usurpi piú lungamente il primato su la divina tragedia. Troppo è diverso il frutto di questi due spettacoli, perché mai una sana Nazione li lasci tra essi gareggiare del pari: [p. 187 modifica]l’Opera gli animi snerva e degrada; la tragedia gl’innalza, ingrandisce, e corrobora. Possa dunque la tramelogedia preparare in parte questo necessario e prezioso cangiamento, per cui gl’Italiani dalla loro effeminatissima Opera alla virile tragedia salendo, dalla nullitá loro politica alla dignitá di vera Nazione a un tempo stesso s’innalzino.


  1. «25 Aprile 1796».