Adriano in Siria/Varianti

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Atto terzo

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VARIANTI DELLA PRIMA REDAZIONE

rifiutata dall’autore


ATTO PRIMO

SCENA IV

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Emirena. È vero, Aquilio, o troppo

credula io sono? Il mio Farnaspe è giunto?
Aquilio. Cosí non fosse!
Emirena.   E perché mai t’affligge
la mia felicitá?
Aquilio.   La tua sventura,
principessa, io compiango. Ah! se vedessi,
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Emirena. In trionfo Emirena? Ah! non lo speri.
Non è l’Africa sola
feconda d’eroine: in Asia ancora
si sa morir.
Aquilio.   Barbara legge invero!
Ch’una real donzella
debba, del volgo alla licenza esposta,
strascinar le catene, udirsi a nome
per ischerno chiamar, vedersi a dito
disegnar per le vie... Solo il pensarlo
mi fa gelar.
Emirena.   Né vi sará riparo?
Aquilio. Il piú certo è in tua man. Cesare viene, ecc.

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SCENA V

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Farnaspe.   Oh Dio! son quelle,

e sempre agli occhi miei sembran piú belle.
Adriano. (Costanza, o cor!) Vaga Emirena, osserva
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Emirena. Chi è, signor, questo stranier?
Farnaspe.   Straniero!
Adriano. E nol conosci?
Emirena.   Affatto
non m’è ignoto quel volto. Il vidi altrove...
N’ho ancor l’idea presente...
Ma... dove fu... non mi ritorna in mente.
(Che pena è il simular!)
Adriano.   Principe, è questa
colei che teco apprese
a vivere e ad amar?
Farnaspe.   Vedi che meco
gode scherzar.
Emirena.   Non ha sí lieto il core
chi si trova in catene.
Farnaspe. Né sai qual io mi sia?
Emirena.   Non mi sovviene.
(Che affanno!)
Adriano.   (Che piacer!)
Farnaspe.   Bella Emirena,
mi tormentasti assai.
Basta cosí. Che nuovo stile è questo
d’accoglier chi t’adora? Il tuo Farnaspe...
Emirena. Tu sei Farnaspe! Al nome
ti riconosco adesso.
Farnaspe.   Oh dèi!
Emirena.   Perdona
l’involontario oltraggio. Al tuo valore
so quanto debba il padre mio. Rammento
piú d’una tua vittoria,
e de’ meriti tuoi serbo memoria.

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Farnaspe. Ah! ritorna piú tosto

a scordarti di me. M’offende meno
la tua dimenticanza.
Emirena.   In che t’offendo,
se i merti tuoi, se i miei doveri accenno?
Farnaspe. Giusti dèi, qual freddezza! Io perdo il senno.
Adriano. Chi m’inganna di voi? Finge Emirena,
o simula Farnaspe? Esser mentito
dee l’amore o l’obblio.
Emirena. Chi t’inganna, io non son.
Farnaspe. (ad Adriano)  Dunque son io.
Emirena. (Oh tormento!)
Adriano.   Se fosse
rispetto, o principessa, il tuo ritegno,
abbandonalo pur. Del core altrui
non son tiranno. Ecco il tuo ben. Tel rendo,
se verace è l’affetto.
Emirena.   (Non ti credo.)
Farnaspe. Rispondi.
Emirena.   Io non l’accetto.
Adriano. Udisti? (a Farnaspe)
Farnaspe.   Ove son mai? Sogno? deliro?
Io mi sento morir.
Emirena.   (Questo è martíro!)
Farnaspe. Principessa, idol mio, che mai ti feci?
Son reo di qualche fallo?
Sei sdegnata con me? Dubiti forse
dell’amor mio verace?
Parla.
Emirena.   (Che posso dir?) Lasciami in pace.
Adriano. Disingánnati alfin. (a Farnaspe)
Farnaspe.   Dunque son queste
le tenere accoglienze?
i trasporti d’amor? Poveri affetti!
Sventurato Farnaspe!
Emirena infedel! Spiegami almeno
l’arte con cui di cosí lungo amore
imparasti a scordarti.
Emirena. Deh! per pietá, taci, Farnaspe, e parti.
Farnaspe. Che tirannia! T’ubbidirò, crudele, ecc.

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SCENA VI

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Adriano.   Nulla perdesti.

Io perdei la mia pace,
cara, negli occhi tuoi. L’arbitra sei
tu della sorte mia. Tu far mi puoi
o misero o felice,
e del tuo vincitor sei vincitrice.
Emirena. Piú rispetto sperava
da te la mia virtú. L’animo regio
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Adriano. (Bella fierezza!) E qual oltraggio soffre
la tua virtú dal mio sincero affetto?
Posso offrirti, se vuoi,
e l’impero e la man.
Emirena.   No, che non puoi.
Arbitro della terra,
sei servo alla tua Roma. Ella ha rossore
fra le spose latine
di contar le regine. È noto a noi
di Cleopatra il fato,
l’esule Berenice e Tito ingrato.
Adriano. Era piú nuova allora
la servitude a Roma. Or per lung’uso
è al giogo avvezza, e sollevar non osa
l’incallita cervice.
Emirena.   E, s’ella il soffre,
Sabina il soffrirá? Promessa a lei
è la tua man.
Adriano.   Nol niego. Anzi ne fui
tenero amante, e l’adorai fedele
quasi due lustri interi. Alfine eterni
hanno a durar gli amori? Io non suppongo
in lei tanta costanza. Avrá cambiato,
senza fallo, pensier, come d’aspetto
la mia sorte cambiò. Veduto allora, ecc.

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SCENA VIII

Sabina. Sposo, Augusto, signor, questo è il momento

che tanto io sospirai: giunse una volta.
Son pur vicina a te. Che vita amara
trassi da te divisa! Il tuo coraggio
quanto tremar mi fece! In ogni impresa
ti seguitai con l’alma
fra le barbare schiere e le latine.
Soffri che adorno alfine

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Adriano.   Perdona: altrove

grave cura mi chiama.
Sabina.   Io non ritrovo
in Cesare Adriano. Ah! se l’impero
la pace t’involò, si lasci, o sposo:
vai piú di mille imperi il tuo riposo.
Adriano.   È vero che oppresso
     la sorte mi tiene;
     ma reo di mie pene
     l’impero non è.
          Io formo a me stesso
     l’affanno che provo:
     sul soglio nol trovo,
     lo porto con me. (parte)

SCENA X

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Aquilio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

(Si turba il mar: facciam ritorno al lido.)
          Vuoi punir l’ingrato amante?
     Non curar novello amore:
     tanto sèrbati costante,
     quanto infido egli sará.

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          Chi tradisce un traditore,

     non punisce i falli sui;
     ma giustifica l’altrui
     con la propria infedeltá. (parte)

[Nella scena XII è fusa anche la XIII della redazione detinitiva.]


SCENA XIII

Sabina, poi Adriano, indi Aquilio, tutti con séguito.

Sabina. E nessuno sa dirmi,

se sia salvo il mio sposo! Aquilio, ah! dove,
dov’è Cesare?
Aquilio.   Almeno
lasciami respirar.
Sabina.   Dove s’aggira?
Parla.
Aquilio.   Ma s’io nol so!
Sabina.   Questo è lo stile
del gregge adulator, che adora il trono,
non il monarca. Infin ch’è il ciel sereno,
tutti gli siete intorno e lo seguite;
se s’intorbida il ciel, tutti fuggite.
Aquilio. Eccolo. Non sdegnarti.
Sabina. Augusto, io torno in vita.
Adriano. Emirena vedesti? (a Sabina)
Sabina.   Io te cercai.
Adriano. Emirena dov’è? (ad Aquilio)
Aquilio.   Ne corro in traccia,
né ancor m’avvengo in essa.
Adriano. Misera principessa! (in atto di partire)
Sabina.   Odi. E non miri
come cresce l’incendio? Ah! tu non pensi
al riparo, signor.
Adriano.   Le accese mura
si dirocchino, Aquilio, acciò non passi
alle intatte la fiamma. (con fretta, come sopra)
Aquilio.   All’opra io volo. (parte)
Sabina. Ma, Cesare...
Adriano.   (Che pena!) (con impazienza)

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Sabina.   E di te stesso

prendi sí poca cura? Ove t’inoltri
fra’ notturni tumulti? Un traditore
non potresti incontrar? Forse che ad arte
fu desto questo incendio. Il reo si scopra
pria di fidarti.
Adriano.   È giá scoperto il reo.
Lo conosco. È Farnaspe. Amor lo spinse
all’atto disperato; in mezzo all’opra
fu còlto da’ custodi; è fra catene:
non v’è piú da temer. (tutto con fretta, partendo)
Sabina.   Dunque lo stolto...
Adriano. (Se non trovo Emirena, io nulla ascolto.) (parte)

SCENA XIV

Sabina e poi Emirena.

Sabina. Senti... Come mi lascia!

Che disprezzo crudel! Tutto si soffra.
Seguiamo i passi suoi. (in atto di partire)
Emirena.   Soccorso! aita!
Sabina.
Sabina.   Eterni dèi!
Mancava ad insultarmi anche costei.
Emirena. Che avvenne, Augusta?
Sabina.   E a me lo chiedi? Intendo:
vuoi che de’ tuoi trionfi
t’applaudisca il mio labbro. È vero, è vero,
son que’ begli occhi tuoi
rei di mille ferite. A lor talento
si sconvolgono i regni. Ognun t’adora;
ti cede ogni beltá. Sparta non vanti
la combattuta greca: ostenta ancora
le meraviglie sue l’etá novella;
tu sei l’Elena nostra, e Troia è quella.
  (accenna le fiamme)
Emirena. Ah! qual senso nascoso
celano i detti tui?
Sabina. Farnaspe tel dirá. Chiedilo a lui. (parte)

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SCENA XV [XIV]

Farnaspe incatenato fra le guardie romane, ed Emirena.

Emirena. Farnaspe!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Farnaspe.   Io venni

a salvarti e morir. L’ultimo dono
forse ottenni dal ciel, ma non la sorte
che tu debba la vita alla mia morte.
Emirena. Deh! pietosi ministri,
disciogliete que’ lacci, o meco almeno
dividetene il peso.
Farnaspe.   Ah! perché mai

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Farnaspe. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

     fra’ labbri io morirò.
          Addio, mia vita, addio,
     non piangere il mio fato;
     misero non son io:
     sei fida, ed io lo so. (parte)

SCENA XVI

Emirena sola.

S’è ver che i mali altrui

sieno a’ propri sollievo, a me pensate,
anime sventurate. Avrete pace
nel veder quanto sia
della vostra peggior la sorte mia.
          Infelice invan mi lagno,
     qual dolente tortorella,
     che, cercando il suo compagno,
     lo ritrova prigionier.
          Sempre quella ov’ei soggiorna,
     vola e parte, e fugge e torna,
     com’io vo fra le catene
     il mio bene a riveder. (parte)

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ATTO SECONDO

SCENA I

Aquilio. Piú oltre, o principessa,

non è permesso il penetrar. Fra poco
verrá Cesare a te. Sa che l’attendi;
non tarderá.
Emirena.   Ti raccomando, Aquilio,
il povero Farnaspe. Egli è innocente:
soccorrilo; procura
che Cesare si plachi.
Aquilio.   E chi placarlo
potrá meglio di te? Tu del suo core
regoli i moti a tuo talento. Ogni altra, ecc.

[mancano le battute 6, 7 e 8 della redazione definitiva]


SCENA II

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Sabina. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

nelle stanze d’Augusto.
Emirena.   Io venni solo...
Sabina. Lo so, lo so. De’ superati guai
il tuo signor felicitar vorrai.
Emirena. ... supplice ad implorar...
Sabina.   Supplice anch’io
a Cesare vorrei
esporre i sensi miei; ma non pretendo
ch’egli mi preferisca
in concorso con te. Non sará poco
se pur m’ascolta e nel secondo loco.
Emirena. Non piú, Sabina. Oh Dio!
che ingiustizia è la tua. L’amor d’Augusto, ecc.

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SCENA III

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Adriano.   Come! Supponi...

Qual è dunque il mio ben?
Sabina.   Conosco ancora
del mio caro Adriano
in quei detti confusi il cor sincero.
Ingannarmi non sai. No, non celarmi,

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Adriano. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

la tua virtú, la tua bellezza; e pure
non ho cor per amarti. Odio me stesso

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Sabina. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Barbaro! mancator! spergiuro! ingrato!
Adriano. (Son fuor di me.)
Sabina.   (Che dissi!) Ah! no: perdona
l’orgogliose querele. Ire son queste,
che nascono d’amor. Come a te piace
di me disponi. Instabile o costante,
sarai sempre il mio ben. Chi sa? Lo spero,
verrá, verrá quel giorno,
che, ripensando a chi fedel t’adora,
forse dirai... Ma sarò morta allora. (siede)
Aquilio. (Qui Sabina!) (in disparte)
Adriano.   (Io non posso
piú vederla penar. Cedo a quel pianto:
mi sento intenerir.) Sabina, hai vinto!
A’ tuoi lacci felici

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Sabina.   Che dici?

Adriano. Che son vinto, che cedo,
che ti rendo il mio core.
Sabina.   Ah! non lo credo.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Sabina.   Oh Dio!
[p. 225 modifica]
Adriano. No. Se non vuoi, non mi vedrá... Ma... temo...

Tu che faresti in un egual periglio,
nel caso mio?
Sabina.   Non chiederei consiglio.
Adriano. E ben, parta Emirena
senza vedermi. Aquilio
le ne rechi il comando.
Aquilio.   Ah, che dirai,
povera principessa! (facendosi artificiosamente sentire)
Adriano.   Olá! che parli?
Aquilio. Nulla, signor. Volo a ubbidirti.
Adriano. (pensa)  Aspetta.
Meglio è che ’l suo destino
sappia dalla mia voce.
L’ascoltarla un momento alfin che nuoce?
Sabina. (s’alza) Ah! ingrato, m’inganni
     nel darmi speranza:
     giurando costanza,
     mi torni a tradir.
          La fiamma novella, ecc.

SCENA IV

Adriano. Udisti, Aquilio? E si dirá che tanto

sia debole Adriano?
Aquilio.   Ognuno è reo,
se l’amore è delitto.
Adriano.   E con qual fronte
le colpe altrui correggerò, se lascio
tutto il freno alle mie! No, no: si plachi
la sdegnata Sabina;
non si vegga Emirena; al primo laccio
torni quest’alma, e, scosso
il giogo vergognoso... Oh Dio, non posso!
          La ragion, gli affetti ascolta
     dubbia l’alma; e poi, confusa,
     non vorrebbe esser disciolta,
     né restare in servitú.

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          Contro i rei se vi sdegnate,

     giusti dèi, perché non fate
     o piú forte il nostro core,
     o men aspra la virtú? (parte)

SCENA VI

Emirena.   Che fa il mio bene?

          Perché non viene?
          Veder mi vuole
          languir cosí?
               Oggi è pur lento
          nel corso il sole!
          Ogni momento
          mi sembra un dí.
Sabina. Ecco la sposa tua, ecc.

SCENA VII

Farnaspe. Ed è ver che sei mia? Ne temo, e quasi

parmi ancor di sognar.
Emirena.   Non manca, o sposo,
per esser lieti appieno,
che ritrovare il padre. Oh qual contento
nel rivedermi avria! Sapessi almeno
in qual clima s’aggiri!
Farnaspe. Saran paghi, mia vita, i tuoi desiri.
Emirena. Sai dunque Osroa dov’è?
Farnaspe.   Sí, ma per ora
non pensar che a seguire i passi miei.
Emirena. Quante gioie in un punto, amici dèi!
  (s’incamminano verso la strada disegnata da Sabina)
Farnaspe. Ferma, ecc.

[p. 227 modifica]

SCENA VIII

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Osroa.   Solea

l’abborrito romano
per quest’oscura via passare occulto
d’Emirena a’ soggiorni. Un suo seguace,
complice del segreto,
mel palesò. Fra questi eroi del Tebro, ecc.

SCENA IX

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Farnaspe   Non posso.

Adriano. Il silenzio t’accusa.
Farnaspe. Signor, non sempre è reo chi non si scusa.
Emirena. (Consigliatemi, o numi.)
Adriano. (alle guardie)  Olá! si tragga
nel carcere piú nero il delinquente.
Emirena. Fermatevi! sentite: egli è innocente. (ad Adriano)
Farnaspe. Principessa, che fai?
Adriano.   Stelle! tu ancora
qui con Farnaspe? E ’l traditor difendi?
Emirena. Ei non è traditor. Fra quelle fronde...
Farnaspe. Taci! (ad Emirena)
Emirena.   ... l’empio s’asconde,
che spinse a’ danni tuoi l’acciar rubello.
Farnaspe. (Oh Dio! non sa che’l genitore è quello.)
Adriano. Se credulo mi brami, a questo segno
di Farnaspe al periglio
non mostrarti agitata.
Come t’affanni, ingrata!
Come tremi per lui! Sei sí confusa,
che non sa il tuo pensiero
menzogna ordir, che rassomigli al vero.
Farnaspe. (Secondiamo l’error.)
Emirena. (ad Adriano)  Se a me non credi...

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Farnaspe. E che ti giova, o cara,

sol per pochi momenti
differirmi la pena? Il mio delitto
piú celar non si può. Tu mi condanni
nel volermi scusar. Con farmi reo,
non mi offendi però. Cari a tal segno
mi sono i falli miei,
che tornare innocente io non vorrei.
Adriano. Oh anima perversa!
Emirena.   Io non l’intendo.
Farnaspe. (Che bel morir, se ’l mio signor difendo!)
Emirena. Prence, sposo, ben mio, perché congiuri
tu ancor contro te stesso? Empio non sei,
e vuoi parerlo? Ah! qual follia novella...
Farnaspe. Lasciami la mia colpa: è troppo bella.
Adriano. Questo è pur quel Farnaspe,
che tu non conoscevi. Or come è mai
divenuto il tuo ben? Dove lasciasti
la freddezza primiera,
anima ingannatrice e menzognera?
Emirena. Signor...
Adriano.   Costui mi pagherá la pena
di piú colpe in un punto. Olá! (alle guardie)
Emirena.   Ma guarda
l’insidiator qual sia.
Farnaspe.   Taci una volta,
Emirena, se m’ami.
Emirena.   Io t’odierei,
se t’ubbidissi. I passi miei seguite.
Qui, qui s’asconde il traditore. (corre verso Osroa)
Farnaspe.   Oh Dio!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Osroa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

l’un per l’altro svenai.
Farnaspe.   Rimase oppresso
il traditor nel tradimento istesso.
Adriano. Troppo ingrata mercede,
barbaro, tu mi rendi, ecc.

[p. 229 modifica]

ATTO TERZO

SCENA I

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Aquilio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

ti crede seduttrice:
se ne querela e dice
che del trono offendesti
le sacre inviolabili ragioni;
che disturbi e scomponi
gli ordini suoi; che apprenderan, se resti,
tutti ad essergli infidi. E con tal arte
sa i tuoi falli ingrandir, che, a chi lo sente,
nel punirti cosí sembra clemente.
Sabina. Non può nome di colpa
un’opra meritar, se ree non sono
le cagioni, gli oggetti,
onde fu mossa, ov’è diretta. Io volli,
serbando la sua gloria, ecc.

SCENA III

Adriano. Aquilio, che ottenesti?

Aquilio. Nulla, signore. Ad ubbidirti inteso,
non trascurai ragione
per trattener Sabina. È risoluta,
e vuol partir. Per argomento adduce
che male al suo decoro
converrebbe il restar; che a te non deve
esser piú grave; e moderate a segno,
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Adriano.   No, non mi piace
questa soverchia pace. Andiamo a lei.
Aquilio. Perché? Cesare teme
d’una donna lo sdegno?
Adriano. No.
Aquilio.   La vuoi tua consorte?
Adriano. Oh Dio!

[p. 230 modifica]
Aquilio. Dunque arrestarla a noi che giova?

Adriano. Io stesso nol so dir.
Aquilio.   Deh! pensa adesso
a porre in uso il mio consiglio. Un cenno
d’Osroa sará bastante
perché t’ami Emirena. Ella ti sdegna
per non spiacere al padre; e al padre alfine
parrá gran sorte il ricomprarsi un regno
con le nozze di lei. Questo pensiero
ti piacque pur. Ne convenisti.
Adriano.   Io feci
ancor di piú. Dal carcere ordinai
ch’Osroa a me si traesse. Ei venne, e attende
qui presso il mio comando.
Aquilio.   E perché dunque
or l’opra non compisci?
Adriano.   Ah! tu non sai
qual guerra di pensieri, ecc.

SCENA IX

Sabina con séguito di matrone, cavalieri romani, ed Aquilio.

Sabina. Temerario! E tu ardisci

di parlarmi d’amor? Né ti rammenti
qual sei tu, qual io sono?
Aquilio.   Amore agguaglia
qualunque differenza. Il mio rispetto
mi fe’ tacer finora. Alfin tu parti;
e nell’ultimo istante
mi riduco a scoprir ch’io sono amante.
Sabina. Colpevole è l’affetto;
oltraggioso il parlarne. Andiamo. (al séguito)
Aquilio.   Io veggio
perché mi sdegni. Ancor ti sta nel core
il barbaro, l’ingiusto,
l’incostante Adriano.
Sabina. Olá! del tuo sovrano (tornando indietro)
parli cosí?

[p. 231 modifica]
Aquilio.   Questa favella appresi

da te, lo sai.
Sabina.   So che non siam l’istesso;
né quel che a me si soffre, è a te permesso.
          È ingrato, lo veggio;
     ma siede nel soglio:
     non deggio, non voglio
     sentirlo accusar.
          Tradí l’amor mio,
     non cura il mio affanno;
     ma sola poss’io
     chiamarlo tiranno;
     io sola di lui
     mi posso lagnar.
  (s’incammina Sabina, per discendere alle navi)
Aquilio. Men fiera un’altra volta
forse in Roma sarai.

SCENA X [IX]

Adriano con numeroso séguito, e detti.

Adriano.   Sabina, ascolta.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Sabina. Perfido! ti confondi? Intendo, intendo

le trame tue. Sappi, Adriano...
Aquilio.   Io stesso
scoprirò l’error mio. Sabina adoro.
Temei che alfin vincesse
la sua virtú. Perciò da te lontana...
Adriano. Non piú. Tutto compresi. Anima rea!
questa mercé mi rendi
de’ benefizi miei? Questa è la fede
che devi al tuo signor? Tu mio rivale?
Nemico alla mia gloria... Olá! costui
sia custodito. (alle guardie)
Aquilio.   Avversa sorte! (Aquilio è disarmato)
Adriano.   E meco
rimanga la mia sposa.
Sabina.   Io sposa! E quando?

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Adriano. Fra poco. Non domando

che tempo a respirar. Gli affetti miei
lasciami ricomporre, e poi vedrai...
Sabina. Vedrò che questo dí non giunge mai.
Adriano. Giungerá, giungerá. Sento, o Sabina,
che risano a gran passi, ecc.

SCENA XI [ultima]

Emirena, Farnaspe e detti.

Emirena. Ah, Cesare, pietá!

Farnaspe.   Pietá, signore!
Adriano. Di chi?
Emirena.   Del padre mio.
Farnaspe. Dell’oppresso mio re.
Adriano.   Roma, il senato
deciderá di lui. M’offese a segno,
che non voglio salvarlo;
né mi fido al mio sdegno in giudicarlo.
Emirena. Ma intanto lo punisci. È maggior pena
questa ad Osroa d’ogni altra.
Adriano.   Omai non voglio
piú sentirne parlar.
Farnaspe.   Dunque non curi
d’Emirena che piange?
ch’è tua sposa, se vuoi?
Adriano.   Sposa?
Farnaspe.   Non chiede
che ’l padre. E quella mano,
che può farti felice,
t’offre in mercede.
Adriano.   Ella però nol dice.
  (a Farnaspe, dopo aver guardato Emirena)
Sabina. (Aimè!)
Farnaspe.   Parla, Emirena.
Emirena.   Assai, Farnaspe,
hai parlato per me.
Adriano.   Con quanta forza

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all’offerta consente! Eh! ch’io conosco

tutto quel cor. No, no. L’odio paterno,
il suo laccio primiero è troppo forte.
Mi sarebbe nemica, ancor consorte.
Emirena. No, Cesare, t’inganni. Il dover mio
fará strada all’amor. Rivoca il cenno,
perdona al genitor. Per quel sereno
raggio del ciel, che nel tuo volto adoro,
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
ch’io bacio e stringo e del mio pianto inondo.
Adriano. Sorgi. Ah! non pianger piú. (Chi vide mai
lagrime cosí belle? È donna o dea?
Quando m’innamorò, cosí piangea.)
Sabina. (Che spero piú?)
Farnaspe.   Risolvi, Augusto.
Adriano.   (Almeno
fosse altrove Sabina!)
Sabina. (Il mio scorno è sicuro.)
Adriano. (I rimproveri suoi giá mi figuro.)
Sabina. (Ah, coraggio una volta!) Augusto, io veggo...
Adriano. Ma che vedi, Sabina? Io non parlai:
io non risolsi ancor. Giá ti quereli,
giá reo mi vuoi. Qual legge mai, qual dritto
permette di punir pria del delitto?
Sabina. Non adirarti ancor; sentimi, e credi
che non arte d’amore,
non mascherato sdegno
in me ti parlerá. Puro nel volto
tutto il cor mi vedrai.
Adriano.   Parla: t’ascolto,
Sabina. Io veggo, Augusto, e ’l vede
pur troppo ognun, che t’affatichi invano
per renderti a te stesso; ed io, che, invece
di sdegnarmi con te per tanti oltraggi,
sento che piú m’accendo,
da quel che provo a compatirti apprendo.
Troppo, troppo fatali
son le nostre ferite. Uno di noi
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
ed io stessa sarò la tua difesa.

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Adriano. Che dici?

Sabina.   A me piú non pensar. Saranno
brevi le pene mie. Morrei contenta,
se i giorni, che ’l dolore (piange)
usurpa a me, ti raddoppiasse amore.
Adriano. Anima generosa,
degna di mille imperi! Anima grande!
Qual sovrumano è questo
eccesso di virtú? Tutti volete
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
E do leggi alla terra? Ah! no. Vi sento
ribollir per le vene,
spirti di gloria e di virtú. Mi desto
dal letargo funesto, ond’era avvolto:
son disciolto, son mio. Perdono, o cara,
o illustre mia liberatrice. Osserva
quale incendio d’onore
m’hai svegliato nell’alma. In questo giorno
tutti voglio felici. Ad Osroa io dono
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
e a te, degno di te, rendo me stesso. (a Sabina)
Sabina. Oh gioie!
Emirena.   Oh tenerezze!
Farnaspe. Oh contento improvviso!
Sabina. Ecco il vero Adriano. Or lo ravviso.
Farnaspe. Deh! Cesare, permetti
ch’Osroa a te venga.
Adriano.   Ah! no. Rincrescerebbe
a quell’alma sdegnosa
l’aspetto mio. Con quelle navi istesse,
dov’ora è prigionier, vada sovrano
dove gli piace. E, se mi vuole amico,
dite che Augusto il brama, e non lo chiede.
Sia dono l’amicizia, e non mercede.
Farnaspe. Oh magnanimo cor!
Adriano. (ad Emirena)  Tu, principessa,
quanto da me dipende,
chiedimi, e l’otterrai. Lasciami solo
la pace del mio cor, ecc.

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LICENZA

Cesare, non turbarti; a te non osa

somigliarsi Adrian. Quando al tuo sguardo
le sue vicende espone,
fa spettacol di sé, non paragone.
Troppo minor del vero
l’immagine sarebbe, e troppo chiare,
signor, fra voi le differenze sono.
A lui die’ luce il trono,
la riceve da te. Fu grande e giusto
ei talvolta, e tu sempre. I propri affetti
ei debellò, tu gli previeni. E scelse
tardi le vie d’onor, tu le scegliesti
de’ giorni tuoi fin su la prima aurora.
Lui la terra ammirò, te il mondo adora.
          Non giunge degli affetti
     la turba contumace
     a violar la pace
     del tuo tranquillo cor.
          Cosí del re de’ numi
     fremon, ma sotto al trono,
     e ’l turbine ed il tuono,
     e le tempeste e i fiumi
     nelle lor fonti ancor.