Al fronte/Una maestosa battaglia di fortezze

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Una maestosa battaglia di fortezze

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Tra le balze dell'Adige Fra i torrioni delle Dolomiti

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UNA MAESTOSA BATTAGLIA DI FORTEZZE.

Vicenza, 29 agosto.

Delle piccole nubi leggere e rosate incoronano la vetta oscura di una bella montagna regolare, tutta ammantata di una folta pelliccia di vegetazioni, e le cui falde si allargano dolcemente, punteggiate di case così bianche che sembrano luminose nella mattinata serena.

Un gruppo di ufficiali d’uno Stato Maggiore, da una balza erbosa che pare una terrazza verde sulla vallata, punta i binocoli verso la vetta che traspare eh tanto in tanto, impallidita fra i cirri. Le nubi si diradano, si sfanno, si riformano, si spostano, e nelle loro lacerature nereggia a momenti, un po’ velata, in un ovattato contorno di vapori, la sommità boscosa che attira gli sguardi. Il calore del sole, il tepore che sale dalla valle lungo le pendici, nella quiete profonda dell’aria, spazza a poco a poco le nubi, e in un lento dissolversi filaccioso di nebbie la cresta della montagna appare intera, sempre più nitida.

Essa è coronata di puntini oscuri, che si prenderebbero per minuscole escrescenze [p. 140 modifica] sassose sul profilo della vetta, se non si muovessero, con quella lentezza da insetti che hanno gli uomini nelle lontananze. Sono nostri soldati arrivati lassù l’altro ieri, con un assalto salito prodigiosamente a quasi duemila metri. La montagna è il Salubio.

La vallata è quella del Brenta, la Valsugana, che risalito il vecchio confine si allarga serpeggiando in ampie volute da oriente ad occidente verso Trento. La Valsugana e la valle dell’Adige si congiungono a Trento, e costituiscono le due massime arterie di transito fra le pianure italiane e la nostra grande città prigioniera. Fra queste due vallate capaci, nel cui fondo strade e ferrovie s’intrecciano sulle sponde dei fiumi, si ergono massicci alpini, solcati da vallette minori e da gole che formano un labirinto di passi, i quali tendono a innervarsi ai fulcri di Rovereto e di Trento.


L’Austria, preparando la nostra aggressione, aveva apprestato tutto per svolgere una delle azioni offensive più vigorose sulla Valsugana, e allo scopo di proteggere il fianco di questo movimento d’invasione e salvaguardare le sue retrovie, aveva sbarrato quei passi minori, tutti i piccoli sbocchi secondari tra la Valsugana e la vallata dell’Adige, con un sistema di fortezze modernissime. Sono queste le fortezze di cui sovente abbiamo letto i nomi sui bollettini del Comando Supremo a proposito di intense [p. 141 modifica] azioni di grosse artiglierie sull’altipiano di Asiago e sul monte Lavarone. Sono i forti di Luserna, di Belvedere, di Spitz Verle, di Busa Verle, che guardano principalmente la valle dell’Astico, la più facile delle vie secondarie fra l’Adige e il Brenta.

Subito, al primo inizio della guerra, incominciò il duello gigantesco dei forti. Varcata la frontiera occupammo di sorpresa il monte Lavarone, sovrastante dal nord l’angusta valle dell’Astico, e lo guernimmo di grossi cannoni. Il 28 maggio il bombardamento era già così intenso, tanto dalle nuove batterie del Lavarone quanto dai nostri forti permanenti annidati più a oriente fra le vette dell’altipiano di Asiago, che il vigore delta difesa austriaca dalle fortezze corazzate declinava su certi punti. I nostri tiri bene aggiustati tempestavano specialmente il forte Luserna, il più vicino, che, sconvolto dalle esplosioni delle grosse granate, alla mattina del 29 non rispondeva già più. Le sue cupole d’acciaio erano demolite, tutto pareva in rovina.

Verso mezzogiorno si vide sorgere una bandiera bianca sul forte austriaco sbrecciato e silenzioso. Un evviva echeggiò sulle vette italiane a questo segno di resa. Ma subito dopo il forte scomparve in un fumo di esplosioni. Era il forte austriaco di Belvedere, più lontano, che apriva il fuoco sul Luserna per punirlo d’avere issato bandiera bianca. Il 3 [p. 142 modifica] giugno anche il forte di Spitz Verle, più indietro, fra le alle rocce che dominano la Val d’Assa, era ridotto al silenzio, e quelli di Belvedere e di Busa Verle apparivano danneggiati. La nostra offensiva spezzava le prime barriere.

Il bombardamento continua. A lunghi intervalli il suo cupo rimbombo passa come un profondo e lontano boato di temporale sulla Valsugana, alla quale l’azione delle nostre grosse artiglierie tende dal sud. Le truppe che operano nella valle odono avanti a loro questa gran voce che rugge. E avanti a loro, infatti, la difesa austriaca che le fronteggia ha sul suo fianco destro la maestosa e lenta battaglia di fortezze.

È una battaglia che ha una mobilità solenne. Viste le opere in pericolo, gli austriaci spostano le batterie. Hanno costruito appostamenti nuovi, hanno creato vie di arrocco per trasportare i pezzi da una posizione all’altra, e alla notte, nel silenzio profondo della montagna, si ode talvolta un rombare metallico e lontano di ruote sui binari: sono batterie nemiche che viaggiano. Scoperte e battute, esse tacciono, e nell’oscurità se ne vanno. È come se le fortezze viaggiassero.

L’eco dei colpi arriva dunque nella vallata sulla quale si è riformato il silenzio dopo l’ultimo combattimento. Sulla cima del Salubio conquistata i nostri soldati si profilano, e più in basso, fra le piante, si annida il gregge [p. 143 modifica] bianco e sparpagliato delle tende. Qualche nuvoletta di shrapnells si forma, uno scoppio risuona, gli ometti lassù rimangono immobili. Un paio di cannoni da montagna austriaci abbaia cautamente contro le nostre nuove posizioni, ma nessuno ci bada.


L’assalto nostro è arrivato sul Salubio di sorpresa. L’ascensione e durata un giorno intero. Dopo un abile movimento aggirante, compiuto di notte, l’alba del 24 ha trovato le truppe destinate all’attacco tutte nascoste nelle foltissime boscaglie che coprono le falde fin quasi alla vetta. Su tutto il Salubio non c’è che un triangolo di prato, il cui velluto verde si stende sulla spalla oscura della montagna, disseminato di baite deserte. Lentamente, lentamente, strisciando, ascoltando, inerpicandosi con cautela da rovo a rovo, da tronco a tronco, le truppe, in silenzio perfetto, precedute da punte di esplorazione, salivano nell’ombra più cupa, evitando le radure, lontano da ogni sentiero. Alle cinque della sera si avvicinavano al limite alto del bosco. Qui furono fatte fermare, per dar loro un po’ di riposo. Gli austriaci erano trincerati a cento metri da loro.

Mezz’ora dopo si potevano scorgere dal basso, attraverso i binocoli, le prime pattuglie che uscivano dal folto, fra gli ultimi rovi. Parevano immobili, tanto il loro avanzare era lento, guardingo, felino. Gli austriaci non [p. 144 modifica] erano più che a cinquanta metri dalla fila avanzata dell’attacco. Dietro ad ogni cespuglio si aggruppavano minuscoli grappoli d’uomini accoccolati. Ogni movimento pareva sospeso. Non un colpo di fucile, non una voce. I minuti sembravano eterni.

Improvvisamente, uno strepito di fucilate, uno scoppio sonoro di cannonate, nembi di fumo sulle trincee, poi un formicolìo confuso verso la vetta, un gran grido, lungo, vasto l’urlo poderoso dell’assalto, simile ad un lamento di bufera, e sul profilo della cresta si è formato un granulamento ondeggiante e vago. La montagna era presa.

La difendeva una compagnia munita di mitragliatrici. Pareva inconquistabile. Ma la sorpresa ha sgomentato il nemico. È stato sopraffatto dal panico alla vista degli assalitori così vicini, contro i quali ha sparato con tanta concitazione da non causare che perdite infime. Alcuni colpi di cannoni da montagna, appostati vicino, lo hanno deciso definitivamente alla fuga.

La compagnia austriaca ha lasciato indietro cinque uomini con l’incarico, piuttosto sproporzionato, di trattenere gl’italiani in caso d’inseguimento. I cinque uomini si sono naturalmente arresi. Più tardi — era quasi notte — gli austriaci, non udendo più niente, hanno distaccato altri sei soldati per andare a vedere che cosa era successo dei cinque. E lo hanno [p. 145 modifica] visto bene poichè sono stati fatti prigionieri anche loro.

La conquista del Salubio ha inutilizzato le difese più basse nella valle, create sull’altura di Telve, che è come uno sperone del Salubio avanzato verso il corso del Brenta a sovrastare la cittadina di Borgo. Quest’altura, fulva, nuda, regolare, appare tutta rigata da trinceramenti formidabili in cemento armato. La sua fortificazione deve essere costata milioni. L’allineamento oscuro delle feritoie, nell’ombra della blindatura, si tratteggia su tutto il declivio, fino al paesello di Telve, che sorge ai piedi del colle, e le cui casette bianche si sovrastano, come per contemplare la valle, l’una al di sopra del tetto dell’altra. La rovina turrita di un castello allarga sulla vetta della collina la cinta delle sue muraglie diroccate. L’altura è stata abbandonata senza lotta.


Attraverso la vallata ubertosa, seguendone la dolce curva, Borgo, l’ultima città conquistata, si distende; e da lontano essa appare come un chiaro festone di case che si attacchi alle prime pendici del Salubio, da una parte, e a quella del monte Armentera dall’altra. L’Armentera è pure nostro. Mentre avanzavamo alla destra sul Salubio, avanzavamo alla sinistra dal monte Civaron, preso nel giugno e dal quale gli austriaci hanno tentato inutilmente di scacciarci. [p. 146 modifica]

Nessun combattimento nella valle. La lotta è avvenuta sui fianchi, da dosso a dosso, da cima a cima. Il Civaron, alto, strano, sottile come un pan di zucchero, coperto di boschi, dominava già Borgo, ma è l’Armentera, più avanzato, che scende a balze dirupate, tutte solcate da lavori di trinceramento austriaci, che ce ne dà il possesso incontrastato.

Fra queste alture imponenti, la Valsugana si apre e forma una conca meravigliosa, ricca, verde, disseminata di villaggi pittoreschi, di ville, di castelli. Da ogni parte d’Europa l’estate portava qui una popolazione di gente in vacanza, attirata dalla bellezza dei luoghi e dalla efficacia curativa delle acque. Oltre Borgo si scorge Roncegno, con i grandi caseggiati dei suoi famosi stabilimenti termali immersi nelle nuvolose masse oscure di un parco. Più lontano è Levico, più in alto è Vetriolo.

Nelle stazioni ferroviarie di tutti i paesi si leggono ancora questi nomi sopra affiches multicolori, rimaste ad invitare la gente come se niente fosse successo. Le locande vicine alla vecchia frontiera sono piene di queste réclames allettevoli che vi incitano a passare un mese di villeggiatura al Ferdinandshöhe sullo Stelvio, o al Grand Hôtel del Tonale a Ponte di Legno, o all’Hôtel di Falzarego, in località bombardate, in alberghi dei quali non esistono più che le rovine. [p. 147 modifica]

La incantevole conca di Borgo è deserta. I paesi sono abbandonati. Nulla si muove sulla via bianca. La polvere s’accumula sulle soglie delle case, insieme a detriti di carta e di paglia portati dal vento. Tutti i ponti sono saltati. Non uno ne hanno lasciato intatto gli austriaci. A Grigno, non lontano dalla frontiera, e più oltre, presso Borgo, hanno interrotto i passaggi a colpi di mina. L’acqua del torrente Maso gorgoglia fra i rottami contorti dei ponti di ferro della ferrovia — i cui binari sono rimasti per un tratto stranamente sospesi — della strada rotabile principale e della strada di Scurelle; tre ponti vicini, le cui campate, crollate allo stesso modo, spezzate agli stessi punti, hanno una non so quale bizzarra analogia di gesti.

Poco lontano, il campanile di Borgo, dal pinnacolo singolare come una punta di pagoda, si leva giallo e scintillante al sole sopra un fresco stormire di pioppi. Le persiane chiuse danno alle case del paese silenzioso un’apparenza di paura, come se esse avessero serrato gli occhi per non vedere. Su queste case spaventate e sole, di tanto in tanto arriva una granata: un ronzìo profondo e lamentoso, uno scoppio, una nube di fumo e di polverone, ed un edificio ferito versa sulla strada qualche frammento bianco.

La stazione, ad un limite del paese, appare danneggiata dai colpi. Ma furono colpi [p. 148 modifica] nostri. Circa tre settimane fa, come annunziò il bollettino ufficiale, si scorse dal Civaron un intenso movimento di truppe e di carreggi alla stazione di Borgo e delle artiglierie pesanti la bombardarono. Il movimento, si dissipò come per incanto. Una grande attenzione fu posta nei tiri per non danneggiare l’abitato, benchè allora la città fosse già abbandonata.

Per quasi due mesi Borgo è stato zona neutra. Vi arrivavano pattuglie nostre e pattuglie austriache. La situazione non era amena per gli abitanti; tanto più che quando le pattuglie nemiche sceglievano la stessa ora erano scariche di fucilate per le strade. Gli austriaci accusavano la popolazione di favorire gl’italiani. Avvertiti da quello spionaggio che è una delle loro più perfette istituzioni, essi scendevano ad arrestare la gente sospetta di italianità. Portarono via così anche una signorina, colpevole di aver stretto la mano a un caporale nostro. Alla fine ordinarono lo sgombro definitivo della città, e la poca gente che era rimasta partì. Ma partì dalla parte nostra, protetta da uno squadrone di cavalleria.

Ora, da due giorni, gli austriaci tirano cannonate sulle case, ma senza continuità e senza convinzione. Credono di impedire forse qualche concentramento di truppe a Borgo. Sparano da lontano e da vicino; sono piccole granate di cannoni da montagna, che arrivano [p. 149 modifica] chi sa da dove, o sono le grosse artiglierie del monte Panarotta che intervengono, specialmente nelle ore pomeridiane, quando il Panarotta è in ombra e vede la valle in luce.

Il Panarotta costituisce adesso la barriera austriaca nella Valsugana, come il Biaeno è la barriera che fronteggiamo nella valle dell’Adige. Si sporge ad una svolta della vallata, dietro a Roncegno, e pare la blocchi con la sua mole superba, azzurrastra nella luce del mattino. La conca di Borgo ha il Panarotta come ultimo scenario di fondo.

Sulla vetta la montagna ostile ha dei forti corazzati muniti di cupole d’acciaio. Pare che all’inizio della guerra questi forti non fossero ancora armati. In ogni caso si armarono presto, e alla metà di giugno cominciarono a far sentire la loro voce. Più in giù, lungo gli oscuri declivi boscosi, batterie mobili si appostano sui pianori, e trincee, e reticolati che si stendono a fasce, segnalati come da un affollamento nebbioso e minuscolo di miriadi di pali.

La difesa austriaca sembra si vada concentrando in quell’immane fortilizio. La nostra avanzata sul Salubio e sull’Armentera ha provocato un balzo indietro del nemico. Sopra Roncegno c’è una piccola chiesa, antica e solitaria, sul cui campanile ha sventolato fino a due giorni fa una grande bandiera austriaca. La bandiera è scomparsa. Nessun essere [p. 150 modifica] vivente si muove intorno alla chiesuola lontana. Per tutto è quiete, silenzio, immobilità. Non uno spolverìo di marcia o di convogli in movimento sulle strade più remote. Gli austriaci si sono ritirati dopo l’ultimo combattimento, lasciando qualche piccolo reparto sulle colline, a ponente di Borgo, da dove cannoneggia. E ritirandosi hanno fatto saltare altri ponti. Fino a Roncegno si sono viste brillare le mine. Questa fretta d’interrompere la viabilità denota uno stato singolare di allarme.

Dalla Valsugana, nelle vicinanze di Borgo, si diparte a Strigno una strada nuova, arditissima, che valica passi difficili, s’inerpica con mille giravolte sulle falde di montagne dirupate, e va da valle a valle, parallelamente alla frontiera, fino a Fiera di Primiero a congiungersi con la grande strada della valle di Cismon. È una strada militare magnifica che l’Austria ha costruito con uno sforzo gigantesco, quale soltanto una volontà definitiva poteva determinare, e il cui valore spaventa. Percorrendola noi abbiamo la misura del pericolo immenso che ci minacciava.

Questa grande e comoda via, che rendeva praticabile ai movimenti delle forze austriache la parte più aspra, impervia e selvaggia di quella zona di frontiera, ha ramificazioni verso la parte nostra, ha derivazioni che salgono a delle vette. Salgono tortuosamente a vette dalle quali i nostri forti si dominano, e [p. 151 modifica] su molte di quelle posizioni le piazzole per le grosse artiglierie erano già pronte.


Non tutte quelle strade sono finite; alcune erano ancora in lavorazione, altre erano appena tracciate, quando la guerra è scoppiata. Nessuna carta le segnala. Esse compongono tutto un sistema che rivela il piano austriaco di aprirsi il passo su Feltre sfondando le nostre barriere della Valsugana.

E mentre si apprestavano le strade per le grosse batterie da assedio, piccoli paesi della montagna, di quattro o cinquecento abitanti, vedevano fra le loro mura sorgere enormi panifici elettrici, d’una modernità insuperabile, capaci di fornire da dieci a ventimila razioni di pane ognuno. Ve n’è a Pieve di Tesino, ve n’è a Canal San Bovo, ve n’è a Fiera di Primiero, cioè ad ogni nodo di strade, ad ogni sbocco di valle. Quali masse erano destinati a nutrire? Ora essi fanno il pane per le nostre truppe.

L’Austria preparava l’invasione meticolosamente, metodicamente, con quella cura del dettaglio di chi può prendersi tutto il tempo necessario per studiare e per operare, eliminando ogni rischio, organizzando il colpo sicuro, contando di poter scegliere il suo momento. Fortunatamente non lo ha scelto lei.

La grande strada militare porta attraverso paesaggi melanconici e grandiosi dell’alta [p. 152 modifica] montagna, fin dove l’abete intristisce nei crepacci e fra minuscoli cespugli cinerei fiorisce l’edelweiss, il fiore del freddo, il fiore in pelliccia bianca. I nostri soldati ne fanno raccolta, e la posta porta innumerevoli fiori delle Alpi alle case italiane. Nella foschia, nella penombra nebbiosa delle vette, quasi sempre sfiorate dalle nubi, s’intravvedono baraccamenti che sorgono, e il martellare lieto del lavoro, accompagnato da canti d’ogni regione, echeggia nell’aria fredda.

Si ridiscende al tepore della ridente valle di Cismon, dove tutto ò quieto. Guerriglia di pattuglie sulle montagne, al nord, ai piedi delle prodigiose muraglie dolomitiche della Pala di San Martino, immani, grige, inverosimili. I nostri soldati si spingono in esplorazione fino ai passi che il nemico guarda. È la lotta di agguati e di sorprese che abbiamo conosciuto sulla Valfurva e nella valle Daona.

Il combattimento più importante avvenne al ritorno di una esplorazione. Trenta alpini erano aspettati da cinquanta nemici appiattati nel folto di un bosco di abeti. Era la sera. I nostri, vicini ormai all’accampamento, marciavano incolonnati in un sentiero. Il nemico fece fuoco a cinquanta metri. La prima scarica fu micidiale. Gli ufficiali nostri caddero. Ma i soldati non si persero d’animo: manovrarono, si distesero in ordine di combattimento, e, appostati dietro gli alberi e tra i macigni d’un [p. 153 modifica] torrente, per tutta la notte sostennero il fuoco dell’avversario superiore, mirando alle vampe dei colpi.

All’alba, udendo arrivare dei rinforzi italiani, i nemici fuggirono lasciando vari morti e alcuni prigionieri. Quando si potè osservare la loro uniforme, si vide che non erano austriaci.