Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/72

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Anno 72

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Anno di Cristo LXXII. Indizione XV.
Clemente papa 6.
Vespasiano imperadore 4.


Consoli


Vespasiano Augusto per la quarta volta e Tito Flavio Cesare per la seconda.


Dappoichè Muciano venuto a Roma cominciò a godere de’ primi onori, il governo della Siria fu dato da Vespasiano a Cesennio Peto. Scriss’egli a Roma, che Antioco re della Comagene, il più ricco dei re sudditi di Roma, con Epifane suo figliuolo teneva dei trattati secreti con Vologeso re dei Parti, disegnando di rivoltarsi. Dubita Giuseppe Ebreo1, se Antioco fosse di ciò innocente, o reo, ed inclina piuttosto al primo. Peto gli volea poco bene; e potè ordir questa trama. Vespasiano, a cui troppo era difficile il chiarire la verità, nè volea trascurar l’affare, essendo di somma importanza quella provincia per le frontiere della Soria e dell’imperio romano: mandò ordine a Peto di far ciò ch’egli credesse più convenevole, e giusto in tal congiuntura. Pertanto unitosi quel governatore con Aristobolo re di Calcide, e con Soemo re di Emessa, entrò coll’esercito nella Comagene. A questa inaspettata mossa Antioco si ritirò con tutta la sua famiglia, e senza voler far fronte all’armi romane, lasciò che Peto entrasse in Samosata capitale dei suoi Stati. Epifane e Callinico suoi figliuoli, prese le armi, fecero qualche resistenza; ma tardarono poco i lor soldati a rendersi ai Romani. Si rifuggirono essi alla corte di Vologeso, re dei Parti, che gli accolse, non già come esiliati, ma come principi. Antioco lor padre fuggì nella Cilicia. Peto inviò gente, a cercarlo, ed essendo stato colto a Tarsi, fu caricato di catene, per essere condotto a Roma. Nol permise Vespasiano, e spedì ordini che fosse rimesso in libertà, e che potesse abitare a Sparta, dove gli facea somministrar tutto l’occorrente, [p. 298]acciocchè vivesse da par suo. Per intercessione poi di Vologeso, ai di lui figliuoli fu permesso di venire a Roma. Vi venne anche Antioco, e tutti riceverono trattamento onorevole, senza più riaver quegli Stati. Siamo assicurati da Svetonio2 che la Comagene, siccome ancora la Tracia, la Cilicia e la Giudea furono ridotte in provincie sotto Vespasiano, cioè immediatamente governate dagli uffiziali romani. Ma non tutto ciò avvenne sotto il presente anno. Fece in questi tempi Vologeso re de’ Parti istanza d’aiuti ai Vespasiano, perchè gli Alani, feroce popolo della Tartaria, entrati nella Media, obbligarono a fuggirne Pacoro re di quel paese, e Tiridate re dell’Armenia, minacciando anche il dominio di Vologeso. Non si volle mischiar Vespasiano negli affari di que’ Barbari; e forse di qua venne qualche alterazion di animo fra di loro. Sappiamo da Dione3, aver quel superbo re scritta una lettera con questo titolo: Arsace re dei re a Vespasiano, senza riconoscerlo per imperador de’ Romani. Vespasiano, lungi dal farne rimprovero o doglianza alcuna, gli rispose nel medesimo tenore: Ad Arsace re dei re, Vespasiano. Credesi4 che in questi tempi avvenisse qualche guerra nella Bretagna, dov’era andato per governatore Petilio Cereale, con far quivi l’armi romane nuove conquiste.

Seguitava intanto Vespasiano a far dei saggi regolamenti5 per levare gli abusi, e rimettere il buon ordine in Roma. Osservate alcune persone indegne ne’ due nobili ordini senatorio ed equestre, le levò via; e perchè era scemato di molto il numero dei medesimi senatori e cavalieri, per la crudeltà de’ regnanti precedenti, aggregò a quegli ordini le famiglie e persone più riguardevoli e degne, non tanto di Roma, quanto dell’Italia e dell’altre provincie. Trovò che le liti civili [p. 299 modifica] erano cresciute a dismisura, andavano in lungo e si eternavano anche talvolta: male non forestiere anche in altri tempi e in altri luoghi. Cercò di rimediarvi con eleggere varii giudici, che le sbrigassero senz’attendere le formalità e lunghezze ordinarie del foro. Per mettere freno alla libidine delle donne libere che sposavano gli schiavi, rinnovò il decreto che anch’esse, perduta la libertà, divenissero schiave. Per frastornar coloro che prestavano danaro ad usura ai figliuoli di famiglia, vietò il poterlo esigere dopo la morte dei padri. Ma nulla più contribuì alla correzion de’ costumi e a far cessare il soverchio lusso de’ Romani, che l’esempio dell’imperadore stesso. Parca era la mensa sua; semplice e non mai pomposo il suo vestire; sicura dal di lui potere l’altrui onestà. Il disapprovar egli colle parole e coi fatti gli eccessi introdotti, più che le leggi e i gastighi, ebbe forza d’introdurre la riforma dei costumi nella nobiltà, e in chiunque desiderava d’acquistare o conservar la grazia di lui. Aveva6 egli conceduta una carica ad un giovane. Andò costui per ringraziarlo tutto profumato. Questo bastò perchè Vespasiano, guatandolo con disprezzo, gli dicesse: Avrei avuto più caro che tu puzzassi d’aglio; e gli levò la patente. Oltre a ciò, per guarire l’altrui vanità e superbia col proprio esempio, parlava egli stesso della bassezza della prima sua fortuna, e si rise di chi avea compilata una genealogia piena di adulazione, per mostrare7 ch’egli discendeva dai primi fondatori della città di Rieti sua patria, e da Ercole. Anzi talora nella state andava a passar qualche giorno nella villa, dov’egli era nato, fuori di Rieti, senza voler mai che a quel luogo si facesse mutazione alcuna, per ben ricordarsi di quello ch’egli fu una volta. E in memoria di Tertulla sua avola paterna, che l’avea allevato, nei dì solenni [p. 300]e festivi solea bere in una tazza d’argento da lei usata.

  1. Joseph., de Bello Judaico, lib. 7.
  2. Suet., in Vespasiano, c. 8.
  3. Dio., lib. 66.
  4. Tacitus, in Vita Agricolae, c. 17.
  5. Sueton., in Vespasiano, cap. 9.
  6. Sueton., in Vespasiano, cap. 8.
  7. Idem, cap. 12.