Apriti Standard!/Capitolo terzo

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Gli standard in ambito informatico e il concetto di standard aperto

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Gli standard in ambito informatico e il concetto di standard aperto
Capitolo secondo Capitolo quarto

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Capitolo terzo
Gli standard in ambito informatico e il concetto di standard aperto


1. Gli standard nel settore ICT: fra standard de facto ed effetti di rete

Come già si è accennato nel primo capitolo, nel settore ICT il tema dell’interoperabilità e della ricerca di standard condivisi fa sentire inesorabilmente il suo peso; e a maggior ragione in tempi come quelli attuali di crescente convergenza tecnologica.

Come ci fa notare efficacemente Massimiliano Granieri, «la proliferazione di diritti e la molteplicità dei soggetti coinvolti nella definizione di specifiche di un determinato prodotto è tanto maggiore all’interno dell’industria dell’informazione e delle comunicazioni, caratterizzata dalla presenza di beni complessi e di beni sistema, rispetto ai quali l’interoperabilità è condizione di esistenza del mercato.» 1

Se poi colleghiamo questo dato con quanto accennato in merito alla forte presenza di effetti di rete, ci rendiamo conto di quanto il settore ICT si presti più di altri all’affermazione di standard de facto e di dinamiche di mercato [p. 54 modifica]non sempre virtuose, in cui non vince il migliore ma solo il più forte e determinato. 2

Come abbiamo già accennato nel capitolo precedente, ci sono stati alcuni casi storici di standard de facto, cioè di modelli di riferimento che hanno saputo imporsi e stabilizzarsi grazie a scaltre strategie di mercato e non grazie ad un reale esame delle loro caratteristiche: empiricamente non sempre questi casi hanno visto prevalere lo standard più affidabile e innovativo.

Il caso più emblematico che viene spesso riportato è proprio inerente al mondo delle tecnologie (nello specifico, nel settore dei supporti per la videoregistrazione) ed è quello che ha visto l’affermazione del VHS proposto nel 1976 dalla JVC a scapito del suo concorrente diretto: il Betamax proposto nel 1975 dalla Sony. La ricostruzione di questa vicenda ci aiuta a capire le dinamiche di mercato che stanno dietro questi processi; la riportiamo nella versione che si trova su Wikipedia alla voce “VHS”:

«A differenza di Sony, JVC cercò altri alleati, sia tra i produttori, sia tra le case cinematografiche, e questo contribuì a mantenere i prezzi dei prodotti VHS più bassi rispetto al concorrente. Dato che a quei tempi i negozi di videonoleggio noleggiavano anche i lettori, questi si orientarono verso lo standard di JVC che consentiva di acquistare interi stock di prodotti a un prezzo ridotto, aumentandone i margini di profitto, e questo ha innescato una spirale: i negozianti acquistavano i lettori VHS, di conseguenza richiedevano film in VHS e le case cinematografiche “sfornavano” film in VHS. Chi doveva comprarsi un videoregistratore era quindi spinto all’acquisto della seconda tecnologia, che, seppur inferiore, garantiva una maggiore compatibilità con i prodotti in commercio.» 3

Questi meccanismi di affermazione strategica di uno standard de facto sul mercato vengono studiate dalla teoria economica proprio nell’ambito delle cosiddette economie di rete su cui abbiamo già avuto modo di argomentare. [p. 55 modifica]

2. Gli standard aperti

Sulla base di queste riflessioni negli ultimi anni in seno al mondo dell’informatica (aziende produttrici, comunità degli utenti, teorici e osservatori) si è aperto un fervente dibattito sull’esigenza di dotarsi di standard che garantissero di per sé la massima trasparenza nel processo di adozione e che consentissero un libero accesso alla relativa documentazione, così da poter massimizzare l’obbiettivo dell’interoperabilità. Si viene così a delineare il concetto di standard aperto.

Per descrivere il fenomeno faremo riferimento ad alcune definizioni fornite da autorevoli fonti.

2.1. La definizione di Bruce Perens

Uno dei teorici più conosciuti a fornire una definizione chiara ed esauriente è stato Bruce Perens, informatico fra i massimi esponenti della comunità FLOSS e autore di diversi saggi divulgativi in materia.

Perens, all’apposita pagina del suo sito personale 4, fissa sei requisiti fondamentali per l’individuazione di uno standard aperto:

  • disponibilità (availability);
  • massimizzazione della possibilità di scelta dell’utente finale (maximize end-user choice);
  • nessuna royalty da versare per l’implementazione dello standard (no royalty);
  • nessuna discriminazione verso gli operatori impegnati ad implementare lo standard (no discrimnation);
  • estensibilità o scomponibilità in sottoinsiemi (extension or subset);
  • assenza di pratiche predatorie (predatory practices).

Questa definizione è ripresa in varie altre fonti, fra cui una ricerca condotta nel 2007 dall’UNDP (United Nations Development Programme), dedicata al tema dell’interoperabilità in fatto di e-government ed intitolata “New Guidelines on e-Government Interoperability Developed by Governments for Governments”. In uno dei documenti frutto della ricerca viene tuttavia segnalato come non ci sia un consenso unanime su tutti i requisiti proposti da Perens, ritenuti da alcuni un po’ troppo rigidi. Ci si riferisce più che altro al requisito del “no royalty” e alla considerazione per cui risulti eccessivo imporre un modello completamente royalty-free (cioè privo di diritti di sfruttamento economico), dato che - secondo alcuni - un modello in cui vengano imposte royalty, benché a condizioni ragionevoli e non discriminatorie, possa essere un incentivo maggiore allo sviluppo e al mantenimento di uno standard. [p. 56 modifica]

2.2. La definizione fornita dall’ITU-T

È questa ad esempio la posizione dell’ITU-T che propone una diversa descrizione del concetto di Open Standard, dapprima fornendo una definizione di tipo enciclopedico e poi fissando una serie di requisiti.

La definizione che si trova sul sito dell’ITU all’apposita pagina dedicata agli standard aperti è la seguente:

«Open Standards are standards made available to the general public and are developed (or approved) and maintained via a collaborative and consensus driven process. Open Standards facilitate interoperability and data exchange among different products or services and are intended for widespread adoption.»5

Alla stessa pagina viene riportato l’elenco dei requisiti proposti da ITU, con la precisazione che si tratta non di un numerus clausus ma di una lista a titolo più che altro indicativo ed esemplificativo:

  • il processo per l’adozione dello standard deve essere collaborativo e ragionevolmente aperto a tutti i soggetti interessati (collaborative process);
  • il processo non deve essere orientato da interessi particolari (reasonably balanced);
  • il processo deve basarsi su procedure chiare e trasparenti e deve garantire il coinvolgimento delle parti interessate (due process);
  • l’applicazione di diritti di tutela industriale deve avere uno spirito non discriminatorio e deve essere o a titolo libero/gratuito o quantomeno a condizioni economiche ragionevoli (intellectual property rights);
  • la documentazione con le specifiche dello standard deve avere una qualità e un livello di dettaglio sufficienti a consentirne la piena implementazione (quality and level of detail);
  • la documentazione relativa allo standard deve essere disponibile pubblicamente (publicly available);
  • lo standard deve essere manutenuto e supportato costantemente e per un lungo periodo (on-going support).
2.3. La definizione di IDABC

Arriviamo infine ad una definizione pur meno articolata ma sicuramente breve, chiara, e che attualmente risulta la definizione più accreditata nelle sedi istituzionali. Ci si riferisce alla definizione contenuta nel già citato European Interoperability Framework (EIF) e ripresa da vari enti di standardizzazione (come per esempio da UNI per l’Italia) nonché da varie [p. 57 modifica]istituzioni pubbliche, specialmente nelle loro normative, direttive e raccomandazioni in materia di e-government.

Secondo tale definizione6, uno standard si considera “aperto” quando:

  • è adottato e mantenuto da un’organizzazione non-profit ed il cui sviluppo avviene sulle basi di un processo decisionale aperto e a disposizione di tutti gli interlocutori interessati e le cui decisioni vengono prese per consenso o a maggioranza;
  • il documento di specifiche è disponibile liberamente oppure ad un costo nominale. Deve essere possibile farne copie, riusarle e distribuirle liberamente senza alcun costo aggiuntivo;
  • eventuali diritti di copyright, brevetti o marchi registrati sono irrevocabilmente concessi sotto forma di royalty-free;
  • non è presente alcun vincolo al riuso, alla modifica e all’estensione dello standard.
3. Criteri di classificazione degli standard aperti

Con l’affermazione della nuova categoria degli standard aperti, si amplia e si articola il quadro delle categorie degli standard rispetto alle due macrocategorie di cui abbiamo parlato poco sopra. Come fonte di riferimento di questa nuova compagine del concetto di standard e della derivante classificazione utilizzeremo ciò che è stato proposto in più occasioni da Alfonso Fuggetta, docente e teorico in materie legate all’informatica e all’innovazione.7

Secondo Fuggetta è possibile dedurre una classificazione secondo i livelli di apertura degli standard. Tale classificazione prevede cinque livelli8:

  • livello 0: chiuso/proprietario. Ci si riferisce al fatto che le specifiche dello standard non siano state rese pubbliche e che lo standard sia detenuto da un ente che ne vanta e ne esercita i diritti di privativa industriale;
  • livello 1: divulgato. Ci si riferisce al fatto che le specifiche dello standard siano state rese pubbliche (e questo al di là del fatto che [p. 58 modifica]siano presenti dei diritti di privativa industriale sullo standard);
  • livello 2: concertato. Ci si riferisce al fatto che le specifiche dello standard siano state definite attraverso un processo consultivo e collaborativo;
  • livello 3: concertato aperto. Ci si riferisce al fatto che le specifiche dello standard siano state definite attraverso un processo consultivo e collaborativo, aperto e guidato da organismi super partes;
  • livello 4: aperto de jure. Ci si riferisce al fatto che le specifiche dello standard siano state definite da organismi internazionali di standardizzazione seguendo i requisiti della definizione di open standard.

Alla luce di questa classificazione, si possono dunque delineare le seguenti quattro tipologie di standard:

  • standard proprietari, che sono a loro volta distinti in:
  • standard proprietari non divulgati;
  • standard proprietari divulgati;
  • standard concertati;
  • standard concertati aperti;
  • standard aperti de jure.

Giustamente, Fuggetta tiene a precisare che solo le ultime due categorie possono essere considerate legittimamente “open standard” e che, nonostante non ci sia consenso unanime sull’interpretazione di tale requisito, un vero standard aperto dovrebbe essere anche royalty-free.

4. Il web come tecnologia interoperabile e il ruolo del W3C

Si provi a immaginare che cosa sarebbe il web senza un intrinseco spirito di interoperabilità. Probabilmente non esisterebbe, o quantomeno non sarebbe al grado di evoluzione attuale. Infatti, nonostante standard de jure per il web siano stati raggiunti in tempi relativamente recenti (con l’affermazione e diffusione degli standard W3C), Internet si è sempre comunque basata su protocolli e standard largamente condivisi. Questo ha permesso che la sua diffusione e la sua evoluzione fossero esponenziali e più celeri di ogni altro modello di tecnologia.

L’esempio di Internet e più specificamente del web come tecnologia interoperabile è proposto in varie opere di indubbia rilevanza, di cui in questa sede non è possibile rendere conto in maniera esaustiva; tuttavia si può riportare a titolo di esempio quanto emerge dal documento “The [p. 59 modifica]Internet Standards Process” redatto da Scott O. Bradner dell’Università di Harvard:

«The Internet, a loosely-organized international collaboration of autonomous, interconnected networks, supports host-to-host communication through voluntary adherence to open protocols and procedures defined by Internet Standards. There are also many isolated interconnected networks, which are not connected to the global Internet but use the Internet Standards». 9

Per rimanere invece su fonti italiane e più recenti si legga il “Manuale per la qualità dei siti web pubblici culturali” curato dal Progetto MINERVA del MiBAC:

«L’Interoperabilità è uno dei principi informatori del Web: le specifiche dei linguaggi e dei protocolli del Web devono essere compatibili tra loro, e consentire a qualunque hardware e software di interoperare. Il Web deve essere in grado di accogliere il progresso delle nuove tecnologie evolvendosi in modo semplice quando è necessario, al fine di incorporare nuove funzioni e adeguarsi a nuove esigenze. In altre parole, deve garantire scalabilità e questo può essere realizzato mediante principi di progettazione quali la semplicità, la modularità e l’estensibilità». 10

Oppure si legga ciò che scrive Sciabarrà nel suo “Il software Open Source e gli standard aperti”:

«Ciò che distingue la rete Internet da altri sistemi di rete, come per esempio le reti Novell o Microsoft, è che è interamente descritta da standard, pubblici e aperti a tutti. Per la precisione, chiunque, purché dotato della competenza necessaria, può proporre nuovi standard e partecipare alla loro definizione». 11
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4.1. Dall’HTML all’XML: una storia di interoperabilità e standard aperti

La storia dei linguaggi del web è uno degli esempi più emblematici di come interoperabilità e apertura possano innescare circoli virtuosi di creatività e sviluppo tecnologico. E non è un caso che il fenomeno più rivoluzionario e innovativo del nuovo millennio (cioè Internet e il web) porti nel suo DNA proprio quei due valori essenziali.

Entrare nel dettaglio dell’evoluzione che ha portato agli attuali standard utilizzati nel web ci risulta molto utile per la comprensione delle dinamiche economiche e tecnologiche che stanno dietro all’affermazione di uno standard rispetto ad un altro. Si è scelto qui di ripercorrere la dinamica storica dell’HTML e dell’XML riportando quasi integralmente le rispettive voci tratte dal libro-dizionario “Revolution OS. Voci dal codice libero”, curato da Alberto Mari e Salvatore Romagnolo.


a) HTML

«Verso l’inizio del 1990 al Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire (CERN) di Ginevra un team di ricercatori capitanati dal matematico inglese Tim Berners-Lee inseguiva un’utopia. Quel gruppo cercava un sistema che rendesse disponibili a tutti e indistintamente le informazioni nel modo più semplice possibile. Non solo. Desiderava che queste informazioni fossero collegate in modo “ipertestuale”: ogni concetto, ogni pagina doveva essere interrelata con i concetti e con le pagine affini, in modo decentrato e analogico, come se si trattasse di elaborazioni del cervello umano.

La rete Internet, un suo primo nucleo fatto di mail, newsgroup e qualcos’altro, era diffusa negli ambienti accademici degli Stati Uniti, molto meno in Europa. Tim Berners-Lee capì che quel network poteva essere l’infrastruttura di trasporto delle sue informazioni. Servivano un paio di cose. Un protocollo di comunicazione che rendesse disponibili le informazioni sulla rete Internet, un sistema uniforme di scrittura di indirizzi, un software che permettesse di leggere e scrivere quelle pagine e per finire una lingua franca per pubblicare le informazioni.

Il linguaggio era lo strumento meno difficile da progettare e realizzare. Doveva essere un linguaggio semplice da imparare e da utilizzare, doveva essere facilmente accessibile da tutti, non doveva avere la complessità di un linguaggio di programmazione. [...] Il 13 novembre 1990 quel linguaggio prese forma nella prima pagina scritta con Hypertext Markup Language, l’HTML appunto. [...] Stava nascendo il World Wide Web.

Da quel momento fu una crescita continua; iniziava l’era della comunicazione di massa democratica, il World Wide Web permetteva a tutti di pubblicare le informazioni in modo paritario ed era destinato a sconvolgere la galassia dei media e dell’accesso all’informazione, l’economia [p. 61 modifica]e la comunicazione, l’industria e i governi. Nel 1994 fu fondato il Consorzio World Wide Web (W3C), l’ente no-profit che si occupa di produrre e divulgare raccomandazioni per i linguaggi del Web, e Tim Berners-Lee qualche anno dopo sarebbe stato dichiarato dalla rivista Time una delle 100 persone che hanno influenzato lo sviluppo del XX secolo. [...]

Nel crearlo Tim Berners-Lee aveva come modello lo Standard Generalized Markup Language (SGML), ossia un metalinguaggio utilizzato per creare altri linguaggi di marcatura. Questo tipo di linguaggi venivano utilizzati definendo un set di tag (“marcatori”) attorno al testo che ne definissero la tipologia, la funzione o lo stile. [...] Dal primo nucleo molto ridotto di tag, il linguaggio HTML nel corso del tempo si arricchì di nuove funzioni derivate sia dalle necessità degli sviluppatori sia dall’uso che fecero del linguaggio i vari programmi dediti alla visualizzazione di pagine Web, i browser.

Nell’aprile del 1994 nacque la Netscape Communications fondata da alcuni ricercatori provenienti dalla NCSA, prima azienda ad aver sviluppato un browser con velleità commerciali chiamato Mosaic. Nello stesso mese Bill Gates annunciò che il Windows 95 prossimo venturo avrebbe incorporato proprie funzionalità di accesso al Web e un proprio navigatore, il futuro Internet Explorer. Da quell’anno il destino dell’HTML si legò al destino dell’industria dei software per il Web.

Iniziò la cosiddetta “guerra dei browser”: per arricchire di funzionalità i propri navigatori sia Netscape che Microsoft piegarono ai propri interessi il linguaggio HTML aggiungendo tag non previsti dall’iniziale progetto. Allora non esisteva uno standard riconosciuto, arrivò a fine 1995, e chi controllava la tecnologia di lettura (il browser) poteva aggiungere a piacimento tag proprietari. In alcuni casi, come per il tag <img> introdotto da Netscape, ciò poteva risolversi in un bene, ma in altri casi questa rincorsa alle funzioni servì solo a creare confusione e non pochi problemi a chi si occupava di scrivere pagine Web.

Dalla guerra dei browser uscì un nuovo linguaggio che si perfezionò via via grazie agli aiuti di Netscape, Microsoft e del W3C. [...] Stiracchiato da una parte e dall’altra, nato per visualizzare e scrivere testo e finito per coinvolgere anche elementi di design e di visualizzazione di una pagina Web, il codice HTML subì nell’ultima revisione del 1999 (la 4.01) profondi cambiamenti: via tutto ciò che riguardava la “presentazione” di una pagina Web e restringimento del raggio di azione alla solo scrittura del contenuto. [...]

L’ultimo cambiamento della documentazione ufficiale arriverà nel 2000 quando l’HTML verrà riformulato in XHTML, ossia in un HTML riscritto alla luce del linguaggio XML. Da quel momento in poi l’HTML uscirà di scena dai [p. 62 modifica]documenti del W3C per lasciare spazio a XHTML e a tutte le sue successive definizioni.» 12


b) XML

«Acronimo di eXtensible Markup Language, si tratta di un linguaggio di markup configurabile e personalizzabile per la gestione delle informazioni. Il linguaggio XML discende dal SGML (Standard Generalized Markup Language), inventato da Charles Goldfarb, Ed Mosher e Ray Lorie per l’IBM negli anni Settanta e adottato come standard ISO 8879 nel 1986. [...] Nonostante la versatilità e la potenza del linguaggio SGML, questo rimaneva uno strumento utilizzato solo in ambiti ristretti. Il motivo era da ricercarsi soprattutto nell’estrema complessità del linguaggio e delle sue specifiche. Per questa ragione nel 1996 Jon Bosak, Tim Bray, C. M. Sperberg-McQueen, James Clark e molti altri iniziarono a lavorare su una versione leggera di SGML, che riuscisse a mantenere una potenza paragonabile al linguaggio originale eliminando al contempo elementi inutili e ridondanti. Il risultato, pubblicato nel febbraio 1998, fu il linguaggio XML 1.0.

L’idea di base di XML è quella di una struttura gerarchica delle informazioni, una sorta di database gerarchico, in contrasto ai database relazionali a cui siamo maggiormente abituati. Ogni documento XML è un albero, i cui rami sono gli elementi di primo livello, ulteriormente suddivisi in sottolivelli e così via, fino ad arrivare alla più piccola unità di informazione gestita dalla struttura (foglie dell’albero). [...] Lo scopo di XML è quello di strutturare le informazioni in modo da consentirne una rapida ricerca, consultazione e utilizzo (esattamente come avviene nei database), quindi andrà scelta con cura l’unità minima di informazione per bilanciare efficienza e prestazioni.» 13

Il linguaggio XML è stato formalizzato come standard da parte del W3C nel 1998 (nella versione 1.0) e il suo documento di specifica è disponibile al sito www.w3.org/XML. Attualmente l’importanza di XML va ben oltre la sua applicazione nella semplice costruzione di pagine web. 14 Nello spirito del [p. 63 modifica]“tutto in rete” tipico dell’idea ormai affermata del cosiddetto web 2.0 (o addirittura di un venturo “web semantico”) non esiste sistema operativo e software applicativo che non sia predisposto per “ragionare” secondo i criteri dell’XML e che non consenta di formattare i file in XML o di esportare in XML file contenenti metainformazioni.15


c) HTML 5

HTML 5 è l’ultima frontiera dei linguaggi di markup per il web e al momento della redazione di questo libro è ancora in una fase di definizione presso il W3C. Tuttavia si ritiene di darne fin da subito notizia vista la sicura importanza che questo standard assumerà nei prossimi anni.

«HTML 5 si propone come evoluzione dell’attuale HTML 4.01 ed è concepito per coesistere in modo complementare con XHTML 2.

Le novità introdotte da HTML 5 rispetto a HTML 4 sono finalizzate soprattutto a migliorare il disaccoppiamento tra struttura, definita dal markup, caratteristiche di resa (tipo di carattere, colori, eccetera), definite dalle direttive di stile, e contenuti di una pagina web, definiti dal testo vero e proprio. Inoltre HTML 5 prevede il supporto per la memorizzazione locale di grosse quantità di dati scaricate dal browser, per consentire l’utilizzo di applicazioni basate su web (come per esempio le caselle di posta di Google o altri servizi analoghi) anche in assenza di collegamento a Internet.» 16

4.2. L’attività di standardizzazione e monitoraggio del W3C

Il World Wide Web Consortium è un consorzio di entità operanti nel settore ICT e ha come sua mission quella di sviluppare tecnologie che garantiscano l’interoperabilità per «guidare il World Wide Web fino al massimo del suo potenziale, agendo da forum di informazioni, comunicazioni e attività comuni.» 17

Fu fondato nel 1994 dallo stesso Tim Berners-Lee che ne è tuttora presidente e comprende ad oggi più di 350 membri fra cui aziende del settore informatico e del settore telecomunicazioni, organizzazioni non-profit ed istituzioni di ricerca sia pubbliche che private. [p. 64 modifica]

Il sito ufficiale evidenzia in sette punti 18 gli obiettivi e i principi strategici del W3C:

  • accesso universale alle risorse del web; 19
  • ricerca e sviluppo per la realizzazione del cosiddetto web semantico;
  • promozione di un web of trust, ovvero di un web basato sulla collaborazione, sulla fiducia, sulla riservatezza e sulla responsabilità;
  • promozione dell’interoperabilità e degli standard aperti; 20
  • capacità evolutiva dell’attività dell’ente parallelamente ai continui sviluppi della tecnologia; 21
  • decentralizzazione nell’architettura e nell’organizzazione del web; 22
  • un web più vicino alle esigenze dell’utente e quindi più accattivante anche per usi prettamente di intrattenimento.
5. L’approccio di OASIS all’attività di standardizzazione

Dal 1993 è attiva un’organizzazione che si occupa anche e soprattutto di promuovere la ricerca e la formalizzazione di standard di tipo aperto nel settore ICT. Si tratta del consorzio non-profit chiamato “Organization for the Advancement of Structured Information Standards” e più conosciuto con l’efficace acronimo OASIS, la cui mission - come emerge dal sito ufficiale - è guidare lo sviluppo, la convergenza e l’adozione di standard aperti per la società dell’informazione. 23 [p. 65 modifica]

L’ente nacque sotto il nome “SGML Open” e fu in un primo momento una comunità di operatori e utenti dedicata al monitoraggio di soluzioni e prodotti basati appunto sullo standard SGML. Tuttavia, nel 1998, vista la sempre maggiore attenzione del settore ICT verso lo standard XML, fu deciso il cambio di nome in “OASIS Open”, così da allargare il campo di interesse a tutte le tecnologie XML e agli standard aperti in senso più ampio.

Ad OASIS afferiscono oggi più di 5000 partecipanti provenienti da circa un centinaio di paesi (e dalle varie organizzazioni nazionali); il consorzio ha la sede principale negli Stati Uniti ma ha sedi operative di rilievo anche in Europa e in Asia.

Un aspetto interessante dell’organizzazione e della struttura dell’ente è quello espressamente sottolineato nella pagina di presentazione e dal quale si può dedurre la filosofia di fondo degli equilibri di potere interni, nonché delle prassi e delle procedure decisionali adottate: una filosofia particolarmente orientata alla trasparenza, alla democraticità e all’apertura. All’indirizzo web www.oasis-open.org/who si legge infatti:

«OASIS is distinguished by its transparent governance and operating procedures. Members themselves set the OASIS technical agenda, using a lightweight process expressly designed to promote industry consensus and unite disparate efforts. Completed work is ratified by open ballot. Governance is accountable and unrestricted. Officers of both the OASIS Board of Directors and Technical Advisory Board are chosen by democratic election to serve two-year terms. Consortium leadership is based on individual merit and is not tied to financial contribution, corporate standing, or special appointment.»

Altro aspetto significativo del modus operandi di questo consorzio è quello della politica di gestione dei diritti di privativa industriale, aspetto trattato con particolare sensibilità e spirito innovativo. Si legga a questo proposito quanto riportato in una apposita domanda delle FAQ presenti sul sito:

«Most OASIS specifications are provided to the public on a royalty-Free basis. The OASIS IPR Policy states that contributors of externally developed technical work must identify ali IP claims (patents, trademarks, etc.) associated with that work, and must agree to grant use of this technology under reasonable and nondiscriminatory (RAND) or royalty-free (RF) terms for purposes of implementing the OASIS specification.»24
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Dunque un approccio sicuramente pionieristico alla standardizzazione che può attivare una serie di meccanismi virtuosi e positivamente propagativi. Non è infatti un caso che uno dei più noti standard considerati a tutti gli effetti un open standard, cioè il formato documentale ODF (di cui avremo modo di parlare approfonditamente nel prossimo capitolo), sia stato oggetto di standardizzazione proprio da parte di OASIS.

Note

  1. Calderini M., Giannaccari M., Granieri A., Standard, proprietà intellettuale e logica antitrust nell’industria dell’informazione, Il Mulino, 2005 (p. 34).
  2. «La soluzione dello standard de facto è quella che fa ricorso al mercato e che si affida al potere di autodisciplina e al consenso degli operatori. La legge del più forte, nel caso di una standardizzazione de facto (come è emerso in relazione al sistema operativo di Microsoft) - che non necessariamente significa il migliore -, ovvero una standardizzazione ad opera esclusivamente (o prevalentemente) degli attori coinvolti sono le modalità che presiedono alla selezione dello standard.» ibidem (pp. 45-46).
  3. http://it.wikipedia.org/wiki/VHS
  4. http://perens.com/OpenStandards/Definition.html.
  5. www.itu.int/ITU-T/othergroups/ipr-adhoc/openstandards.html.
  6. La definizione dell’EIF è qui riportata nella versione italiana presente sul sito dell’UNl alla pagina www.uni.com/uni/controller/it/comunicare/articoli/2007_l/odf_26300.htm
  7. La fonte di questo quadro riassuntivo è un articolo uscito nel maggio 2006 sul numero 27 di Nova24, inserto de IlSole24Ore; gli stessi concetti sono ripresi in una pagina del blog personale di Fuggetta (www.alfonsofuggetta.org/?p=539) e sono ampliati nel già citato paper monografico Open standard, Open Formats, and Open Source (di cui è coautore Davide Cerri e che è accessibile all’indirizzo web www.davidecerri.org/sites/default/files/art-openness-jss07.pdf).
  8. In realtà Fuggetta considera solo i quattro livelli di apertura, senza il livello 0 che è stato invece qui aggiunto a scopo di completezza e chiarezza.
  9. Bradner S.O., The Internet Standards Process (par. 1.1), documento disponibile al sito www.ietf.org/rfc/rfc2026.txt; lo stesso documento è citato nel paragrafo “La rete e gli standard” in Sartor G., Corso d’informatica giuridica (Vol. 1), Giappichelli, 2008.
  10. Filippi F. (a cura di), Manuale per la qualità dei siti web pubblici culturali, Ministero per i beni e le attività culturali (Progetto MINERVA), 2005, 2° ed. italiana, (cap. 1, par. 1.3.6); disponibile al sito ww.minervaeurope.org/publications/qualitycriteria-i.htm.
  11. Sciabarrà M., Il software Open Source e gli standard aperti, McGraw-Hill, 2004, (p. 217). E infine si legga anche ciò che si trova al capitolo 10.3 di Aa.Vv., Finalmente libero! Software libero e standard aperti per le pubbliche amministrazioni, McGrawHill, 2008: «Questo approccio non strutturato agli Standard Aperti ha dato frutti molto importanti. Si pensi ad esempio ad Internet, che si basa su standard “de facto” ma aperti, funzionanti e condivisi, anche perché la rapidità del suo sviluppo non era compatibile coi tempi di emissione e stabilizzazione di uno standard da parte degli organismi “ufficiali”».
  12. Questo paragrafo è tratto dalla voce “HTML” in Mari A. e Romagnolo S. (a cura di), Revolution OS. Voci dal codice libero, Apogeo, Milano, 2003 (pp. 51-55) ed è rilasciato nei termini della Licenza per Documentazione libera GNU (GNU FDL) il cui testo integrale è disponibile al sito www.gnu.org/copyleft/fdl.html.
  13. Questo paragrafo è tratto dalla voce “XML” in Mari A. e Romagnolo S. (a cura di), Revolution OS. Voci dal codice libero, Apogeo, Milano, 2003 (pp. 137-138) ed è rilasciato nei termini della Licenza per Documentazione libera GNU (GNU FDL) il cui testo integrale è disponibile al sito www.gnu.org/copyleft/fdl.html.
  14. «Ben presto ci si accorse che XML non era solo limitato al contesto web, ma era qualcosa di più: uno strumento che permetteva di essere utilizzato nei più diversi contesti, dalla definizione della struttura di documenti, allo scambio delle informazioni tra sistemi diversi, dalla rappresentazione di immagini alla definizione di formati di dati.» http://it.wikipedia.org/wiki/XML.
  15. A tal proposito si legga ciò che scrive Fabio Brivio: «abbiamo detto che le informazioni organizzate in documenti XML sono facilmente condivisibili. Questa possibilità è garantita da due fattori. Per prima cosa, XML è ormai uno standard nel mondo della comunicazione digitale e pertanto non esiste sistema operativo che non sia in grado di lavorare con file XML e DTD. [...] In secondo luogo, i file XML e DTD non sono altro che file di testo composti semplicemente da informazione a cui è associata una marcatura.» Brivio E, L’umanista informatico, Apogeo, Milano, 2009 (pp. 58-59).
  16. http://it.wikipedia.org/wiki/HTML_5. Per maggiori dettagli si legga l’interessante ebook Dive into html5 di Mark Pilgrim, disponibile al pagina web http://diveintohtml5.org/.
  17. http://www.w3c.it/.
  18. www.w3c.it/w3cin7punti.html.
  19. «Uno degli scopi principali del W3C è quello di rendere queste opportunità fruibili a tutti, indipendentemente da eventuali limitazioni determinate da hardware, software, supporto di rete a disposizione, lingua madre, cultura, collocazione geografica, capacità fisiche e mentali.» ibidem
  20. «Il W3C è un’organizzazione neutrale, che incoraggia l’interoperabilità attraverso la progettazione e la promozione di linguaggi informatici e protocolli aperti (non proprietari) che evitino la frammentazione del mercato caratteristica del passato. Tutto questo è realizzato ottenendo il consenso dell’industria e incoraggiando un forum aperto per la discussione.» ibidem
  21. «Il Consorzio si adopera per costruire un Web che possa facilmente evolvere in un Web ancora migliore, senza per questo dover distruggere quello che già funziona. I principi di semplicità, modularità, compatibilità ed estensibilità guidano tutti i progetti del Consorzio.» ibidem
  22. «Il progetto del Consorzio è quello di limitare il numero delle risorse Web centralizzate, al fine di ridurre la vulnerabilità del Web nel suo complesso. La flessibilità è l’indispensabile compagna dei sistemi distribuiti, è la vita e l’anima di Internet, non solo del Web.» ibidem
  23. Alla pagina di presentazione www.oasis-open.org/who si legge: «OASIS is a not-for-profit consortium that drives the development, convergence and adoption of open standards for the global information society. The consortium produces more Web services standards than any other organization along with standards for security, e-business, and standardization efforts in the public sector and for application-specific markets.»
  24. Tratto dalla sezione Frequently Asked Questions all’indirizzo www.oasis-open.org/who/faqs.php. Per un approfondimento del tema delle IPR policies di OASIS si veda invece l’apposita sezione del sito: www.oasis-open.org/who/intellectualproperty.shtml.