Arcadia (Sannazaro)/Elogio

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Giovan Battista Corniani

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Agli editori Proemio


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ELOGIO

DI

M. JACOPO SANAZZARO

SCRITTO

DAL CONSIGLIERE GIO. BATTISTA CORNIANI,






§. I.


Compendio della sua Vita.


Il Sanazzaro appartiene a due secoli, al Decimoquinto, ed al Decimosesto: uomo ammirabile, poichè in mezzo alla ruvidezza del quattrocento seppe portare la prosa e il verso Italiano e Latino ad un grado di eccellenza maggiore di quella, che il mondo ammirava ne’ provetti suoi coetanei, e fu per avventura il primo che gettò i semi della floridezza del cinquecento.

Nacque Jacopo Sanazzaro in Napoli l’anno 1458 da nobile famiglia oriunda dalla [p. x modifica]Spagna, che avea acquistati in Lucania larghi possedimenti, e spogliatane poi dalla Regina Giovanna, ritrovavasi allor ch’egli venne alla luce, in assai modesta fortuna per non dir povertà 1. I progressi ch’ei fatti avea negli studj gli apriron l’ingresso nella più verde età all’Accademia, di cui era promotore, e capo il celebre Gioviano Pontano, e in cui egli assunse il nome di Apio Sincero. Ivi nel concorso, e nella emulazione dei dotti uomini, di cui abbondava quel ceto illustre potè ampliare la suppellettile delle sue cognizioni, ed affinare il nascente suo gusto.

Nella età di soli otto anni ei concepì una innocente affezione per Carmosina Bònifacia amabile fanciulla di pari età, colla quale domesticamente vivea. Crescendo negli anni sentì Jacopo accrescersi sempre più questa sua inclinazione, ed intrecciarsi colla vivezza del desiderio, e divenir finalmente una vera passione amorosa. A cui corrispondea la donzelletta, ma con semplice fratellevole benevolenza, che a lui parea rivolta a tutt’altro fine che a quello, cui egli focosamente anelava. Ricorse alla muta favella degli sguardi, e dei sospiri, ma anche ad essa fu la bella insensibile, o per innata bontà, o perchè avesse sì freddo il petto, che amore non sapesse ricevere, o sì saggia fosse che meglio di lui lo sapesse nascondere. Non osò mai di avventurare una dichiarazione; ciò che sembrerà in un mondo corrotto un po’ fuori [p. xi modifica]del verosimile. L’amor vero è timido e rispettoso, e tale è d’ordinario il primo amore. Quantunque, dic’egli, nel letticiuolo della mia cameretta molte cose nella memoria mi proponessi di dirle, nientedimeno, quando in sua presenza io era, impallidiva, tremava, e diventava mutolo . . . . Dunque per ultimo rimedio di più non stare in vita deliberai . . . . e veramente avrei finiti i miei tristi giorni, se la dolente anima da non so quale viltà soprapresa non fosse divenuta timida di quel che più desiderava. Tal che rivolto il fiero proponimento in più regolato consiglio presi partito di abbandonare Napoli, e le paterne case, credendo forse di lasciare amore, e i pensieri insieme con quelle: ma lasso che molto altrimente ch’io mi avvisava mi avvenne!2

In somma la sua piaga colla lontananza non si addolcì. Egli si trasferì in Francia, ed ivi pure l’immagine dell’amata fanciulla lo seguitò costante, ed indivisibile. Fu essa la sovrana de’ suoi pensieri, e l’argomento delle dogliose sue rime. Non potendo infine più reggere ad una privazione sì tormentosa fece tra non molto ritorno alla patria. Ma a che terribile desolazione ei cadde in preda, allor che intese che la sua Carmosina era trapassata all’altra vita nel più bel fiore degli anni? Ogni amante d’immaginazione ardentissima può agevolmente idearsi quale si fosse la lacerazion dei suo cuore.

Intanto la fama del suo sapere gli aveva [p. xii modifica]aperto l’adito presso il Re Ferdinando I., e presso i Principi di lui figli Alfonso e Federico. La protezion di quest’ultimo contribuì singolarmente ad alleggerire il suo animo dal peso delle narrate sciagure. Così di lui scrive a Gio. Francesco Caracciolo:

Quest’anima real, che di valore,
Caracciol mio, l’età nostra riveste,
Volgendo gli occhi all’alte mie tempeste
Fe’ forza a morte, e tenne in vita il core.

Il Sanazzaro alle beneficenze del suo real Mecenate rendette il guiderdone di una fede inviolata, e di un saldo e tenero affetto. Non lo abbandonò nemmen quando il vide disavventurato, e spoglio del regno; anzi lo accompagnò nel suo esiglio, e seco visse in Francia sino alla di lui morte. Allora Jacopo si restituì alla patria, e oramai vecchio impiegò i restanti suoi giorni unicamente nella cultura delle lettere, e dell’amicizia. La sua deliziosa villa di Mergellina gli offeriva la tranquillità, e gli richiamava la dolce rimembranza del suo benefattore, poich’era dono di lui: affetti ambidue cari al suo cuore.

Ma non è in balìa dell’uomo di rendere durevole quella tranquillità, che è frutto del disinganno, e meta di un desiderio sano, ed illuminato dalla tarda esperienza. Sciaurate vicende turbano non di rado la calma esteriore, donde si comunica una irresistibile scossa anche all’interna ad onta di qualunque vantata impassibilità filosofica. Il Sanazzaro vide violata la pace del campestre asilo della sua [p. xiii modifica]Mergellina dalle soldatesche imperiali comandate dal Duca d’Orange, le quali vi apportarono un orribile guasto. Nè concepì un acerbo rancuore, e si vuole che ammettesse nell’animo ancora un sentimento smodato di vendetta in momenti, che sembrano impor silenzio alle passioni, mentre ridotto agli estremi del viver suo, avendo inteso che l’Orange era stato ucciso in battaglia, oltremodo di ciò si compiacque, dicendo che moriva contento, poichè quel pirata aveva portata la pena de’ suoi saccheggi. Anche gli uomini ragionevoli e pii non possono sempre difendersi dal disordine degli affetti.

Il Sanazzaro terminò la sua mortale carriera l’anno 1530, e fu sepolto in una Chiesa da lui eretta sul dorso del ridente Posilipo. I simboli del suo poetico merito rappresentati dalle divinità pagane, e scolpiti sulla sua tomba formano un assai bizzarro contrasto colla santità de’ circostanti oggetti. La sua situazione è vicina alla grotta di Pozzuolo, ove giacque Virgilio, e questa circostanza somministrò il tale epigrammatico all’epitaffio che a lui compose il Bembo nel seguente celebre Distico:

Da sacro cineri flores: hic ille Maroni
Sincerus musa proximus, ut tumulo.

Fu il Sanazzaro affettuoso e leale nell’amicizia, di costumi puri ed illibati, e d’animo liberale nelle opere di pietà e di religione, alla quale consacrò pure l’eleganza della sua penna, come vedremo in appresso. [p. xiv modifica]



§. II.


Sua Arcadia.


Finge il Sanazzaro, che per fuggir la cagione del suo amoroso martirio errasse per varie regioni, e s’innoltrasse finalmente ne’ boschi d’Arcadia; dal che prende occasione di narrare i costumi, i piaceri, gli affetti, le occupazioni di que’ pastori.

Le descrizioni della campagna riescono sempre dilettevoli e lusinghiere. Piacciono a quelli ancora, a’ quali non piace la realità della campagna. La natura di quando in quando esercita i suoi diritti anche sui cuori più svogliati a corrotti. Tali rappresentazioni risvegliano in noi quella originaria dolcissima propensione verso i tempi della innocenza sopita bensì in molti cuori dai fattizj piaceri, ma non mai del tutto, estinta. Noi veggiam sempre con verace soavità dipinte al vivo le bellezze della natura, la semplicità de’ costumi campestri, il riposo dell’anima.

È sembrato a’ Poeti, che tutti gli accennati vantaggi si potessero accogliere nella vita pastorale. L’economia degli armenti importa un esercizio mite, discreto e lontano dall’asperità e dalla eccessiva fatica, che offre un’immagine disgustosa. Mentre pascono lo pecorelle possono i pastori custodi contemplare i fiori, l’erbe, i ruscelli, le piante, i zefiri ec., ed avvertire in se stessi il piacere, che destano loro nel cuore tanti oggetti di beltà semplice. [p. xv modifica]È poi naturale, ch’essi partecipino della mansuetudine del gregge, che di continuo è presente ai loro occhi, ed ai loro pensieri. Non conoscono quindi le passioni raffinate, e laceratrici della società. Le passioni si riducono in essi all’amore, e alle gare per superarsi ne’ giuochi, o ne’ canti, o ne’ suoni. Tali furono gli argomenti degl’Idilj di Teocrito, e dell’Egloghe di Virgilio, e tali pur quelli dell’Arcadia del Sanazzaro.

Quest’opera è composta di prose e di versi. Il primo fu il Sanazzaro, che facesse rivivere la colta prosa Italiana imbarbarita già dai Filelfi, dai Palmieri, dai Savonarola ec. Ei seppe cogliere la eleganza del Boccaccio, e il candore de’ Trecentisti, coll’avvertenza però di escludere le faticose trasposizioni, e i rancidumi abrogati dall’uso. L’argomento favoloso e poetico ha dato luogo ad uno stile fiorito, e sopraccarico di epiteti e di locuzioni poetiche. Tale è quello degli Amori di Dafni e Cloe, e degli altri bucolici romanzi de’ Greci Maestri. I più eleganti scrittori tra le culte moderne nazioni hanno nelle cose pastorali adottata questa istessa dizione sparsa di ardite immagini, e di frasi frondose, così che ai loro componimenti può darsi a ragione il titolo di poemi in prosa. Ritornando al nostro Sincero osserveremo, che le sue descrizioni sono vivissime, e corrispondenti alla soavità, ed alla vaghezza degli oggetti campestri, che ne formano l’argomenti. Noi accenneremo quelle del delizioso monte Partenio, della festa di Pale veneranda Dea de’ pastori, e delle giovanili bellezze della [p. xvi modifica]Pastorella Amaranta3. Di meglio non si può far col pennello.

Il Sanazzaro sgombrò ancora l’Italiana poesia dalle macchie della rude scuola Tebaldea, e la ripulì nelle acque di Sorga. Mostreranno i seguenti versi quanto egli gustasse l’ingenuo sapor Petrarchesco:

Menando un giorno gli agni presso un fiume,
Vidi un bel lume in mezzo di quell’onde
Che con due bionde trecce allor mi strinse,
E mi dipinse un volto in mezzo ’l core,
Che di colore avanza latte e rose;
Poi si nascose in modo dentro l’alma,
Che d’altra salma non m’aggrava il peso....
Io vidi prima l’uno, e poi l’altr’occhio:
Fin al ginocchio alzata al parer mio,
In mezzo ’l rio si stava al caldo cielo:
Lavava un velo in voce alta cantando:
Oimè che quando ella mi vide, in fretta
La canzonetta sua spezzando tacque,
E mi dispiacque, che per più mie’ affanni
Si scinse i panni, e tutta si coverse
ec.

La maggior parte dei Dialoghi delle sue Egloghe sono tessuti di terze rime sdrucciole.

Si vuole che Enea Pulci stato sia l’inventor dello sdrucciolo. Il pubblico però non ne possiede alcuna prova. Quello che è certo si è che tra le ottave del Poliziano se ne veggono alcune di sdrucciole. Ma il Sanazzaro fu indubitatamente il primo de’ poeti conosciuti che [p. xvii modifica]abbia impiegati i versi sdruccioli negl’interi coraponimenti, e sia riuscito in essi a gran laude. Ciò nondimeno la povertà delle rime rendendo questo metro sommamente difficile lo tragge non di rado a far uso di latinismi e di rancidumi di lingua. Ad onta di ciò vi s’incontrano de’ versi ammirabili, e tali, che quali adagi, e sentenze si figgono nella memoria, come per esempio:

L’invidia, figliuol mio, se stessa macera,

e quelli

Nell’onde solca, e nelle arene semina,
     E il vago vento spera in rete accogliere
     Chi sue speranze fonda in cor di femina.

Alcuni critici hanno opinato che mostruosa sia l’indicata mistura di prosa e di verso, siccome un composto per dissomiglianza e contrarietà di parti difforme4. Io con loro convengo, quando improvviso sia il salto dalla prosa al verso, e senza alcuna data occasione, o motivo di cangiamento. Allora troppo bruscamente colpisce la discrepanza. Questa però men disconviene alla lingua francese, che alle altre, poichè il suo poetico numero è poco sensibile, e i suoi versi noti appajono per lo più che una prosa rimata. Questa per avventura è la ragione, per cui ia poesia francese più di [p. xviii modifica]qualunque altra abbonda di simil fatta di componimenti.

L’Arcadia del Sanazzaro quantunque frammista anch’essa di prose e di versi va non pertanto immune dall’esposto rimprovero di sproporzione e di dissonanza. Le descrizioni, e le narrazioni sono tutte distese in prosa, e non vi s’introducono i versi, se non quando le circostanze portano naturalmente i pastori a divenire poeti. Or si disfidano essi per superarsi a vicenda nella eccellenza del canto, or l’uno disfoga con amorosi lamenti l’acerbezza della sua passione, ora un altro piange con poetici epicedj sopra la tomba di una tenera amante da morte rapita nel fior della età.

Gli accennati pregi fecero risguardare universalmente l’Arcadia, qual’opera originaria e peregrina, così che vantò nel suo secolo circa sessanta edizioni, e viene considerata ancora nel nostro, come una delle più leggiadre produzioni, di cui possa gloriarsi l’Italiana favella, e l’Autor suo come il principe, ed il modello de’ volgari poeti bucolici5.

Altre meliche poesie lasciò il Sanazzaro, ma niente pareggia l’Arcadia.

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§. III.


Sue Poesie Latine.


Non solo il Sanazzaro rimondò il verso Italiano dalla ruvida scorza del quattrocento, ma aggiunse eziandio alla latina poesia quell’ultimo grado di pulimento, che non avevano saputo donarle, nè il Poliziano, nè il Fontano, nè i due Strozzi, e spianò quindi la via ai posteriori coltissimi ingegni, che gareggiano nella eleganza coi poeti del secolo d’Augusto.

In questa classe primeggia il suo Poema del Nascimento del Redentore, o sia del Parto della Vergine, com’egli lo intitolò. Vi spese Jacopo vent’anni di lavoro. In una delle dotte conversazioni che si tenevano presso di Leon X. alcuno diede contezza dell’accennato componimento, dietro cui il Sanazzaro stava allora travagliando. Bastò questo cenno, perchè l’umanissimo Pontefice gl’indirizzasse un onorifico Breve, col quale non solo con lui si congratula, ma ancor colla Chiesa, poichè in un tempo, in cui valenti ingegni, ma perfidi ne laceravano il seno, un ne sorgesse, il quale ne invigorisse la forza, e insieme ne facesse risplendere la bellezza6. E per dire il vero il prodigioso avvenimento della divina riparazione offre al Sanazzaro varie circostanze, dalle quali [p. xx modifica]ei sa cogliere gli attributi più nobili del poetico bello. Questo illustre esempio può anch’esso influire a confondere l’incauta asserzione di que’ critici, o ingannati, o maligni, i quali pretendono, che la Religione Cristiana non somministri alle arti liberali argomenti capaci di tutto quell’abbellimento, a cui si prestano i soggetti della pagana mitologia. Tra le più leggiadre cose, di cui abbonda l’enunciato poema ne trasceglieremo una sola, la quale servirà in qualche parte a fiancheggiare la nostra riflessione. Licida uno de’ pastori accorsi all’annunzio dell’Angelo a visitare il presepio preso dopo l’adorazione da insolito entusiasmo prorompe ad applicare al celeste bambino i presagi della Sibilla Cumea, che malamente, e per mera adulazione Virgilio aveva voluti ascrivere al figliuol di Pollione.

At Licidas vix urbe sua, vix colle propinquo
Cognitus aequoreas carmen deflexit ad undas....
Inter adorantum choreas, plaususque Deorum
Rustica septena modulatur carmina canua....
Ultima Cumaei venit jam carminis aetas:
Magna per exactos renovantur saecula cursus.
Scilicet haec virgo est, haec sunt Saturnia regna:
Haec nova progenies caelo descendit ab alto,
Progenies, per quam toto gens aurea mundo
Surget, et in mediis palmes florebit aristis.
Qua duce, si qua manent sceleris vestigia nostri,
Irrita perpetua solvent formidine terras....
Adspice venturo laetentur ut omnia saeclo.
Ipsae lacte domo referent distenta capellae

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Hubera; nec magnos metuent armenta leones;
Agnaque per gladios ibit secura nocentes
7.

Poich’ebbe compiuta e pubblicata quest’Opera venne onorato con altro magnifico Breve dal Papa Clemente VII.8, il quale ne esalta a cielo non meno l’ingegno, che la pietà, e la religione. Quasi tutti i letterati, e moltissimi Grandi di quella età fecero eccheggiare l’Europa delle sue lodi, e il Poema del Parto della Vergine venne universalmente insignito col titolo di divino9.

Ma in mezzo agli enfatici panegiristi non mancarono al Sanazzaro nemmeno i detrattori. Tra gli altri l’inesorabile Scaligero, mentre ammira per una parte l’eleganza e l’armonia de’ suoi versi, lo riprende per l’altra di aver profanato il Cristiano argomento colle favole del Gentilesimo, e frammischia e agli Angeli ed ai Santi le Driadi e le Napee, e fatta predire la incarnazione del Verbo al multiforme Proteo, e non al Re Salmista e Profeta10.

Si studia il Gravina di giustificarlo dicendo: che queste persone della favola altro non sono che varj effetti della natura11. Per menargli buona una tale discolpa converrebbe ch’esistesse una generale convenzione di [p. xxii modifica]considerare i mitologici personaggi soltanto come simboli di naturali effetti. Se non si può difendere il Sanazzaro si può almen compatirlo di essersi lasciato sedurre da un inganno comune al suo secolo, che la poesia non dovesse piacere, se non intinta nei colori de’ classici antichi; inganno a lui doppiamente dannoso, poichè i suoi versi riescono anche agli occhi del gusto più graditi e pregevoli, quando egli non si diparte dall’augusta maestà delle sacre carte, che quando gl’imbelletta coi fucati ornamenti della Grecia e del Lazio.

Meritò applauso altresì il N. M. Jacopo per un altro genere di composizione in esametri di cui può egli chiamarsi a ragione inventore. Da un Idilio di Teocrito, in cui vengono introdotti a favellare due pescatori trasse l’idea delle sue Egloghe Pescatorie. Fontenelle gli seppe poco grado di questa sua introduzione. Egli pretende, che il Sanazzaro abbia fatto un mal cambio de’ pastori coi pescatori, mentre ei dice, che la situazione di questi ultimi offre alla poesia oggetti meno aggradevoli di quella de’ primi12. Se il Fontenelle si fosse ritrovato nelle sue circostanze avrebbe per avventura pensato diversamente. Il Sanazzaro nel più bel clima d’Italia vedea dalla sua Mergellina i pescatori approdare colle barchette, deporre le prede, asciugare le reti sul vicino Posilipo; Posilipo che stende le falde in un ridente mare. Il prospetto del mare aggiunge indubitatamente vaghezza al paesaggio campestre. Mi pare che [p. xxiii modifica]frammischiando ai fiori, alle frondi, all’ombre delle circostanti rive le immagini dei pescosi stagni, delle muscose grotte, dei tufi, dei coralli, delle conchiglie ec. non si possa che accrescere la grazia e il diletto delle descrizioni. Niente poi vi ha di più delizioso di una sera estiva sul mare rallegrata dai raggi della luna, che si rifrangon nell’onde, e dalla frescura dei zefiri, che lievemente le increspano. Il Sanazzaro colpito da tanti lusinghieri oggetti prende la penna per dipingerli vivamente, e lascia che il bello spirito geometra misuri a suo senno le bellezze poetiche col compasso.

Dalle censure del letterato Francese il compensarmi gli encomj di un dotto Spagnuolo, il quale non ebbe difficoltà di affermare, che Napoli avea maggior ragione di andar fastosa per le Egloghe Pescatorie del Sanazzaro, di quello che per la Tebaide di Stazio altro suo celebre figlio13.

Il Sanazzaro divertì ancora l’ingegno cogliendo de’ fiori minuti del Latino Parnaso. Celebre è il suo Epigramma sopra Venezia. Dopo di aver consacrata la penna alle verità più sublimi della Religione egli la degradò in alcuni lirici componimenti di amor lascivo. Il libertinaggio degli Scrittori di questo secolo ci costringe a saper grado al Sanazzaro non già di essersi preservato immune da questa pece, ma di avervi a paragone degli altri più leggermente invescate le ali.

Note

  1. Ciò narra egli medesimo nella Prosa vii. della sua Arcadia.
  2. Citata Opera Prosa vi.
  3. Vedi le Prose i. iii. iv.
  4. Quadrio. Storia, e ragione d’ogni poesia ec. Lib. I. Distin. II. Cap. 14.
  5. V. Crescimbeni, Quadrio, Fontanini, Zeno ec
  6. Datato da Roma il dì 6 Agosto 1521, poco prima della sua morte.
  7. De Parta Virginis Lib. III.
  8. Del dì 5 Agosto 1526.
  9. Numerosissime testimonianze d’onore sono state inserite nella Edizion Cominiana delle Poesie Latine del Sanazzaro.
  10. Poetica Lib. VI.
  11. Ragion Poetica Lib. I.
  12. Discours sur la nature de l’Eglogue.
  13. Gio. Luigi della Compagnia di Gesù nel suo Commento al Libro VII. della Eneide.