Archivio storico italiano, serie 3, volume 13 (1871)/Rassegna bibliografica/Le Vite dei Dodici Cesari di Svetonio

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Niccolò Tommaseo

Rassegna bibliografica
Le Vite dei Dodici Cesari di Svetonio
volgarizzate con note da F. C. Buggiani ../Codice diplomatico del regno di Carlo I e II d'Angiò ../Tucidide e Teocrito IncludiIntestazione 20 dicembre 2017 75% Da definire

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Le Vite dei Dodici Cesari di Svetonio
volgarizzate con note da F. C. Buggiani
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Le Vite dei Dodici Cesari di C. Svetonio Tranquillo, volgarizzate con note da Francesco C. Buggiani. Cagliari, 1871.


Le storie de’ popoli troppo spesso non son che le storie di chi si serve di loro o si fa servo ad essi, di chi li difende o li opprime, li illude o li ispira; e anco di questi pochi sono storie incompiute, e per ciò spesso fallaci, anco quando [p. 286 modifica]apposta non dicano falsità. Di tali opere essendo il proposito tenersi sulle generali, dell’indeterminato l’anno arte e mestiere, rigettano, come indegni della Musa, anco que’ pochi particolari de’ quali rimane testimonianza, non s’accorgendo che ne’ particolari e l’essenza morale e la propria vita de’ fatti. Le vicende politiche e le mosse guerresche, quando se ne tolgano alcune differenze nell’uso degli artifizii e nel maneggio delle armi, in tutti i popoli e in tutti i secoli si somigliano tanto tra sè, che le storie intrinsecamente più diverse, riescono povere di quella varietà che dovrebbe renderle profittevoli insieme e piacevoli. Aggiungasi che gli apparecchi e gli esiti delle battaglie, anco narrati dai meglio esperti è dagli stessi testimoni e partecipi, narrati, se fosse possibile, senza nè odio nè amore di parte, non possono nello scritto rappresentare agli ignari e ai lontani le cose con la richiesta evidenza, e quasi sforzano la fantasia de’ lettori a congetture che li sviano dalla verità, non volendo. Aggiungasi che le segrete cagioni de’ pubblici grandi fatti sono sovente non piccole in sè, ma per gradi impercettibili vengono in molte anime umane operando, sì che lo scorgerne e l’additarne la serie torna impossibile fino a coloro che di que’ fatti paiono principali autori, e paiono a sè tali in parte essi stessi. Ond’è che la lode e il biasimo viene senza giustizia anco da’ più giusti giudici attribuito. Di tali ignoranze e licenze il pericolo è men grave a chi narra le vite degli uomini singoli; men grave almeno per questo, che ciascun fatto dalla natura stessa dell’assunto è meglio determinato; e lo storico, obbligandosi a meno, è dalle difficoltà meno oppresso; che il circostanziare le cose è non pur lecito ma debito a lui; che anco gli uomini noti per aver preso parte nella pubblica, a lui si presentano nella privata vita, dove si fa adito a indovinarli, se non a conoscerli pienamente; che gli esempi da potersene quindi offrire e del male da evitare e del bene imitabile, giungono più accessibili e più proficui a ciascheduno di noi; che però l’intento morale della storia può essere alquanto meglio conseguito.

Molta riconoscenza a Svetonio debbono dunque i posteri dalle sue Vite aiutati a conoscere cose che indarno e’ cercherebbero in altri libri; aiutati, da quel ch’egli dice, a giudicarle [p. 287 modifica]ancora più rettamente di quel ch’egli faccia, usando per norma al giudizio un senso di moralità più sodo e più delicato. E nella scarsezza di documenti con cui misurare la declinazione o piuttosto i passaggi della latinità, queste Vite meritano considerazione anche come letterario monumento: ma in tale studio non si è ancora esercitata la critica quanto poteva; dico, del discernere negli scrittori reputati men puri quanto d’aureo rimanesse, quanto sia da notare negli aurei di men puro o che così pare a noi. La posterità non s’è dimostrata riconoscente a Svetonio, al quale, in tanta superfluità di traduzioni, una sola è toccata del cinquecento; ma ora viene a opportunamente ammendare cotesta sconoscenza il signor professore Buggiani con le intelligenti sue cure, esemplarmente continuate per anni. Se difficile gareggiare col Davanzati e col Caro, non facile con Paolo Del Rosso; e se Virgilio e Tacito sono di Svetonio maggiori, ha Svetonio le difficoltà sue proprie ne’ pregi e ne’ difetti suoi stessi: senonchè forse lo stile è più corretto che di molti più grandi, è meno contorto che di taluni tra gli aurei con poco discernimento ammirati dai più in ogni cosa. Paolo Del Rosso non immeritamente è citato nel vocabolario italiano, come dicitore di franca toscanità: come traduttore, egli interpreta sovente il senso piuttosto che rendere la parola, prepone sempre alla fedeltà l’evidenza: secondochè i vecchi volgarizzatori sogliono dal dugento a tutto quasi il cinquecento, solleciti di far a tutti intendere l’autore loro, non di voler essi comparire maestri di rettorica bravi. Ma in quella libertà è più verace rispetto alle intenzioni dell’originale e alle idee; come nel non infinto pudore di donna onesta è più sicuro e più riverente il sentimento della fedeltà coniugale. Senonchè le parafrasi in Paolo Del Rosso abbondano oltre necessità, gli sbagli d’interpretazione non mancano. E però l’opera del signor professore Buggiani viene a noi non inutile, anzi da sapergliene grado. Paragoniamo.

«Dimissa Cossutia, flamen Dialis destinatus, quae, familia equestri, sed admodum dives, praetextato desponsata fuerat, Corneliam, Cinnae quater consulis filiam, duxit uxorem, ex qua illi mox Iulia nata est; neque ut repudiaret compelli a dictatore Sulla ullo modo potuit».

[p. 288 modifica]Paolo Del Rosso: «Nell’anno seguente fu eletto sacerdote di Giove; ed avendo licenziato Cossuzia di famiglia equestre, ma molto ricca, la quale così giovinetto gli era stata sposata, tolse per moglie Cornelia, figliuola di Cinna, ch’era stato quattro volte console; della quale poco di poi li nacque Giulia; nè, per molta forza che gli fosse l’atta da Silla, il quale era dittatore, vi fu mai ordine ch’egli la ripudiasse».

Il signor Buggiani: «L’anno seguente, designato flamine di Giove, licenziò Cossuzia, la quale di famiglia equestre, ma ricca grandemente, s’era sposata a lui giovinetto. Prese per moglie Cornelia figliuola di Cinna, console quattro volte, ond’ebbe Giulia: nè a ripudiarla potè essere da Silla dittatore in modo alcuno costretto1».

[p. 289 modifica]«Quare et sacerdotio et uxoris dote et gentiliciis, hereditatibus multatus, diversarum partium habebatur; ut etiam discedere e medio, et, quamquam morbo quartanae aggravante, prope per singulas noctes commutare latebras, cogeretur, seque ab inquisitoribus pecunia redimere; donec per virgines Vestales, perque Mamercum Aemilium et Aurelium Cottam, propinquos et affines suos, veniam impetravit. Satis constat Sullam, quum deprecantibus amicissimis et ornatissimis viris aliquandiu denegasset, at illi pertinaciter contenderent, expugnatum tandem proclamasse, sive divinitus, sive aliqua conjectura: vincerent, ac sibi haberent, dummodo scirent, cura, quem incolumen tanto opere cuperent, quandoque optimatium partibus, quas secum simul defendissent, exitio futurum; nam Caesaris multos Marios inesse».

P. Del Rosso. «Perchè privato dell’offizio sacerdotale, e della dote della moglie, e della eredità che da quelli della sua casata gli perveniva, era tenuto della fazione contraria; di maniera ch’e’ fu costretto partirsi da Roma, e quasi notte per notte, quantunque la febbre quartana lo aggravasse, andarsi nascondendo e mutando luogo. Fu ancora costretto a riscattarsi con danari da’ ministri di Silla, che l’andavano cercando, per fino a tanto che, per l’intercessione delle vergini Vestali e di Mamerco Emilio e di Aurelio Cotta suoi parenti, gli fu perdonato. È manifesto che Silla, nel pregare che gli facevano gli amici suoi, uomini preclari ed eccellenti, stette un pezzo alla dura; e, perseverando di fargli di ciò instanza, che alla fine vinto da tante preghiere e’ gridò, o per volontà divina, o per quello ch’egli di Cesare faceva coniettura: «Abbiatela vinta, e toglietevelo; purchè voi sappiate, che costui, il quale con tanta instanza desiderate di salvare, è per essere un di la rovina della parte de’ nobili, la quale meco insieme avete difesa; che in Cesare sono molti Marii».

Prof. Buggiani. «Per lo che privato del sacerdozio, della dote e dell’eredità gentilizie, e tenuto del partito contrario, fu forzato a tôrsi della città, e partire, comechè malato di febbre quartana, e mutare quasi ad ogni notte ricovero, e liberarsi con denaro da quei che lo perseguitavano; finchè per intercessione delle Vestali, e di Emilio Mamerco e Aurelio Cotta parenti e affini suoi, ottenne perdono. Gli è noto come Silla, [p. 290 modifica]supplicandolo amici suoi nobilissimi, tenutosi qualche tempo sul negare, e persistendo quegli in fargliene istanza, vinto in fine da tanto preghiere, per ispirazione o congettura, sclamasse: «Abbiatela vinta, e toglietevelo; ma sappiate che costui, il quale si ardentemente desiderate salvo, sarà, quando che sia, rovina ai nobili che abbiamo insieme difesi, perciocchè in Cesare son molti Marii».

«Meruit et sub Servilio Isaurico in Cilicia, sed brevi tempore: nam, Sullae morte comperta, simul spe novae dissensionis, quae per M. Lepidum movebatur, Romam propere rediit. Et Lepidi quidem societate, quamquam magnis conditionibus invitaretur, abstinuit; quum ingenio ejus diffisus, tum occasione, quam minorom opinione offenderat».

P. Del Rosso. «Militò ancora in Cilicia sotto Servilio Isaurico, ma breve tempo; perciochè per avere inteso la morte di Silla, e per la speranza che egli aveva di nuova discordia, la quale era mossa da Marco Lepido, tornò prestamente a Roma: e nondimeno non si volle accompagnare con quello, benchè e’ fosse da lui invitato con grandissime offerte e promesse, per non si fidare nello ingegno e natura di quello; e perciò ch’egli ritrovò la occasione minore che non si era immaginato».

Prof. Buggiani. «Militò anche sotto Servilio Isaurieo in Cilicia, ma poco tempo. Perciocchè, saputa la morte di Silla, per la speranza di novelle discordie, che M. Lepido andava movendo, tornò prestamente a Roma; e dalla società di Lepido, comechè con ampie promesse invitato, si tenne lontano; diffidente e dell’indole di lui, e della occasione, a quanto s’era immaginato, minore».

In questa prima pagina tutto Cesare è già ritratto. Avete, più che i preludii, i germi delle passioni e delle azioni che riempiranno i trent’anni seguenti di quella vita in cui s’acc pievano i germi di fatti da svolgersi in lungo corso di secoli; e lo dimostra la vita che Napoleone III scriveva dianzi di Cesare, e il titolo d’imperatore germanico che assume in Versailles l’improvvido suo vincitore, e le rettoriche rimembranze de’ Bruti, italiane pedanterie. Il primo fatto di Cesare, che qui si narra è un ripudio; ed ecco prenunziato l’amante di Cleopatra, il marito di più mogli, se non il favoleggiato ospite di re Nicomede; ma cotesta che a me piace chiamare [p. 291 modifica]calunnia da Pasquino e Marforio lanciata contro il trionfatore, ha il suo appiglio nella facilità dimostrata dal giovane discendente di Venere a trovarsi bene coi re, e nella sua imperatoria noncuranza degli scandali pubblici. Accanto al difetto ecco il pregio, pregio anche ne’ maturi anni raro: la fermezza del non voler abbandonare la seconda sua moglie, non curando nè il cenno e l’ira di Silla, nè i danni gravi, nè i pericoli perseguenti. E la ingiusta accanita persecuzione di Silla, la costui onnipotenza dell’ingiustizia, dimostrando le condizioni di Roma, è scusa alle prepotenze da Cesare ambite poi: le passioni del quale venivano in certa guisa legittimate dagli esempi de’ tristi da meno di lui trionfanti in uno stato oramai senza leggi. Che se Lucio Silla ebbe a dire che in Cesare son più Marii; questi poteva rispondere che un Cesare ne’ pregi valeva per Silla e Marii parecchi; ne’ torti un Silla o un Mario valere per Cesari molti; poteva rispondere che la parte de’ nobili era da Silla, prima e più che da Cesare, abbattuta, perchè resa abbondevole e vituperata. E Silla, col perseguitarlo, alla vita del cospiratore lo veniva allevando; di suo maestro nel male, si faceva suo balio; sospettando di lui, gli accresceva potenza; chiamando sovr’esso lo zelo e la compassione d’affini e d’amici, lo addestrava all’arte del conquistare a sè partigiani. E così dimostrando fede alla sua donna, parte per affetto di cuore e parte per ostinazione d’orgoglio e parte per sentimento della propria dignità, Cesare metteva alla prova la fede de’ suoi attenenti; nella perdita delle sostanze e nelle fughe non vili esercitava insieme la prudenza e il coraggio; e, facendosi tra le invidie strada anche coll’oro, imparava quanto potesse la larghezza co’ nemici e la generosità cogli amici. Se l’una prova lo tentava a spregiare gli uomini, l’altra lo ammaestrava ad amarli; e l’ima e l’altra contemperate, a guardarsi da taluno di loro, ma a confidarsi in altri; a non inorgoglire de’ buoni successi dovuti in parte all’opera altrui, a sentirne gratitudine e a significarla, per nobiltà d’animo e per civile previdenza, e perchè gli sconoscenti sono, tra tutti i superbi, da ultimo i più umiliati. Le giovanili sventure in lui educavano la costanza che d’ogni grandezza è indeclinabile condizione; gli consigliavano l’arte e del resistere e del cedere a tempo. La [p. 292 modifica]milizia durata poi onorevolmente ma senza smania d’apparire, gli ora scuola, per via dell’ubbidienza, al comando; e così la vita del combattente e la vita del proscritto, gli si faceva palestra non solo a durar la fatica, ma, ch’è il meglio, a imperare sopra sè, non lasciarsi andare, nelle sregolatezze sue stesse, nè agli artifizii del freddo insidiatore, nè della sfrenata passione agi’ impeti prepotenti. Dal patire imparò a compatire, dal sostenere a astenersi. E quando l’ebbe richiamato a Roma il rumore di novità favorevoli al suo ingrandimento, e’ si seppe astenere dall’abbandonarsi tutto alla parte di Cinna, suocero suo, sperato buon appoggio in sulle prime. Svetonio con la severa, e forse calunniosa talvolta, interpretazione di cui Tacito è professore, dice che Cesare così facesse per non trovare a’ suoi fini pronte le opportunità immaginate: ma io soggiungerei che anco il senno e il sentimento del retto gli fosse consigliero di tale astinenza. E quando pure non ci si volesse riconoscere se non l’effetto del disinganno, il lasciare aperto l’adito alla verità apportatrice del disinganno, è accorgimento ai passionati difficile, e ne’ politici, ancorchè buoni, raro. Certo è che Cesare, tra gli uomini più dalla lieta fortuna tentati a illudersi e non governati da religiosa virtù, si dimostra forse il meno inebbriato di tutti: la quale serenità quasi fredda, se fa parere vieppiù mirabile la mente di lui, forse aggrava i morali e civili suoi torti.

Giacchè mi è caduto accennare a religione, dirò cosa che a molti suonerà paradosso, e pure io la credo. leggendo che Giulio Cesare all’età d’anni diciassette era già destinato a sacerdote di Giove, mi vengono in mente i destinati dal ventre materno cavalieri di Malta, e gli embrioni d’abati che in età di otto o nove anni, per diritto ereditario, vedevansi dianzi passeggiare in Italia le strade, in veste talare e cappello da prete. Il flamine diale era del flaminato il grado più alto; nè il giovanetto, mettendosi in capo il sacro cappello quasi cardinalizio, prevedeva l’alloro che, a ricoprire la sua calvizie e a scoprire le regie voglie, gli si destinava perenne corona; nè prevedeva che anch’egli, ucciso come tiranno e fatto dio, avrebbe il suo flamine, e ne lascerebbe a’suoi successori col titolo imperiale l’eredità. Ma, perchè agli uomini singolari si fa educazione e elemento di grandezza [p. 293 modifica]più o men diretto ogni cosa, io affermo che il sacerdote non assai venerando non può non avere approfittato anco della conoscenza dovuta acquistare delle tradizioni e delle cerimonie religiose, e del linguaggio rituale; affermo che a quegli studii e a quelle consuetudini, avvertite quel tanto che era sufficiente a così mirabile ingegno, egli deve la coscienza, sempre più sicura, di quella proprietà che ammirasi ne’ suoi scritti; proprietà della quale erano custodi nel tempio e ne’ sacri cantici i sacerdoti, i giureconsulti nel foro e nelle formole civili solenni, nel santuario delle domestiche pareti le donne. Se non lo facevano flamine diale, io dico che Cesare non si sarebbe mai pensato di riformare il calendario di Roma e del mondo; pensata ben più seria e più degna d’imperatore, che non il decreto concernente le scene francesi , dato da Mosca. Intorno al comico Terenzio conservansi versi di Cesare, che in una parerla lo giudica da critico sovrano, intitolandolo Menandro ammezzato: e se il libro intorno all’Analogia delle parole ci rimanesse, sovrano filologo lo ammireremmo; come, se avessimo un’orazione di lui, orabunt caussas melius, Virgilio non avrebbe forse scritto de’ Greci. Ma certo è che a pensare del calendario lo doveva condurre da sé l’osservanza de’ fasti, parola che abbraccia e il sacro e il civile diritto, e le memorie che furono la vera vita di Roma: certo è che, nel suo grado di flamine, e’non poteva non fare un corso pratico di jus canonico; e le menti sue pari dalle particolarità della pratica ascendono di proprio moto a’ principii, come cade il grave, e come sale la fiamma. Forse dalla notizia delle leggi e religiose e civili gli venne e la perizia di saperle eludere, e l’avvedimento di non le infrangere gratuitamente; forse in cotesto egli ha più lasciate commettere iniquità che commesse: ma certamente, se ignorante della consuetudine, ne avrebbe commesse di più goffe e atroci. Gli uomini più benemeriti della civiltà quasi tutti appaiono informati del diritto religioso di quella nazione che intendevano reggere o riformare, anche quando gli si dimostrarono non riverenti. Numa, non Romolo, magnam legibus urltem fundabit, come dice il poeta; Mosè con Aronne compiscono l’uomo liberatore, in tutto l’oriente il sacerdote o governa o consiglia: nel cristianesimo stesso, che ingiunge [p. 294 modifica]umiltà e povertà, i papi inetti o non buoni sono in minor numero de’ principi non buoni e inetti, fanno men rumore, ma anche meno rovine, senza contare i diritti che rivendicano, se non si voglia per virtù propria, per necessità del ministero che tengono: senza contare i rimedii o i temperamenti o i conforti che recano ai mali cagionati da altri e da loro medesimi, i principii che mantengono per merito della istituzione; principii che aiutano a riprovare gli abusi commessi e lasciati commettere e da altri e da loro. Maometto, per creare un popolo, cuce alla sua foggia un vangelo: il Voltaire cita autori ecclesiastici alla sua leggiera maniera, e gli giova essere stato allievo de’ Gesuiti: Lutero è teologo alla tedesca anche troppo: Enrico VIII s’affaccenda a teologizzare e a dar faccende al carnefice: l’imperatore di Russia, l’imperatore di Germania ringiovanito nel suo travestimento da Cesare, dell’essere papi sentono la necessità e l’appetito. E se Napoleone I studiava il jus canonico quanto ne studiò Giulio Cesare, meno spropositi certamente faceva: perchè non nocque a lui tanto il passaggio de’ fiumi ghiacciati di Russia, quanto l’aver voluto del Tevere fare una riviera di Francia.

N. Tommaseo.               


Note

  1. Più netto ne’ traduttori il costrutto, preponendo l’inciso del flamine, acciocchè quel che concerne la donna, venga tutto di filo. Designato più proprio che eletto: sebbene anco tra designato e destinato facessesi differenza, che più solenne era il primo; e qui non era proprio la pubblica autorità che facesse flamine Cesare. Più storico flamine. Ricca grandemente, più pesante che molto. Gli era stata sposata, meglio che si era: così giovinetto sarebbe forma italiana più evidente, a lui giovinetto, più spedita, e forse più vera, giacchè può essere che prima ancora di quella età gliel’avessero promessa i parenti. L’anno, più spedito che nell’anno, e non bene chiaro; ma l’avere partito un periodo in due, toglie quel collegamento li fatti che forse Svetonio aveva in mente, e ritraeva dal vero de’ fatti stessi. Prese a noi più vivo di tolse; figliuola più toscano di figlia: ch’era stato potevasi omettere: Console poteva dire il traduttore moderno: ma vive tuttavia l’arciconsolo della Crusca, che rammenta l'archiflamen latino. Ond’ebbe Giulia, è più chiaro e più vivo: Manca il mox al moderno. Gli nacque è più fedele e più affettuoso, e diventa nuova ragione perchè Cesare non la voglia ripudiare. Il resto dal Fiorentino è disinvoltamente tradotto: ma non vi fu ordine è più popolare che proprio. A ripudiarla, così collocato, s’attiene al costrutto del testo; e anche questa è fedeltà da vare, potendo: ma invece di dire che Cesare non potè essere costretto da Silla, in lingua nostra mi parrebbe di dire nè a ripudiarla potette in alcuna maniera Silla dittatore sforzarlo. Trattandosi dello staccare persona da persona, il costringere non mi offre immagine appropriata. Per modo è locuzione non morta; ma in modo è più viva a noi; e giova posporre il nome . com’è nel latino. Maniera etimologicamente qui mi parrebbe più proprio di modo, che presenta immagine d’azione moderata; sebbene dicasi modi bruschi, violenti. Il quale era dittatore, larghezza inutile: e accortamente il signor Buggiani pospone il nome al titolo, che Svetonio poteva nella sua lingua premettere. Seguitino gli studiosi da sè il paragone.