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Ars et Labor, 1906/N. 5/Movimento politico estero

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N. 5 - Maggio N. 5 - Amor condusse noi ad una morte

[p. 436 modifica]Immagine dal testo cartaceo Come una enorme parentesi della natura furibonda, ha testé paralizzato il movimento politico del mondo civile. La chiusura pacifica della Conferenza di Algesiras è stata sopraffatta dalla impressione spaventosa della eruzione del Vesuvio. La obliterazione del fantasma d’una guerra eventuale franco-tedesca per la relativa preponderanza nel Marocco, è passata in seconda linea, causa la immane catastrofe di Ottaiano e d’altre terre circumveseviche. Una sola, tra le più eccelse e più discusse personalità del mondo moderno, ci fu la quale abbia — sull’abbinamento del concluso d’Algesiras e delle furie del Vulcano partenopeo — trovato — nè con mano felice! — fissato, ed espresso il tema delle sue lamentele. Guglielmo II, imperatore di Germania, non si è arrestato a mandare le sue felicitazioni solenni all’alleata Austria, per quanto essa fece a prò della Germania, nel convegno internazionale, testé scioltosi sulle Cantabre prode — felicitazioni che avevano per obbiettivo diretto una somma di objurgazioni e di rimproveri contro l’altra alleata — presunta infedele — cioè l’Italia: ma, per girandò finale, Guglielmo II si fece uno speciale dovere, di non accorrere — come fu sempre costume suo — in aiuto confortatore pronto, di parole e di opere — dell’Italia, abbattuta dalla tremenda sventura. Ma per contrario, si indugiò nella più ostentata inerzia nei rapporti della sua ufficiale ed effettiva misericordia. E così avvenne che il capo della Germania ed il suo governo, furono gli ultimi fra i Potentati e le Cancellerie di Europa — affermanti la loro solidarietà nel lutto con noi. E quando da ogni grado del meridiano, al di qua e al di là della linea, i compianti e gli ausilii morali e materiali pervenivano, in frotta, alla patria nostra — dove il flagello della lava spremeva e spreme nuove lagrime, mentre non ancora sono rasciugate quelle sparse dalle disgraziate Calabrie pervase dalle tetaniche convulsioni dell’ultimo terremoto.

Ebbene — unico — solitario — l’imperiale marchese del Brandeburgo — tacque fra il coro dei dolenti cosmopoliti. Ed a noi italiani, ascrisse a colpa di lesa alleanza, il contegno del nostro illustre patriota e delegato Emilio Visconti-Venosta, che con senno pari all’altezza del compito suo, lavorò all’interesse della pace universale e degli interessi nostri nel bacino del Mediterraneo. Tacque Guglielmo II, il vecchio e sentimentale amico nostro, mentre da dovunque ci arrivava l’eco dolce e benedetta dell’unanime cordoglio. Tacque — e solo tardivamente e con serotino intervento, fece udire la parola del suo governo, acaccompagnata da una regolamentare offerta. E fra noi, dall’Alpe ai due mari, fu doloroso lo stupore che ne sorse. E non si capì — perchè non lo si poteva — codesta fusione, o confusione, della politica coll’umanesimo. E ci toccò sostenere l’impeto — non equo — di buona parte della stampa tedesca, che romanzescamente inventò un casus foederis — dove nemmeno ne esisteva l’ombra — e quasi denunciava la fine della “Triplice„ — accusandoci, con una leggerezza punto germanica, d’esserci, noi italiani, sottratti in Algesiras, ai nostri obblighi di firmatarii del Trattato di Berlino!...

Certo è che a quest’ora — tanto in Italia quanto in Allemagna, la calma va rientrando negli spiriti commossi. Il buon senso riprende i suoi diritti. Le nubi sparvero.

Spariranno anche le nubecole. E Guglielmo II sarà il primo a comprendere di avere trasbordato dai confini di una acredine, sino ad un certo punto, spiegabile. La flogosi dell’anima sua eccitabilissima, a quest’ora avrà ceduto di fronte alla giusta valutazione di ciò che è positivo. E se i reliquati di codesta agitazione infondata esigeranno ancora un certo tempo prima di essere completamente dimenticati — non per questo si può affermare che l’atmosfera sia ritornata limpida e serena come sempre fu. Per fortuna che l’Italia, il suo re, il suo popolo ed il governo battono la strada maestra dell’onestà e del dovere. E tengono e terranno scrupolosamente fede ai loro patti ed ai loro impegni. Ed il tempo, che è un gran galantuomo, proverà una volta di più al Sire di Hohenzollern, che la fede italica, nulla ha di comune colla punica fides, che Roma gloriosa rimproverava duemila anni fa a Cartagine emula sua...

È — ripeto — la natura bruta, che nel dolce aprile — si sovrappone - terrificante tiranna — alla politica militante. — Sono difatti grida di dolore, quelle che risuonano dai grandi bacini minerari della Francia industriale. Gli orrori di Courrières e quelli di Lens, hanno prodotti i fatti di Lorient, di Valenciennes e di Havelhruy. La lotta — una autentica lotta a coltello - oramai è dichiarata fra il Governo democratico e il proletariato operaio, il quale predica ed eseguisce la resistenza ad oltranza ad ogni iniziativa conciliazionista avanzata dal governo. Sventuratamente, in Francia, come un po’ dovunque, gli energumeni dell’anarchia, gli epilettici del sindacalismo, i catastrofici della rivoluzione, non vogliono comprendere che in qualunque consorzio di vita civile in comune, non può mancare l’ente collettivo, il quale si giova del consenso di tutti i cittadini, per la organizzazione dei diritti e dei doveri della libertà generale. Quella gente non capisce null’altro che la violenza. — La barricata e la strage. Ma ciò è oggi del Feuerbach e del Fourrier — in arretrato di cinquant’anni. — La violenza e l’assurdo non sono che piaghe transitorie. La catalessi è di sua natura, limitata a puri e brevi accessi. Per l’abito suo psicologico, la Francia ha sempre avute dolorose predisposizioni a cosifatti attacchi. Ma nemmeno per questo bisogna disperare. E se, da un lato, è supponibile che il logico periodo di reazione, sarà l’effetto immediato di codeste folli escandescenze, dall’altro lato si può stare a buona fidanza che dopo trentasei anni di esistenza altrettanto agitata, quanto vigorosa, la Republica Transalpina vincerà anche questa prova: e “Marianna„ trionferà anche de’ suoi avversari coalizzati, un’altra volta: e senza scosse, senza cataclismi, e sopratutto senza reazioni forzate che la costringano a dar “macchina indietro„ continuerà a rappresentare la sua parte di governo stabile, ed evoluto — senza correre dietro a chimere irraggiungibili.

Comunque — dicevamo — anche le esplosioni sanguinose del proletariato francese, passano in seconda ed in terza linea, in cospetto della suprema jattura che ha testé distrutto San Francisco di California. L’altro giorno la metropoli della costa del Pacifico, ha visto, sull’alba prima, [p. 437 modifica]saltabeccare, sprofondare, rialzarsi e, riscomparire migliaia di case. Tre minuti di insurrezione tellurica. Le grandi vie di S. Francisco apparvero come la superficie di un mare in tempesta, per la fluttuazione repentina dei cavalloni. Una increspazione, una oscillazione, un brivido del suolo, dalle viscere ime: e l’istantaneo sfacelo, il catafascio, la rovina, il crollo di intiere regioni: tutto un popolo, sorpreso nel sonno dell’alba, dall’orrendo intervento della calamità irreparabile. E lo schiacciamento sotto le macerie, delle moltitudini: e la fuga disperata dei pochi, seminudi, e balzati, ancora in tempo, dal letto, all’aperto. E — come se tutto questo non bastasse — la propagazione d’un incendio indomabile da un punto all’altro di quella metropoli di quattrocentomila abitanti: incendio alimentato dalla combustione divampante delle case lignee dei quartieri popolari alle abitazioni dei miliardarii nella regione signorile. Ed infine - San Francisco di California — rapidissimamente e miracolosamente sorto da settanta a ottant’anni — oggi nel giro di pochi minuti, distrutto per quattro quinti... Un eccidio, un disastro, una sventura, appetto della quale impallidiscono persino le miserande rimembranze del classico terremoto di Lisbona, descritto dalla mirabile penna di Giuseppe Baretti.

Ciò posto, si comprende come questo nostro "Movimento politico estero» in Ars et Labor, sia condotto nella strana ed inaudita necessità di subordinare il suo riassunto psicologico-morale del mese alla preponderanza violenta, brutale, e di carattere esclusivamente fisico, dei fenomeni tellurici. E la rivista politica condannata a scomparire sotto l’agitazione degli apparati sismografici. È Parigi attonita, che è distratta dalle impressioni pei fatti anarcoidi di Lievins, vedendo calare sulla Senna il pulviscolo della cenere del Vesuvio. E l’illustre scolopio Alfani che, mentre nella capitale della California il terremoto “fa ballare„ e sparire trentamila case, constata che gli apparati del suo Osservatorio di Firenze, indicano, con una raccapricciante unanimità rivelatrice, il fenomeno d’oltre Atlantico, onde la umanità intiera freme atterrita e commossa....

Gli scienziati si curvano sui volumi eterni. Chi attribuisce il cataclisma allo spostamento dell’asse della terra. Chi invece dà per dimostrato che si tratta d’una enorme fessura — d’una spaccatura anzi — prodottasi al centro di questo pianeta sublunare. Gli apostoli della telepatia e delle scienze occulte si fanno un preciso dovere di giurare e sacramentare che tutto era stato presagito, presentito, preveduto e preindicato dai vaticinii delle moderne sibille e dagli oroscopi dei maghi contemporanei...

Ma, al postutto, ben misera soddisfazione è codesta. E di ben poco debbono gli intellettuali contentarsi. Infatti l’ammissione o l’esclusione d’una causale determinante lo spaventevole evento non basta a compensare l’anima collettiva dell’universo — costretto a registrare ecatombi ed ecatombi di vittime....

Mentre sulle penne dei fantasiosi cronisti vola la indicazione di una "Quadruplice„ alleanza, la quale serrerebbe in un atteggiamento futuro di difesa e di offesa, l’Inghilterra, la Francia, l’Italia e la Spagna — le quali così fronteggierebbero in un avvenire, non ancora delineato, la pretesa "Duplice„ dello indomani — dell’Austria cioè e della Germania — bisogna pur convenire che sia al nord, sia nel fervido mezzogiorno d’Europa — l’orizzonte politico non si presenta completamente sereno.

Intanto — lo stato quasi comatoso dello spirito pubblico in Russia, è tutt’altro che rassicurante per la “costituzionalizzazione„ della leggendaria autocrazia. Non occupandoci intanto degli aneddoti sanguinosi rifiorenti qua e là, e dei quali è costante caratteristica, la soppressione a colpi di rivoltella di agenti polizieschi, la cui crudeltà li ha segnalati all’odio ed alla esecrazione di tutti — osserveremo soltanto che anche nel grande conflitto elettorale, attualmente in azione per le nomine alla Duma — il sentimento autentico del popolo moscovita, non ha peranco saputo prendere con energia risoluta la sua marcia ascensionale. Evidentemente i cento popoli costituenti il vasto impero dei Romanov, sono ancora ben lontani da quel lavorio di preparazione politica - sia pure rudimentale - che inesorabilmente necessita ad una gente, cui i destini traggono dall’ombra della morte - che è il passato — verso la lucedel futuro — che è la vita. E ne avviene per corollario inevitabile, che per un grande e lungo periodo d’anni, la Russia parlamentare continuerà ad essere un semplice desiderio.

E senza contare che la complicazione della questione economico-agricolo-operaia — scaldata perennemente a bianco dalle fiamme del nikilismo - cui nessun Loris Melikoff e nessuna "Terza Sezione di Polizia„ arrivaron mai, in trent’anni di repressione, a domare — aggrava la situazione al punto, da impensierire seriissimamente i calmi e spassionati osservatori degli eventi moderni. E, per quanto concerne i destini della ciclopica e colossale aggregazione di razze - e che non è più la "Santa Russia„ del passato — riescirà penosa e fallace qualsiasi profezia. Perocché — specialmente dopo la catalessi — teste attraversata dalla patria di Niccolò II, e di Pobiedonosew — ultimo rudere del rovinante Santo Sinodo — la Wehème contemporanea della razza Bojara - non havvi più nulla e nessuno che possa garantire la continuità delle aspirazioni di centotrentatre milioni di uomini — alla realizzazione, ormai dileguatasi per sempre — del famoso Testamento di Pietro il Grande.

E — come nel nord — la irrequietudine è irrefrenabile, anche al centro, ed anche al sud del vecchio Continente. Al centro — dico. Ed infatti, nella Penisola Balcanica, e più specialmente in Serbia, c’è re Pietro, il quale sente configgerglisi in fronte le spine della corona da lui raccolta dal capo sanguinante del massacrato re Alessandro Obrenovic. Re, Governo, Parlamento sono messi in croce dalla eterna questione riferentesi alla condizione fatta agli ufficiali regicidi. La pubblica coscienza li insegue. L’esercito li respinge. Al Konak reale, la corona ha le mani legate. Ahimè! sulla Drina, l’orizzonte è assai cupo, assai tempestoso. E forse l’uragano è imminente....

Al sud — finalmente. Cioè l’ammutinamento parziale di qualche equipaggio della marineria militare - in Portogallo.

Per verità — nulla di enormemente grave. Ma gravissimo è il sintomo. Re Carlos I può, volendolo seriamente — scongiurare la bufera. Rammenti i nobili esempi paterni di Don Luigi. Imiti le coraggiose opere dell’augusta madre sua, Maria Pia di Savoia...

E sopra tutto, non dimentichi che nelle sue arterie scorre ancora il sangue di colui che ebbe nome di Vittorio Emanuele II - il “Re Galantuomo„.

F. Giarelli.


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