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Breve storia dei rumeni/Capitolo primo

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Capitolo primo

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Breve storia dei rumeni Capitolo secondo

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CAPITOLO PRIMO

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Numero ed importanza dei Rumeni.
La loro origine. — Consanguineità cogli Italiani.
Guerre di Traiano. — Sottomissione della Dacia.
Romani e barbari nella nuova provincia.

I. I Rumeni, di cui il vero e proprio nome è quello di Romani ovvero Rumani (Români, Rumâni; la prima forma si ritrova anche là dove non si può ammetter’ un’ influenza letteraria), sono il popolo più numeroso dell’Europa orientale. Il numero degli abitanti rumeni del reame di Romania ( România) è di oltre 5.000.000; gli stranieri: Ebrei, che parlano un dialetto tedesco, in primo rango, poi Zingari, per lo più già assimilati; Tedeschi, che si assimilano facilmente, e gli antichi o nuovi coloni ungheresi, tutti contadini, nei distretti di Bacău e Roman, rappresentano tutti insieme presso che 600.000 anime. La Transilvania ungherese, poi tutta la regione che si estende fino al fiume Tisa (germ.: Theiss) e la fortezza naturale delle montagne del Maramurăş (ungh.: Maramoros), contengono 3.000.000 Rumeni che conservano intemerato il loro carattere [p. 4 modifica] nazionale. La Bucovina austriaca, annessa nel 1775 con un semplice spostamento di frontiera nel tempo in cui i Principati erano sotto la suzeranità turca, conta ancora, malgrado le colonisazioni iniziate dal Governo imperiale (Tedeschi, Lipovani e specialmente Russi, Ruteni, del paese vicino, la Gallizia), 2-300.000 abitanti rumeni. La Bassarabia, che diventò provincia russa soltanto nel 1812 col trattato di Bucarest tra lo Zar Alessandro I ed il Sultano, è rimasta paese rumeno: più di 1.000.000 di contadini parlano ancora l’idioma patrio; colonie rumene tratte da questo paese si sono estese fino al fiume Dniepr, senza mentovare quei poveri esuli che la politica disnazionalisatrice portò, adescandoli con offerte di terre e privilegi, fino al Caucaso e fino alla frontiera cinese. Al di là del Danubio, forse 200.000 Rumeni vivono nello Stato serbo, presso ai fiumi Timoc e Morava; un numero inferiore trovò, nello stesso secolo XVIII°, terreni arabili in condizioni favorevoli sul lido bulgaro e vi si mantennero. I Rumeni della Macedonia, dell’Epiro, della Tessalia, gli Aromâni del Pindo (una parte soltanto riconosce questo nome distintivo, lo stesso che quello di Români, con quel a iniziale che si aggiungeva spesso a certe parole nell’antico idioma rumeno; mà altri non conoscono che questo nome: Români) — , pastori ed anche abitanti dei borghi e delle città di queste contrade, di cui qualcheduna appartiene loro in proprio (come fù già Moscopoli o Voscopolis, oggi Cruşova ecc.), [p. 5 modifica] sono stati diversamente valutati, secondo le preoccupazioni nazionali dei viaggiatori, scrittori politici ed anche scienziati: il numero di 300.000 anime si può ammettere senza incorrer sbaglio.

Così dunque i Rumeni sarebbero oggi una nazione di 11.000.000 anime, spartiti fra sette Stati, ma avendo tutti la stessa cultura e nutrendo le stesse speranze.

2. I Rumeni sono, coi Greci, la nazione più antica in questo versante sudostico dell’Europa. I loro primi antenati furono i Traci ed Illiri, popolazione aborigene della Penisola Balcanica e dei Carpati, dove i Sarmati transilvanici soli, che contenevano elementi slavi, rappresentavano, in numero inferiore, una razza straniera. Gli Illiri, pastori e pirati, tenevano il lido adriatico, e Roma dovette combatter una lotta difficile per vincere la resistenza accanita dei rè illirici, Teuta, Agron ecc., ed assicurare ai suoi coloni italici pace e prosperità. I Traci abitavano i Carpati e le pianure rumene, ambedue le sponde del Danubio, la Mesia intiera fino all’Emo, le convalli di queste montagne e del Rodope, estendendosi fino alle città elleniche del Ponto Eussino e del Mar Egeo; qualche schiera cercò nuovi pascoli per le sue greggi fino nell’Asia Minore, dove ritrovò le stesse condizioni naturali. Dagli Illiri e dai Traci ereditarono i Rumeni la più gran parte della loro cultura ed arte populare, l’importanza della quale appena incomincia ad esser apprezzata. [p. 6 modifica]3. Consanguinee degli Illiri erano le popolazioni indigene sul lido italico dell’Adriatico. Gli antenati degli odierni Veneziani, i Veneti di Erodoto, erano Illiri, benché indubbiamente mescolati ai Celti, di cui l’avanguardia era arrivata fino al Mare. I «pelasgi» Istri erano dello stesso sangue che i Liburni, Dalmati, Dardani, Veneti ed altre illiriche nazioni, con qualche contributo di sangue tracico. Gli Istri antichi erano anche abitanti delle sponde del Danubio superiore, fiume tutelare del popolo rumeno.

4. La colonisazione italica nel Pindo e nel Balcano deve risalire fino all’epoca della Repubblica. Per far che Illiri e Traci perdessero totalmente la loro lingua — con eccezzione degli Albanesi, Illiri che parlavano un idioma traco e di cui la lingua contiene tanti elementi latini -, occorreva un’infiltrazione permanente di elementi italici più numerosi aventi lo stesso modo di vivere che le nazioni che dovevano in qualche tempo assimilare. Contadini italici in cerca di campi nuovi ed estesi, di più facili condizioni d’esistenza contribuirono nel corso dei secoli a creare quella Romania orientale, che l’Impero conquistatore doveva poi sottomettere ed annettere alle sue provincie.

5. Tra le genti traciche, i Geti danubiani signoreggiavano già nel secolo quarto prima di Cristo. Alessandro Magno passò il Danubio per punir le [p. 7 modifica] loro scorrerie audaci. Il paese gotico si stendeva piuttosto verso le bocche del fiume, dove si fermarono poi i germanici Bastarni. Un’altro ramo dei Traci, i Daci, che abitavano le montagne dell’angolo transilvanico, intorno al moderno Haezeg, dove si ergevano le mura della loro Capitale Sarmisagetusa, presero nel primo secolo dell’era cristiana la condotta delle invasioni traciche. Uno dei loro rè, Boirebista ( Burobostes) dominava fino al Mar Nero, e le città elleniche del littorale gli pagavano tributo. Il suo successore Decebalo continuò il sistema delle incursioni nel territorio che per l’annessione del reame tracico era diventato romano. Domiziano cercò di sottometterlo senza riuscirvi: Oppio Sabino, poi Cornelio Fusco perdettero i Traiano, loro soldati nelle gole delle montagne daciche; Giuliano, terzo commandante dell’offensiva romana, vinse presso a Tapae, nel Banato attuale, ed arrivò fino a quel passo delle montagne che dava ingresso nella Transilvania vestica verso [p. 8 modifica] Sarmisagetusa. L’imperatore vanitoso ed indolente sperava poter distruggere questo pericoloso reame barbaro, ma l’inimicizia dei Quadi e dei Marcomani lo costrinse ad impiegar altrove i suoi eserciti. Decebalo diventò nondimeno un federato dei Romani, e ricevette in cambio stipendi annui e la permissione di cercar nelle provincie vicine quei ingegneri che gli erano necessari per fortificar la sua situazione militare.

6. Traiano volle compire quel che non era successo al suo predecessore. Nel principio dell’anno 101, cominciò la guerra che non doveva cessare fino al soggiogamento completo di questi audacissimi fra i barbari del confine. I legionari partirono da Viminacio e la via traiana sulla sponda sinistra del Danubio fù in breve terminata colla man d’opera dell’esercito romano; fin oggi si conserva la lapide commemorativa in cui Traiano volle eternare l’opera civilizzatrice compiuta. Le traccie di Giuliano furono poi seguite, non senza perdite continue ed essenziali cagionate dai dacici «guerilleros».

La Colonna Traiana mostra ancora le scene di quest’invasione difficile in paese sconosciuto che difendeva un’intiera nazione di guerrieri. Nell’anno 102 i Romani tornarono, e Decebalo credette dover offrir la sua menzognera sottomissione, che fù accettata. Gl’ingegneri romani furono restituiti, le fortificazioni dovevano esser distrutte; Decebalo, che si presentò in persona [p. 9 modifica] [p. 10 modifica] davanti al vincitore, si obligava a romper le sue alleanze con i Sarmati e Germani, ed a seguir le indicazioni politiche dell’Imperatore; numerosi legionari sarebbero rimasti per sorvegliarlo, ed in Sarmisagetusa stessa entrò un presidio romano.

Ma in breve Decebalo era già come prima padrone del suo paese, alleato delle nazioni circonvicine, irreconciliabile nemico della romana prepotenza. Una nuova guerra doveva punir la sua disubbidienza. Questa volta Traiano mostrò fin dai primi passi l’intenzione di non prestar più fede ai giuramenti del rè barbaro. Da Ancona salparono le navi che portavano numerosi guerrieri, e l’arco di triomfo con cui questa città italica si gloria fin oggi, fù elevato a commemorar il principio della grande impresa. Apollodoro di Damasco costruì sul Danubio il splendido ponte di pietra, di cui si vedono ancora, al ribassar delle acque, i vestigi, dinanzi alla città rumena di Turnu-Severin. Questa volta, invece di seguir la via finora scelta, ci s’incamminò per le valli della regione presso al fiume Olt: i Carpati furono varcati pel passo di Vîlcan o quello della Torre Rossa. Decebalo non potè più difendersi in paludi e boschi: Sarmisagetusa stessa fù cinta dai nemici. I primati del popolo dacico perirono nelle lotte o si diedero stessi la morte; il cadavere del rè e dei suoi due figliuoli fù ritrovato dai vincitori che avevano fatto andar in fiamme la Capitale dei bravi barbari; anch’essi non avevano aspettato il ferro dei legionari per [p. 11 modifica] trovar in un’altro mondo, nella cui esistenza credevano entusiasticamente questi seguaci di una nobile religione che predicava il dogma dell’immortalità, la libertà che non potevano più goder in questo.

Così diventò ’l paese dei Daci nell’anno 106 dell’era cristiana provincia romana. Un tentativo degli alleati di Decebalo, Rossolani ed altri popoli vicini, di scacciar gli usurpatori, non poteva riuscire, e, mentre si scolpivano a Roma dai primi maestri del tempo le scene di quella Colonna che conserva ancora in ritratti, atteggiamenti e moti la storia della guerra dacica, mani meno avezze ergevano nella Scitia Minore, presso a quel Ponto, in vista al quale, sotto Augusto Cesare, Ovidio aveva pianto, a Tomis, tra rozzi Sarmati e donne barbare le splendori perdute di Roma, quel monumento commemorativo del Tropaeum che supplisce alla conoscenza dei vinti.

7. «Dopo aver sottomesso la Dacia», scrive l’abbreviatore Eutropio, «Traiano vi traspose per coltivarne i campi ed erger città, un’infinità di coloni, presi da tutto l’Imperio». Molti Daci erano morti nella lotta disperata oramai finita; altri giravano raminghi nei contorni della nuova provincia. Per supplire alla penuria di abitanti ed anco per dar alla Dacia romana quel carattere necessario di più alta civiltà, furono attratti tutti quei Romani di nazionalità e patria diversa. Le miniere d’oro ed argento che nei monti di [p. 12 modifica] Transilvania avevano conosciuto e lavorato anche i sarmatici Agatirsi, che Erodoto mentovava come barbari ricchi e fastuosi, guadagnarono al territorio conquistato da Traiano numerosi avventurieri. Le iscrizioni contengono nomi di Asiatici, di Egizii, di Galli; gli Italiani dovettero esser pochi in quel tempo in cui l’Italia stessa riceveva tanti stranieri nelle sue città e pareva dover perder il suo carattere nazionale. Dove prima erano state le «dave», i scarsi villaggi degli aborigeni, si ergevano ora le città di Ulpia Traiana, già Sarmisagetusa di Decebalo, di Potaissa, di Napoca, Porolissum, Ampela, Brucla, colle loro case di pietra, colle basiliche e terme, colle vie larghe e piazze spaziose.

Ma la maggior parte dei nuovi abitanti erano senza dubio quei Traci ed Illiri romanizzati del Pindo e dell’Emo che portavano seco una nuova forma dell’idioma latino volgare. In quei cento cinquanta anni che la dominazione romana si mantenne sulla riva sinistra del Danubio, è impossibile che questa popolazione variegata, la quale conteneva presso che soltanto cittadini e che spesso, dopo essersi arricchita, abbandonava la provincia, avesse formato una nuova nazione romanica; anche le legioni che difendevano l’opera di Traiano, la XIII gemina, e più tardi anche una delle legioni macedoniche, non potevano, qui come altrove, pel mezzo della colonisazione dei veterani il di cui nome è’l rumenico «bătrîn», vecchio; mentre [p. 13 modifica] «vechiu» significa soltanto «antico» — e dello stabilimento nelle «canabae», produr un popolo intiero che frà le più violenti procelle doveva vivere e svilupparsi, rappresentando hoggi l’elemento etnografico e culturale più importante dell’Europa sud-ostica. Nell’Illirico, nella Tracia, per l’influsso lento delle immigrazioni italiche al di là dell’Adria, in quel largo territorio che da secoli prendeva ogni giorno più il carattere romano, questo popolo neo-latino si era già formato, sostituendo l’individualità sua all’individualità nazionale degli aborigeni che nell’epoca di Traiano erano già spariti, ad eccezione di quei energici Daci, ultimi rappresentanti della tracica independenza guerriera.

8. Già nel secolo terzo i Goti avevano occupato una gran parte del territorio dacico. Lo sforzo fatto da [p. 14 modifica] Marco-Aurelio per impedir il gran movimento irresistibile della razza germanica verso le provincie del suo Impero fu vano. Questi Goti federati, sempre pronti a ribellarsi per estender la loro dominazione o per arricchirsi colla preda dei territori vicini, diedero in quel tempo un’Imperatore nella persona di Massimino, nato «ai confini tracici», da barbari parenti. Decio cadde in una lotta coi nuovi nemici di Roma, sulle sponde del Danubio. Verso l’anno 271 Aureliano prese finalmente la risoluzione disperata di abbandonar le «tre Dacie» che Roma non poteva più difender effettivamente. Una nuova Dacia, l’Aureliana, fù stabilita sulla riva destra del fiume e ricevette l’intiero apparato amministrativo e militare. Mà i coloni dacici, già avvezzi a questa «barbarie» sempre più civile, che rassomigliava alla loro decadente civiltà, questi contadini e pastori che discendevano dai cittadini del tempo di Traiano ed Adriano, rimasero nella loro dacica eredità. Tra gli abitanti delle due rive non si osservava differenza alcuna: soltanto nell’antica Dacia, dove i gotici alleati dominavano secondo i trattati conchiusi coll’Impero, quest’Impero non esisteva più. Ma Romani per lingua, per cultura sussistevano ancora e si assimilavano sempre più le nazioni immigrate: prima germaniche, poi slave.

9. Nel secolo sesto numerosi Slavi abitavano al Nord del Danubio e scesero poi in quella Dacia Aureliana che aveva già ricevuto i Goti di Atanarico e [p. 15 modifica] Fridigerno, cristiani proseliti del vescovo Ulfila, traduttore germanico della Biblia, ed in Novae (oggi il Sviŝtov bulgarico) Teodorico stesso, che doveva esser rè italico ed emulo degli imperatori romani. Elementi germanici non ricevette l’idioma latino dei Rumeni; è ben vero che tanti elementi slavi furono adottati, anche per concetti essenziali, ma il loro gran numero non deve indur a false conseguenze. Gran parte di questi termini concerne soltanto certe innovazioni nella vita rurale od urbana e si devono anche all’influenza dei mercanti slavi che presero nelle città sulla riva destra del Danubio il posto dei mercanti latini e greci. Altre parole hanno il loro corrispondente latino; tante altre non s’incontrano che in certi territori. Le membra del corpo umano, il medio naturale, l’abbitazione, le prime occupazioni del contadino e del pastore, le sensazioni, i numeri, ecc., si esprimono quasi esclusivamente con parole latine. La fonetica, la flessione sono rimaste latine, e nella sintassi quel che noir appartiene al patrimonio latino non è importazione slava, ma presso che sempre eredità tracica.

10. I Slavi pannonici snazionalisarono la popolazione latina nella Dalmazia, ad eccezione di quei pochi abitanti di antichissima origine che conservarono fino nel secolo scorso la lingua già condannata a morte del romanico adriatico. I Slavi dei Carpati trovarono poi nella Mesia la loro patria e fecero sparir in questo territorio anche gli [p. 16 modifica] ultimi resti della popolazione aborigene, traco-italica, conservandone soltanto qualche reminiscenza nella lingua e nel tipo antropologico, che indubbiamente nei Bulgari attuali non è nè slavo, e ancora meno turanico (i Bulgari che dominarono poi i Slavi mesici e loro imposero il proprio nome, erano venuti dal Volga). Così la Dacia di Traiano e la regione interna della penisola balcanica, le convalli del Pindo, che nascondevano anche gli avanzi degli Illiri indipendenti, gli Albanesi, e la Tessalia, rimasero l’ultimo recettacolo dei Rumeni. Le razzie dell’unnico rè Attila (secolo quinto) e quelle dei suoi avarici successori (secoli sesto — ottavo) nel paese romano al dilà del Danubio contribuirono essenzialmente ad accrescer il numero dei Romani che abitavano nei Carpati e nelle pianure vicine. L’invasione dei Magiari (Ungheresi) restrinse all’Ovest le abitazioni dei Rumeni, e l’estensione dei Russi nelle regioni superiori del Prut e del Seret rapirono al territorio romanico alcune regioni che furono poi riprese nel tempo di più tarda estensione (secoli 12 e 13).

11. Anche più tardi la Dacia mesica era in strette relazioni coll’Illirico e faceva parte del complesso di paesi latini riuniti alle provincie dell’Impero d’Occidente. Il cristianesimo dacico, di antichissima origine, era sotto la sorveglianza di Roma. La lingua stessa si sviluppava sotto l’influsso degl’idiomi occidentali. Dopo la conquista slavica tutte quelle relazioni furono interrotte. La [p. 17 modifica] romanità orientale rimase avvisata a se stessa, ed è presso che un miracolo che abbia potuto mantenersi, immersa com’era tra Slavi ed appartenente al mondo politico bizantino che rappresentava già nel secolo sesto l’amministrazione e la chiesa greca.