Canti (Leopardi - Donati)/XVII. Consalvo

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XVII
Consalvo

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XVII


CONSALVO


     Presso alla fin di sua dimora in terra
giacea Consalvo; disdegnoso un tempo
del suo destino; or giá non piú, ché, a mezzo
il quinto lustro, gli pendea sul capo
5il sospirato obblio. Qual da gran tempo,
cosí giacea nel funeral suo giorno
dai piú diletti amici abbandonato:
ch’amico in terra al lungo andar nessuno
resta a colui che della terra è schivo.
10Pur gli era al fianco, da pietá condotta
a consolare il suo deserto stato,
quella che sola e sempre eragli a mente,
per divina beltá famosa Elvira;
conscia del suo poter, conscia che un guardo
15suo lieto, un detto d’alcun dolce asperso,
ben mille volte ripetuto e mille
nel costante pensier, sostegno e cibo
esser solea dell’infelice amante:
benché nulla d’amor parola udita
20avess’ella da lui. Sempre in quell’alma
era del gran desio stato piú forte
un sovrano timor. Cosí l’avea
fatto schiavo e fanciullo il troppo amore.

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     Ma ruppe alfin la morte il nodo antico
25alla sua lingua. Poiché certi i segni
sentendo di quel dí che l’uom discioglie,
lei, giá mossa a partir, presa per mano,
e quella man bianchissima stringendo,
disse: — Tu parti, e l’ora omai ti sforza:
30Elvira, addio. Non ti vedrò, ch’io creda,
un’altra volta. Or dunque addio. Ti rendo
qual maggior grazia mai delle tue cure
dar possa il labbro mio. Premio daratti
chi può, se premio ai pii dal ciel si rende. —
35Impallidia la bella, e il petto anelo
udendo le si fea: ché sempre stringe
all’uomo il cor dogliosamente, ancora
ch’estranio sia, chi si diparte, e dice
addio per sempre. E contraddir voleva,
40dissimulando l’appressar del fato,
al moribondo. Ma il suo dir prevenne
quegli, e soggiunse: — Desiata, e molto,
come sai, ripregata a me discende,
non temuta, la morte; e lieto apparmi
45questo feral mio dí. Pesami, è vero,
che te perdo per sempre. Oimè! per sempre
parto da te. Mi si divide il core
in questo dir. Piú non vedrò quegli occhi,
né la tua voce udrò! Dimmi: ma pria
50di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio
non vorrai tu donarmi? un bacio solo
in tutto il viver mio? Grazia ch’ei chiegga
non si nega a chi muor. Né giá vantarmi
potrò del dono, io semispento, a cui
55straniera man le labbra oggi fra poco
eternamente chiuderá. — Ciò detto
con un sospiro, all’adorata destra
le fredde labbra supplicando affisse.

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     Stette sospesa e pensierosa in atto
60la bellissima donna; e fiso il guardo,
di mille vezzi sfavillante, in quello
tenea dell’infelice, ove l’estrema
lacrima rilucea. Né dielle il core
di sprezzar la dimanda, e il mesto addio
65rinacerbir col niego; anzi la vinse
misericordia dei ben noti ardori.
E quel volto celeste, e quella bocca,
giá tanto desiata, e per molt’anni
argomento di sogno e di sospiro,
70dolcemente appressando al volto afflitto
e scolorato dal mortale affanno,
piú baci e piú, tutta benigna e in vista
d’alta pietá, su le convulse labbra
del trepido, rapito amante impresse.

     75Che divenisti allor? quali appariro
vita, morte, sventura agli occhi tuoi,
fuggitivo Consalvo? Egli la mano,
ch’ancor tenea, della diletta Elvira
postasi al cor, che gli ultimi battea
80palpiti della morte e dell’amore:
— Oh — disse — Elvira, Elvira mia! ben sono
in su la terra ancor; ben quelle labbra
fûr le tue labbra, e la tua mano io stringo!
Ahi! vision d’estinto, o sogno, o cosa
85incredibil mi par. Deh quanto, Elvira,
quanto debbo alla morte! Ascoso innanzi
non ti fu l’amor mio per alcun tempo;
non a te, non altrui; ché non si cela
vero amore alla terra. Assai palese
90agli atti, al volto sbigottito, agli occhi,
ti fu: ma non ai detti. Ancora e sempre
muto sarebbe l’infinito affetto
che governa il cor mio, se non l’avesse

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fatto ardito il morir. Morrò contento
95del mio destino omai, né piú mi dolgo
ch’aprii le luci al dí. Non vissi indarno,
poscia che quella bocca alla mia bocca
premer fu dato. Anzi felice estimo
la sorte mia. Due cose belle ha il mondo:
100amore e morte. All’una il ciel mi guida
in sul fior dell’etá; nell’altro, assai
fortunato mi tengo. Ah! se una volta,
solo una volta il lungo amor quieto
e pago avessi tu, fôra la terra
105fatta quindi per sempre un paradiso
ai cangiati occhi miei. Fin la vecchiezza,
l’abborrita vecchiezza, avrei sofferto
con riposato cor: ché a sostentarla
bastato sempre il rimembrar sarebbe
110d’un solo istante, e il dir: — Felice io fui
sovra tutti i felici. — Ahi! ma cotanto
esser beato non consente il cielo
a natura terrena. Amar tant’oltre
non è dato con gioia. E ben per patto
115in poter del carnefice ai flagelli,
alle ruote, alle faci ito volando
sarei dalle tue braccia; e ben disceso
nel paventato sempiterno scempio.

     O Elvira, Elvira, oh lui felice, oh sovra
120gl’immortali beato, a cui tu schiuda
il sorriso d’amor! felice appresso
chi per te sparga con la vita il sangue!
Lice, lice al mortal, non è giá sogno
come stimai gran tempo, ahi! lice in terra
125provar felicitá. Ciò seppi il giorno
che fiso io ti mirai. Ben per mia morte
questo m’accadde. E non però quel giorno
con certo cor giammai, fra tante ambasce,
quel fiero giorno biasimar sostenni.

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     130Or tu vivi beata, e il mondo abbella,
Elvira mia, col tuo sembiante. Alcuno
non l’amerá quant’io l’amai. Non nasce
un altrettale amor. Quanto, deh quanto
dal misero Consalvo in sí gran tempo
135chiamata fosti, e lamentata, e pianta!
Come al nome d’Elvira, in cor gelando,
impallidir; come tremar son uso
all’amaro calcar della tua soglia,
a quella voce angelica, all’aspetto
140di quella fronte, io ch’al morir non tremo!
Ma la lena e la vita or vengon meno
agli accenti d’amor. Passato è il tempo,
né questo di rimemorar m’è dato.
Elvira, addio. Con la vital favilla
145la tua diletta immagine si parte
dal mio cor finalmente. Addio. Se grave
non ti fu quest’affetto, al mio ferètro
dimani all’annottar manda un sospiro. —

     Tacque: né molto andò, che a lui col suono
150mancò lo spirto; e innanzi sera il primo
suo dí felice gli fuggía dal guardo.