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Canti di Castelvecchio/Canti di Castelvecchio/Il ciocco

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Il ciocco

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Canti di Castelvecchio - Il sole e la lucerna Canti di Castelvecchio - La tovaglia
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IL CIOCCO

canto primo


   Il babbo mise un gran ciocco di quercia
su la brace; i bicchieri avvinò; sparse
il goccino avanzato; e mescè piano
piano, perchè non croccolasse, il vino.
Ma, presa l’aria, egli mesceva andante.
E ciascuno ebbe in mano il suo bicchiere,
pieno, fuor che i ragazzi: essi, al bicchiere
materno, ognuno ne sentiva un dito.
Fecero muti i vegliatori il saggio,
lodando poi, parlando dei vizzati
buoni; ma poi passarono allo strino,
quindi all’annata trista e tribolata.
E le donne ripresero a filare,
con la rócca infilata nel pensiere:
tiravano, prillavano accoccavano
sfacendo, i gruppi a or a or coi denti.
Come quando nell’umida capanna
le magre manze mangiano, e via via,
soffiando nella bassa greppia vuota,
alzano il muso, e dalla rastrelliera
tirano fuori una boccata d’erba;

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d’erba lupina co’ suoi fiori rossi,
nel maggio indafarito, ma nel verno,
d’arida paglia e tenero guaime;
così dalla mannella, ogni momento,
nuova tiglia guidata era nel fuso.
   Io dissi: “Brucia la capanna a gente!„
E i vegliatori, col bicchiere in mano,
tutti volsero gli occhi alla finestra,
quasi a vedere il lustro della vampa,
ad ascoltare il martellare a fuoco,
ton ton ton, nella notte insonnolita.
Non c’era nella notte altro splendore
che di lontane costellazioni,
e non c’era altro suono di campana,
se non della campana delle nove,
che da Barga ripete al campagnolo:
- Dormi, che ti fa bono! bono! bono! -
Non capparone ardeva per le selve,
zeppo di fronde aspre dal tramontano;
non meta di vincigli di castagno,
fatti d’agosto per serbarli al verno;
non metato soletto in cui seccasse
a un fuoco dolce il dolce pan di legno:
sopra le cannaiole le castagne
cricchiano, e il rosso fuoco arde nel buio.
Al buio il rio mandava un gorgoglìo,
come s’uno ci fosse a succhiar l’acqua.
Tutto era pace: sotto ogni catasta
sornacchiava il suo ghiro rattrappito.
In cima al colle un nero metatello
fumava appena in mezzo alla Grand’Orsa.

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   Che bruciava?... La quercia, assai vissuta,
fu scalzata da molte opre, e fu svelta
e giacque morta. Ma la secca scorza,
all’acqua e al sole rifiorì di muschi
e un’altra vita brulicò nel legno
che intarmoliva: un popolo infinito
che ben sapeva l’ordine e la legge,
v’impresse i solchi di città ben fatte.
E chi faceva nuove case ai nuovi,
e chi per tempo rimettea la roba,
e chi dentro allevavali dolci figli,
e chi portava i cari morti fuori.
Quando s’udì l’ingorda sega un giorno
rodere rauca torno torno il tronco;
e il secco colpo rimbombò del mazzo
calato da un ansante ululo d’uomo.
E il tronco sodo ora spuntava fuori
la zeppola d’acciaio con uno sprillo,
or la pigliava, e si sentiva allora
crepare il legno frangolo, e stioccare
le stiglie or dalla gran forza strappate,
ora recise dalla liscia accetta:
lucida accetta che alzata a due mani
spaccava i ciocchi e ne facea le schiampe.
Le schiampe alcuno accatastò; poi altri
se le portò nella legnaia opaca.
Del popolo infinito era una gente
rimasta in un dei ciocchi. Ebbe l’accetta
molte case distrutte, ebbe d’un colpo
il mazzo molte sue tribù schicciate.
Ma i sorvissuti non sapean già nulla
chè, volgendo i lor mille anni in un anno,

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chi schivò l’ascia, chi campò dal mazzo,
l’ago sentì, che, dopo un po’ che cuce,
il Tempo, uggito, punta nel lavoro,
e se ne va. Nessuno ora sapeva
che il mondo loro fu congiunto al tutto
della gran quercia, sotto un cielo azzurro.
Sapeva ognuno che non c’era altr’aria
che quell’odor di mucido, altro suono
che il grave gracilar delle galline
e il sottile stridìo dei pipistrelli:
dei pipistrelli che pendeano a pigne
dai cantoni, nel giorno, quando il sole
facea passare i fili suoi tra i licci
d’una tela che ordiva un vecchio ragno.
Così passava la lor cauta vita
nell’odoroso tarmolo del ciocco:
e chi faceva nuove case ai nuovi.
e chi per tempo rimettea la roba,
e chi dentro allevava i dolci figli,
e chi portava i cari morti fuori.
   E videro l’incendio ora e la fine
i vegliatori: disse ognun la sua.
   E disse il Biondo, domator del ferro,
cui la verde Corsonna ama, e gli scende
cantando per le selve allo stendino,
e per lui picchia non veduta il maglio:
   “Vogliono dire ch’hanno tutti i ferri,
quanti con sè porta il bottaio, allora
ch’è preso a opra avanti la vendemmia:
l’aspro saracco, l’avido succhiello,
e tenaglie che azzeccano, e rugnare
di scabra raspa e scivolar di pialla.

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Che non hanno bottega: a giro vanno
come il nero magnano, quando passa
con quello scampanìo sopra il miccetto;
ossia concino, o fradicio ombrellaio,
voce del verno, la qual morde il cuore
a chi non fece le rimesse a tempo.
Né lëo lëo vanno, come loro.
Piglian le gambe e stradano, la vita,
come noi, strinta dal grembial di cuoio„
   E disse il Topo, portatore in collo,
primo, fuor che del Nero; sì, ma questi
porta più poco, e brontola incaschito:
— Carico piccolo è che scenta il bosco:-
   “Vogliono dire ch’han la tiglia soda
più che nimo altri che di mattinata
porti in monte il cavestro e la bardella.
E hanno l’arte, perchè intorno al peso
girano ora all’avanti ora all’indietro
or dalle parti, per entrarci sotto.
Se lo possono, via, telano; quando
non lo possono, vanno per aiuto
e su e su, per una carraiuola:
come una nera fila di muletti
di solitari carbonai, su l’Alpe,
che in quel silenzio semina i tintinni
de’ suoi sonagli. Alcuno ecco s’espone,
come anco noi, per ragionar con altri
che scende, e frescheggiare allo sciurino„
   E disse il Menno, vangatore a fondo,
a cui la terra, nell’aprir d’aprile,
rotta e domata ai piedi ansa e rifiata:
e’ la sogguarda curvo su l’astile:

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“Ho inteso dire ch’hanno i suoi poderi,
come noi. Sotto le città ben fatte
coltano un campo sodo: che bel bello
si fa lo scasso, e qua si tira dentro,
là si leva la terra, e si tramuta
con le pale, o valletti e cestinelle.
La pareggiano, seminano. Nasce
un’erba. Ed ecco poi vanno a pulirla,
levano il loglio, scerbano i vecciuli,
e scentano la sciamina, cattiva,
e la gramigna, che riè cattiva,
e i paternostri, ch’è peggior di tutte.
A suo tempo si sega, lega, ammeta,
scuote, ventola, spula. Eccolo bello
nel bel soppiano dai due godi il grano„
   E disse il Bosco, buon pastor di monte,
ch’era ad albergo: egli da Pratuscello
mena il branco alla Pieve, a quei guamacci;
per là dicon guamacci: è il terzo fieno:
   “Ho inteso dire ch’hanno le sue bestie:
quali, pecore, e quali, proprio bestie,
ossia da frutto, ovvero anche da groppa.
Ma piccoline e verdi queste, e quelle
con una lana molle come sputo:
pascono in cento un cuccolo di fiore.
E il pastore ha due verghe, esso, non una:
due, con nodetti, come canne; e molge
con esse: le vellica, e danno il latte;
o chiuse dentro, o fuori, per le prata:
come noi, che si molge all’aria aperta,

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nella statina, le serate lunghe:
quando su l’Alpe c’è con noi la luna
sola, che passa, e splende sui secchielli,
e il poggio rende un odorin che accora„
   E disse il Quarra, un capo, uno che molto
girò, portando santi e re sul capo,
di là dei monti e del sonante mare:
ora s’è fermo, e campa a campanello:
   “Lessi in un libro, ch’hanno contadini
come noi; ma non come mezzaiuoli
timidi sol del Santo pescatore,
e che, d’Ottobre, quando uno scasato,
cerca podere, a lui dice il fringuello:
   — Ce n’è, ce n’è, ce n’è, Francesco mio!-
Quelli no: sono negri. Alla lor terra
venne un lontano popolo guerriero,
che il largo fiume valicò sul ponte.
Fecero un ponte: l’uno chiappò l’altro
per le gambe, e così tremolò sopra
l’acqua una lunga tavola. Fu presa
la munita città, presi i fanciulli,
ch’or sono schiavi e fanno le faccende;
e il vincitore campa a campanello„
E qui la China, madre d’otto figli
già sbozzolati, accoccò il filo al fuso,
mise il fuso sul legoro, le tiglie
si strusciò dalla bocca arida; e disse:
   “Io l’ho vedute, come fanno ai figli
le madri, ossia le balie. Hanno i figlioli
quasi fasciati dentro un bozzolino.
Lo sa la mamma che lì dentro è chiuso

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il lor begetto, ch’è cicchin cicchino,
e dorme, e gli fa freddo e gli fa caldo.
Lasciano all’altre le faccende, ed esse
altro non fanno che portare il loro
furigello ora all’ombra ed ora all’aspro,
in collo, come noi; ch’è da vedere
come via via lo tengono pulito,
come lo fanno dolco con lo sputo;
e infine con la bocca aprono il guscio,
come a dire, le fasce; e il figliolino
n’esce, che va da sé, ma gronchio gronchio„
Così parlando, essi bevean l’arzillo
vino, dell’anno. E mille madri in fuga
correan pei muschi della scorza arsita,
coi figli, e c’era d’ogni intorno il fuoco;
e il fuoco le sorbiva con un breve
crepito, nè quel crepito giungeva
al nostro udito, più che l’erme vette
d’Appennino e le aguzze alpi Apuane,
assise in cerchio, con l’aeree grotte
intronate dal cupo urlo del vento,
odano lo strider d’un focherello
ch’arde laggiù laggiù forse un villaggio
con le sue selve; un punto, un punto rosso
or sì or no. Né pur vedea la gente
là, che moriva, i mostri dalla ferrea
voce e le gigantesse filatrici:
i mostri che reggean concavi laghi
di sangue ardente, mentre le compagne
con moto eterno, tra un fischiar di nembi,
mordean le bigie nuvole del cielo.

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Ma non vedeva il popolo morente,
gli dei seduti intorno alla sua morte,
fatti di lunga oscurità: vedeva,
forse in cima all’immensa ombra del nulla,
su, su, su, donde rimbombava il tuono
della lor voce, nelle occhiute fronti,
da un’aurora notturna illuminate,
guizzare i lampi e scintillar le stelle.
   E lo Zi Meo parlò. Disse: “Formiche!
L’altr’anno seminai l’erba lupina.
Venne la pioggia: non ne nacque un filo.
Vennero i soli: il campo parea sodo.
Un giorno che v’andai, vidi sul ciglio
del poggio un mucchiarello alto di chicchi.
Guardai per tutto. Ad ogni poco c’era
un mucchiarello. Erano semi, i semi
d’erba lupina. Avean rumato poco?
Non un chicco, ch’è un chicco, era rimasto!
Aveano fatto, le formiche, appietto!
E ben sì che v’avevo anco passato
l’erpice a molti denti, e su la staggia,
per tutte bene pianeggiar le porche,
mi facev’ir di qua dì là, come uno
fa, nel passaggio, in mezzo all’Oceano„

canto secondo


   Ed il ciocco arse, e fu bevuto il vino
arzillo, tutto. Io salutai la veglia
cupo ronzante, e me ne andai: non solo:
m’accompagnava lo Zi Meo salcigno.

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Era novembre. Già dormiva ognuno,
sopra le nuove spoglie di granturco.
c’era un lume. Ma brillava il cielo
d’un infinito riscintillamento.
E la Terra fuggiva in una corsa
vertiginosa per la molle strada,
e rotolava tutta in sè rattratta
per la puntura dell’eterno assillo.
E rotolando per fuggir lo strale
d’acuto fuoco che le ruma in cuore,
ella esalava per lo spazio freddo
ansimando il suo grave alito azzurro.
Così, nel denso fiato della corsa
ella vedeva l’iridi degli astri
sguazzare, e nella cava ombra del Cosmo
ella vedeva brividi da squamme
verdi di draghi e svincoli da fruste
rosse d’aurighi, e lampi dalle freccie
de’ sagittari, e sprazzi dalle gemme
delle corone, e guizzi dalle corde
delle auree lire; e gli occhi dei leoni
vigili e i sonnolenti occhi dell’orse.
Noi scambiavamo rade le ginocchia
sotto le stelle. Ad ogni nostro passo
trenta miglia la terra era trascorsa,
coi duri monti e le maree sonore,
E seco noi riconduceva al Sole,
e intorno al Sole essa vedea rotare
gli altri prigioni, come lei, nel cielo,
di quella fiamma, che con sè li mena.
Come le sfingi, fosche atropi ossute,

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l’acri zanzare e l’esili tignuole,
e qualche spolverìo di moscerini,
girano intorno una lanterna accesa:
una lanterna pendula che oscilla
nella mano d’un bimbo: egli perduta
la monetina in una landa immensa,
la cerca in vano per la via che fece
e rifà ora singhiozzando al buio:
e nessun ode e vede lui, ch’è ombra:
ma vede e svede un lume che cammina,
nè par che vada, e sempre con lui vanno,
gravi ronzando intorno a lui, le sfingi:
lontan lontano son per tutto il cielo
altri lumi che stanno, ombre che vanno,
che per meglio vedere alzano in vano
verso le solitarie Nebulose
l’ardor di Mira e il folgorìo di Vega.
   Così pensavo; e non trovai me stesso
più, né l’alta marmorea Pietrapana,
sopra un grano di polvere dell’ala
della falena che ronzava al lume:
dell’ala che in quel punto era nell’ombra;
della falena che coi duri monti
e col sonoro risciacquar dei mari
miglia in quel punto era trascorsa.
Ed incrociò con la sua via la strada
d’un mondo infranto, e nella strada ardeva,
come brillante nuvola di fuoco,
la polvere del suo lungo passaggio.
Ma niuno sa donde venisse, e quanto
lontane plaghe già battesse il carro

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che senza più l’auriga ora sfavilla
passando rotto per le vie del Sole.
Nè sa che cosa carreggiasse intorno
ad uno sconosciuto astro di vita,
allora forse di su lui cantando
i viatori per la via tranquilla;
quando urtò, forviò, si spezzò, corse
in fumo e fiamme per gli eterei borri,
precipitando contro il nostro Sole,
versando il suo tesoro oltresolare:
stelle; che accese in un attimo e spente,
rigano il cielo d’un pensier di luce.
Là, dove i mondi sembrano con lenti
passi, come concorde immensa mandra,
pascere il fior dell’etere pian piano,
beati della eternità serena;
pieno è di crolli, e per le vie, battute
da stelle in fuga, come rossa nube
fuma la densa polvere del cielo;
e una mischia incessante arde tra il fumo
delle rovine, come se Titani
aeriformi, agli angoli del Cosmo,
l’un l’altro ardendo di ferir, lo spazio
fendessero con grandi astri divelti.
Ma verrà tempo che sia pace, e i mondi,
fatti più densi dal cader dei mondi,
stringan le vene e succhino d’intorno
e in sè serrino ogni atomo di vita:
e quando sarà tra mondo e mondo il Vuoto
gelido oscuro tacito perenne;
e il Tutto si confonderà nel Nulla,
come il bronzo nel cavo della forma;

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e più la morte non sarà. Ma il vento
freddo che sibilando odo staccare
le foglie secche, non sarà più forse,
quando si spiccherà l’ultima foglia?
E nel silenzio tutto avrà riposo
dalle sue morti; e ciò sarà la morte.

   Io riguardava il placido universo
e il breve incendio che v’ardea da un canto.

Tempo sarà (ma è! poi ch’il veloce
immobilmente fiume della vita,
è nella fonte, sempre, e nella foce),

tempo, che persuasa da due dita
leggiere, mi si chiuda la pupilla;
né però sia la visïon, finita.

Oh! il cieco io sia che, nella sua tranquilla
anima, vede fin che sa che intorno
a lui c’è qualche aperto occhio che brilla!

Così, quand’io, nel nostro breve giorno,
guardo, e poi, quasi in ciò che guardo, un velo
fosse, un’ombra, col lento occhio ritorno

a un guizzo d’ala, a un tremolìo di stelo:
quando a mirar torniamo anche una volta
ciò ch’arde in cuore, ciò che brilla in cielo;

noi s’è la buona umanità che ascolta
l’esile strido, il subito richiamo,
il dubbio della umanità sepolta;

e le risponde: — Io vivo, sì: viviamo —

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Tempo sarà che tu, Terra, percossa
dall’urto d’una vagabonda mole,
divampi come una meteora rossa;

e in te scompaia, in te mutata in Sole,
morte con vita, come arde e scompare
la carta scritta con le sue parole.

Ma forse allora ondeggerà nel Mare
del nettare l’azzurra acqua, e la vita
verzicherà su l’Appennin lunare.

La vecchia tomba rivivrà, fiorita
di ninfèe grandi, e più di noi sereno
vedrà la luce il primo Selenita.

Poi, la placida notte, quando il Seno
dell’iridi ed il Lago alto e selvaggio
dei sogni trema sotto il Sol terreno;

errerà forse, in quell’eremitaggio
del Cosmo, alcuno in cerca del mistero;
e nello spettro ammirerà d’un raggio

la traccia ignita dell’uman pensiero.

   O sarà tempo, che di là, da quella
profondità dell’infinito abisso,
dove niuno mai vide orma di stella;

un atomo d’un altro atomo scisso
in mille nulla, a mezzo il dì, da un canto
guardi la Terra come un occhio fisso;

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e venga, e sembri come un elïanto,
la notte, e il giorno, come luna piena;
e la Terra alzi il cupo ultimo pianto;

e sotto il nuovo Sole che balena
nella notte non più notte, risplenda
la Terra, come una deserta arena;

e Sole avanzi contro Sole, e prenda
già mezzo il cielo, e come un cielo immenso
su noi discenda, e tutto in lui discenda...

Io guardo là dove biancheggia un denso
sciame di mondi, quanti atomi a volo
sono in un raggio: alla Galassia: e penso:

O Sole, eterno tu non sei — nè solo! —

   Anima nostra! fanciulletto mesto!
nostro buono malato fanciulletto,
che non t’addormì, s’altri non è desto!

felice, se vicina al bianco letto
s’indugia la tua madre che conduce
la tua manina dalla fronte al petto;

contento almeno, se per te traluce
l’uscio da canto, e tu senti il respiro
uguale della madre tua che cuce;

il respiro o il sospiro; anche il sospiro;
o almeno che tu oda uno in faccende
per casa, o almeno per le strade a giro;

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o veda almeno un lume che s’accende
da lungi, e senta un suono di campane
che lento ascende e che dal cielo pende;

almeno un lume, e l’uggiolìo d’un cane:
un fioco lume, un debole uggiolìo:
un lumicino:... Sirio: occhio del Cane

che veglia sopra il limitar di Dio!

   Ma se al fine dei tempi entra il silenzio?
se tutto nel silenzio entra? la stella
della rugiada e l’astro dell’assenzio?

Atair, Algol? se dopo la procella
dell’Universo lenta cade e i Soli
la neve della Eternità cancella?

che poseranno senza mai più voli
nè mai più urti nè mai più faville,
fermi per sempre ed in eterno soli!

Una cripta di morti astri, di mille
fossili mondi, ove non più risuoni
nè un appartato gocciolìo di stille;

non fumi più, di tanti milïoni
d’esseri, un fiato; non rimanga un moto,
delle infinite costellazïoni!

Un sepolcreto in cui da sè remoto
dorma il gran Tutto, e dalle larghe porte
non entri un sogno ad aleggiar nel vuoto

sonno di ciò che fu! — Questa è la morte! —

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   Questa, la morte! questa sol, la tomba...
se già l’ignoto Spirito non piova
con un gran tuono, con una gran romba;

e forse le macerie anco sommuova,
e batta a Vega Aldebaran che forse
dian, le due selci, la scintilla nuova;

e prenda in mano, e getti alle lor corse,
sotto una nuova lampada polare,
altri Cigni, altri Aurighi, altre Grand’Orse;

e li getti a cozzare, a naufragare,
a seminare dei rottami sparsi
del lor naufragio il loro etereo mare;

e li getti a impietrarsi e consumarsi,
fermi i lunghi millenni de’ millenni
nell’impietrarsi, ed in un attimo arsi;

all’infinito lor volo li impenni,
anzi no, li abbandoni all’infinita
loro caduta: a rimorir perenni:

alla vita alla vita, anzi: alla vita!

   Io mi rivolgo al segno del Leone
dond’arde il fuoco in che si muta un astro,
alle Pleiadi, ai Carri, alle Corone,
indifferenti al tacito disastro;

ai tanti Soli, ai Soli bianchi, ai rossi
Soli, lucenti appena come crune,
ai lor pianeti, ignoti a noi, ma scossi
dalla misterïosa ansia comune;

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a voi, a voi, girovaghe Comete,
che sapete le vie del ciel profondo;
o Nebulose oscure, a voi, due siete
granai del cielo, ogni cui grano è un mondo:

di là di voi, di là del firmamento,
di là del più lontano ultimo Sole;
io grido il lungo fievole lamento
d’un fanciulletto che non può, non vuole

dormire! di questa anima fanciulla
che non ci vuole, non ci sa morire!
che chiuder gli occhi, e non veder più nulla,
vuole sotto il chiaror dell’avvenire!

morire, sì; ma che si viva ancora
intorno al suo gran sonno, al suo profondo
oblìo; per sempre, ov’ella visse un’ora;
nella sua casa, nel suo dolce mondo:

anche, se questa Terra arsa, distrutto
questo Sole, dall’ultimo sfacelo
un astro nuovo emerga, uno, tra tutto
il polverìo del nostro vecchio cielo.


   Così pensavo; e lo Zi Meo guardando
ciò ch’io guardava, mormorò tranquillo:
“Stellato fisso: domattina piove„
Era andato alle porche il suo pensiero.
Bene egli aveva sementato il grano
nella polvere, all’aspro; e san Martino

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avea tenuta per più dì la pioggia
per non scoprire e portar via la seme.
Ma era già durata assai la state
di san Martino, e facea bono l’acqua.
E lo Zi Meo sicuro di svegliarsi
domani al rombo d’una grande acquata,
era contento, e andava a riposare,
parlando di Chioccetta e di Mercanti,
sopra le nuove spoglie di granturco,
la cara vita cui nutrisce il pane.