Capitan Tempesta/Capitolo XXV - Al fuoco! Al fuoco!

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Al fuoco! Al fuoco!

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Capitolo XXIV - L'incendio della galera Capitolo XXVI - L'assassinio del visconte Le Hussière

Capitolo XXV
Al fuoco! Al fuoco!


Il sole era appena tramontato, quando Metiub, come aveva promesso, scese nella cabina della duchessa per condurla nell'infermeria, dove il visconte gemeva sotto i ferri del medico di bordo, il quale invano cercava di estrargli la palla.

La giovane signora, in preda a profonde angosce, poichè più nessuno si era fatto vedere durante la giornata per darle notizie del fidanzato, nemmeno Laczinki, forse per non suscitare sospetti, lo aspettava. Pareva che la sua straordinaria energia si fosse finalmente esaurita dopo tante terribili emozioni.

Vedendo entrare il turco si era alzata quasi con fatica, scrutando attentamente il viso di lui che appariva piuttosto oscuro.

— Dunque? — gli chiese con ansietà.

— Hussif non è ancora in vista, — rispose Metiub, che pareva fosse di cattivo umore. — La calma continua e la galera non avanza più di una testuggine. Non giungeremo alla rada prima di domani mattina e forse più tardi.

— Non vi chiedo d'Hussif, — disse la duchessa. — È la salute del visconte che m'interessa.

— Il medico non può dire ancora nulla, signora. La palla è sempre conficcata nelle carni e non la si potrà estrarre.

— Allora morrà! — esclamò Eleonora con spavento.

— Che cosa dici, signora? Anch'io a Nicosia ho ricevuto una palla di pistola nel costato destro: nessuno ha potuto levarmela, eppure sono ancora vivo e non mi dà alcuna noia. Quando si sarà stancata di passeggiare pel mio corpo, si presenterà a fior di pelle e le farò aprire la porta con un semplice taglio.

— Voi mi allargate il cuore.

— Non dico però che lo stato del visconte sia troppo buono. La ferita è sempre grave, signora, e non si rimarginerà facilmente.

— Posso vederlo?

— Te l'ho promesso, ma prima che giungiamo a Hussif tu m'insegnerai quel famoso colpo di spada. Ci tengo ad impararlo.

— Sì, però non ora; domani, prima di giungere a Hussif o dinanzi ad Haradja.

— Oh, non in presenza della nipote del Pascià — rispose vivamente il mussulmano. — Potrebbe mancare l'occasione più tardi.

— Cioè, vorreste dire che Haradja potrebbe uccidermi prima che vi abbia insegnata quella stoccata, — disse la duchessa, con amara ironia.

— Io non posso indovinare i pensieri di quella strana donna, — rispose Metiub. — Orsù, vieni, signora. La notte è calata.

Si tolse dal braccio un mantello di lana bianca, adorno d'una larga fascia rossa verso il fondo e di fiocchi di filo d'argento e lo gettò sulle spalle della duchessa, abbassandole il cappuccio fino sulla fronte.

— Andiamo, signora, — disse.

Uscirono dalla cabina e salirono in coperta. Pochi uomini vegliavano, dispersi lungo le murate di babordo e di tribordo, regnando in quel momento sul Mediterraneo una calma, simile a quelle che immobilizzano per settimane e settimane le navi che s'avventurano nelle zone intertropicali.

La duchessa però scorse subito un uomo avvolto in una lunga cappa di lana oscura, che stava appoggiato all'albero poppiero e che le fece un gesto d'addio colla mano.

Era il polacco.

Guidata da Metiub, attraversò tutta la tolda della galera e scese nella batteria che era stata illuminata con due lanterne, passando poi nella corsìa proviera riservata ai feriti.

Vi erano due dozzine di lettucci sospesi alle travature da corde, affinchè i malati non avessero a risentire troppo dei soprassalti della galera durante le forti ondate.

Su uno stava curvo un vecchio turco dalla lunga barba bianca, ed il volto incartapecorito e dalla tinta oscura come quella degli arabi.

— È là — disse Metiub, volgendosi verso la duchessa. — Ti aspetto in coperta, signora.

La duchessa s'avanzò verso il lettuccio presso cui ardeva una lampada appesa alla parete.

Il vecchio turco, che aveva udite le parole del comandante, si era affrettato a trarsi da parte.

Il visconte pareva assopito. Era sempre pallidissimo ed un sudore vischioso gli imperlava la fronte, mentre due semicerchi azzurro cupi si stendevano sotto i suoi occhi.

Il suo respiro era sibilante ed in fondo al petto si udiva un sordo gorgoglio, come se il sangue cercasse di prorompere attraverso le fasce della ferita.

— Muore? — chiese la duchessa, guardando il dottore che la osservava con viva attenzione.

La domanda, fatta in lingua araba, fu subito compresa.

— No, signora, — rispose il vecchio che parlava pure il dolce idioma dei figli del deserto. — Non aver timore, per ora almeno.

— Guarirà?

— È nelle mani di Allah.

— Se tu, sei veramente un tobib, dovresti saperlo.

— Maometto è grande, — si limitò a rispondere il medico.

— Gastone! — mormorò la duchessa con voce dolce. — Mio Gastone!

Il ferito, che forse si era appena assopito, aprì gli occhi ed un lampo di gioia sconfinata illuminò le sue pupille. Un leggero rossore colorì per qualche istante le sue gote, poi subito scomparve.

— Voi... Eleonora... — mormorò con voce semispenta. — Questa... palla... questa... palla...

— Non parlate, — disse il medico, con tono imperioso. — La ferita è grave.

— Tu lo salverai, è vero? — disse la duchessa. — Tu devi essere un bravo tobib.

— Oh, sì, — rispose il turco, lisciandosi nervosamente la bianca barba, — Questo signore non morrà.

Un pallido sorriso sfiorò le labbra del visconte, mentre stringeva i denti per trattenere un gemito.

— Non parlare, — disse il tobib, con voce secca, vedendo che stava per aprire la bocca. — Vuoi ucciderti?

— No, Gastone, non aprite la bocca, — disse Eleonora. — Ne va della vostra guarigione.

Il visconte non aprì le labbra: prese invece una mano della duchessa e la strinse febbrilmente.

— No, — mormorò. — No... non lo volete...

Socchiuse gli occhi per un momento, poi li riaprì, fissandoli intensamente sulla fidanzata.

— Che cosa volete, Gastone? — chiese la duchessa.

— Amatemi... — sospirò il visconte. — La morte... mi colga pure... vedervi... così... come quella notte... a Venezia...

— Non parlate, — disse per la terza volta il tobib. — Io devo rispondere colla mia testa della vostra guarigione.

In quel momento, un grido terribile s'alzò fra gli uomini di guardia che passeggiavano sulla tolda:

— Al fuoco! Al fuoco!

Il tobib aveva fatto un salto verso la porta, mentre la duchessa si precipitava verso la batteria, gridando a piena gola:

— Aiuto! La galera brucia!

Il polacco era comparso all'estremità della corsia.

— Non spaventatevi, signora, — le disse, accostandosele rapidamente. — Quando il pericolo diverrà grave io verrò a salvare voi ed il signor Le Hussière. Non muovetevi da qui e abbiate in me piena e assoluta fiducia. Vado a liberare i vostri marinai.

— Il visconte prima di tutti, ricordatevelo, — rispose la duchessa con voce minacciosa.

— Ho giurato — disse il polacco — e mi premete troppo voi, per mancare alla mia promessa. Siate tranquilla: tutto finirà bene.

— Non potranno domare il fuoco?

Un sorriso ironico spuntò sulle labbra del polacco.

— Con quali pompe? — disse poi. — Ho pensato a tutto.

Ciò detto risalì rapidamente in coperta, dove regnava una grande confusione.

Tutta la guardia franca usciva dalla camera comune di prora, onde cooperare all'estinzione del fuoco che doveva essersi manifestato violentissimo, a giudicarlo dalle ondate di fumo denso e puzzolente, che irrompevano nel quadro del boccaporto di poppa che era aperto.

Il polacco si accostò a Metiub, il quale sagrava lanciando ordini a destra e a manca.

— Dov'è scoppiato il fuoco? — gli chiese.

— Nel magazzino degli attrezzi di ricambio, a quanto pare, — rispose il turco che pareva furibondo.

— Chi può aver incendiato quel luogo?

— Chi... Chi...! Quei cani di cristiani di certo.

— Tu perdi la testa, capitano. Sono rinchiusi nella cala che si trova a prora mentre il fuoco è scoppiato a poppa. Lascia anzi che vada a liberare quegli uomini e mandiamoli alle pompe. Le braccia non sono mai troppe in simili disastri.

— Hai ragione, capitano, — rispose Metiub. — Va' a liberarli e facciamoli lavorare.

Era quello che desiderava il polacco, il quale temeva che i turchi s'accorgessero della mancanza della sbarra di ferro che aveva levata alla botola.

Mentre l'equipaggio, calmatosi alquanto, si disponeva a combattere vigorosamente l'incendio, il polacco scese nel frapponte e passò nella cala.

I greci, Perpignano, El-Kadur e papà Stake stavano radunati all'estremità della scaletta, ascoltando attentamente i rumori che provenivano dalla tolda.

— Salite! — gridò il polacco affacciandosi alla botola.

— Il fuoco? — chiese Perpignano che precedeva tutti.

— Avvampa terribile — rispose il polacco.

— E la mia padrona? — chiese El-Kadur, con ansietà.

— Non corre alcun pericolo; non preoccuparti.

— Voglio vederla — disse l'arabo con energia.

— Va' a raggiungerla, se vuoi e veglia anche tu su di lei. Si trova nell'infermeria. Sbrigatevi voialtri e guardatevi dal tradirvi.

Il drappello si slanciò nel frapponte, che era ormai invaso da un fumo densissimo fortemente impregnato di catrame e comparve in coperta.

— Alle pompe i cristiani! — gridò Metiub appena li vide.

— Meno me, — disse Nikola avvicinandosi al polacco.

— Perchè tu no?

— Vi siete dimenticato della gagliotta, signore?

— Che cosa vuoi fare, Nikola? — chiese Perpignano che l'aveva udito.

— Aspetto che le scintille cadano su quel legno e lo incendino onde impedire ai turchi di salvarsi su quello e di condurci egualmente a Hussif.

— Tu sei un brav'uomo, — disse il polacco.

— Non preoccupatevi di me, ci ritroveremo sulla costa. Cinque miglia a nuoto non mi fanno paura. Al momento opportuno scomparirò.

— Alle pompe i cristiani! — urlò per la seconda volta Metiub. — Volete che vi faccia frustare?

I greci con Perpignano, papà Stake e Simone si affrettarono a obbedire, mentre invece Nikola, approfittando della confusione che regnava ormai sulla galera, tornava nel frapponte coll'idea probabilmente di calarsi in acqua da qualche sabordo e di raggiungere a nuoto la gagliotta.

Il fuoco, che aveva trovato un alimento formidabile nelle gomene incatramate, nei velacci e negli attrezzi di ricambio, in pochi minuti aveva preso proporzioni spaventose.

Il quadro ormai era tutto in fiamme e lunghe lingue ardenti sfuggivano attraverso i sabordi di poppa, investendo il fasciame.

I turchi, che pareva avessero perduta la testa, correvano all'impazzata qua e là, sordi ai sagrati di Metiub e degli ufficiali, invocando Allah ed il Profeta, invece di formare le catene coi buglioli.

I greci, guidati da papà Stake si erano slanciati verso le pompe, per non far nascere qualche sospetto, ma quando cominciarono a premere sulle aste, s'accorsero che dalle bocche di presa non usciva nemmeno una goccia d'acqua.

— Capitano, — disse papà Stake, fermando Metiub che gli passava accanto. — Le vostre pompe sono inservibili.

— Che cosa dici, cane d'un cristiano? — urlò il turco.

— Che, senza essere un cane, le vostre pompe non dànno acqua e ve lo dice un vecchio mastro della flotta veneziana.

— Se le ho fatte provare l'altro giorno!

— Non so che cosa dirvi: il fatto è che con queste non spegnerete mai l'incendio.

Metiub lanciò una bestemmia, che non dovette certo riuscir gradita nemmeno agli orecchi del Profeta.

— Visitate le manichelle! — gridò, volgendosi verso i suoi ufficiali che s'affannavano a formare le catene.

Due o tre uomini si mossero per eseguire l'ordine, ma tosto delle grida di terrore s'alzarono.

— Le manichelle sono tagliate! Siamo perduti!

Papà Stake guardò il polacco che era forse l'unico che in tanto trambusto conservasse una calma perfetta e lo vide sorridere sardonicamente.

— Ho capito, — borbottò il brav'uomo. — È stato lui a fare il colpo. Credevo prima che i più furbi fossero i greci; ed ora m'accorgo che hanno dei maestri fra i polacchi. Orsù, la galera se ne va ed è meglio sgombrarla.

Quantunque la notizia sparsasi che le pompe erano inservibili avesse sgomentato anche Metiub, pure l'equipaggio non aveva perduto la speranza di salvare la nave.

Delle catene si erano prontamente formate per passare più rapidamente i buglioli e l'acqua aveva cominciato a correre abbondantemente, dentro il quadro, dove l'incendio avvampava già terribilmente in causa dei barili di pece che ingombravano il sottostante magazzino.

Immense nuvole di fumo irrompevano dai boccaporti di poppa, avvolgendo l'alberature e getti di scintille s'innalzavano, minacciando di mettere fuoco alle vele che nessuno aveva pensato di far abbassare sul ponte.

I greci e papà Stake, per meglio ingannare i turchi e allontanare sempre più qualsiasi sospetto, facevano del loro meglio per versare acqua entro quella fornace, che non accennava ad estinguersi, affrontando coraggiosamente quel turbinio di scintille e quel fumo fetente che rovinava le gole. Ogni sforzo però era vano. Le fiamme continuavano a dilatarsi, minacciando di avvolgere fra le loro spire distruggitrici tutta la poppa del veliero.

Già guizzavano attraverso le tavole ormai consunte dell'alto cassero ed irrompevano attraverso gli ampi sabordi del quadro, facendo colare il catrame del fasciame e divorando i corbetti ed i bagli.

Il frapponte e le batterie erano ormai così piene di fumo che nessuno poteva più discendere.

I puntali cadevano, uno ad uno, con fragore e la scassa dell'albero di mezzana aveva pure preso fuoco.

Metiub non aveva ancora perduta la speranza di poter conservare la sua bella galera; con saggia previdenza aveva subito fatta inondare la santabarbara onde le polveri non prendessero fuoco e mandassero tutti all'aria e per maggior precauzione aveva fatto mettere in acqua le scialuppe onde salvarsi sulla gagliotta che era sempre a rimorchio.

Quelle misure erano state prese appena a tempo, poichè mezz'ora dopo, nonostante gli sforzi energici dei mussulmani, le fiamme raggiungevano la polveriera. Ormai tutta la poppa avvampava e miriadi di scintille, spinte dalla brezza notturna, cadevano anche in gran numero sulla gagliotta, minacciando d'incendiare la sua alberatura.

Era quello che aspettava Nikola. Nessuno poteva sospettare di lui non essendo stata notata, fra la confusione che regnava a bordo della galera, la sua assenza. Aveva già disposto tutto per farla avvampare rapidamente, spargendo sotto il ponte catrame, pece e polvere da sparo.

Metiub, che ormai aveva compreso essere inutile ogni lotta contro il terribile elemento che divorava ingordamente ogni cosa, stava per dare il comando di abbandonare la nave e di salvarsi sulla gagliotta, quando delle grida di spavento echeggiarono sul ponte.

— Ha preso fuoco! Ha preso fuoco!

— Che cosa? — chiese il capitano Metiub, slanciandosi fra i vortici di fumo.

— La gagliotta ha preso fuoco!

— Ecco la fine, — disse il mussulmano con ira. — Allah così voleva ed era scritto!

Il fatalismo turco aveva spento subitamente quello scatto di rabbia.

Tuttavia non volle darsi ancora per vinto.

— Acqua, marinai! Acqua! Non dobbiamo perdere la galera che ci ha affidata la nipote del grande ammiraglio, — gridò con suprema energia, — Tutto non è ancora perduto.

Ci voleva ben altro che quell'acqua versata dai buglioli per spegnere quelle vampe che ormai minavano da tutte le parti la nave.

Nemmeno le pompe sarebbero state più sufficienti a domarlo, anche se fossero state in numero doppio.

Le fiamme si erano aperte un varco attraverso il tavolato del cassero già consunto, e alimentate dalla brezza che cominciava a soffiare con forza, s'abbattevano sulla tolda, in cortine orizzontali, che parevano tende ondeggianti agitate senza posa da una miriade di diavoletti.

Si udivano i legnami a crepitare e contorcersi. L'incendio dilagava, volava anzi, guadagnando sempre, divorando le travature di pini del Mar Nero già sature di resina.

Tutta la poppa della galera non era altro che una immensa fornace che vomitava come un vulcano, nuvoloni di fumo vermiglio, sulfureo, bianco e nero, che s'allungavano a perdita d'occhio ottenebrando e tingendo di colori sinistri il mare, le velature e gli uomini.

Un turbinìo furioso di scintille e di cenere copriva tutta la galera e le esplosioni che si succedevano per lo scoppio dei barili pieni di catrame e di pece, lanciavano una vera grandine di braci e di tizzoni ardenti che spazzavano il ponte come scariche di mitraglia, facendo indietreggiare turchi e cristiani.

— È finita, — disse papà Stake gettando via il bugliolo. — Se noi non ce ne andiamo, cuoceremo tutti come costolette in mezzo al catrame.

Il polacco che gli stava dietro lo interpellò:

— Lo credi proprio?

— È ora di scappare, capitano, — rispose il vecchio lupo di mare. — Se tardiamo ancora un po', ci mancherà la tolda sotto i piedi e allora buona notte a tutti.

— Dov'è El-Kadur?

— Presso il visconte.

— Vado a occuparmi della duchessa e del ferito.

— Fate presto, signore: il catrame fra poco scorrerà sotto di noi.

Metiub in quel momento accorreva, seguito da parte dell'equipaggio.

— Ce ne andiamo dunque? — gli chiese il polacco fermandolo.

— La galera è perduta, — rispose il turco, facendo un gesto disperato.

— Tutti lo vedono.

— Guadagneremo la costa colle scialuppe.

— Ci staremo tutti?

— Lo spero. Andate a salvare la signora.

— Ci penso io, — rispose il polacco.

Attraversò di corsa la tolda e si precipitò nell'infermeria, mentre i turchi s'affollavano confusamente sulle murate per prendere posto nelle imbarcazioni.

El-Kadur stava per prendere fra le braccia il visconte, quando il polacco comparve.

— Occupati della tua padrona, — gli disse Laczinki. — Ci penso io al visconte; tobib, aiutami.

— Lasciamo la galera? — chiese la duchessa che pareva smarrita.

— Sì, signora, — rispose il rinnegato. — La tolda sta per cadere e gli alberi non si reggono più.

— E Perpignano, papà Stake?...

— Non so dove siano. C'è una confusione enorme lassù. Sbrighiamoci, signora, o non troveremo più posto nelle scialuppe.

Avvolse in una coperta il visconte, il quale era nuovamente svenuto, lo prese fra le robuste braccia e seguì la duchessa che El-Kadur traeva quasi a forza verso il frapponte, ingombro ormai di fumo e di fiamme.

Il vecchio medico li aveva già preceduti per preparare al ferito un posto su una delle scialuppe.