Catullo e Lesbia/III. Lesbia

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III. Lesbia

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III.

LESBIA.



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I.


Non si può intendere e studiar bene la condizione della donna nella società romana senza ricordare, che il matrimonio non era presso i Romani il principal legame della famiglia.

In Roma la legge predomina tutto; si pone in luogo della natura; il matrimonio non è che un mezzo per dar cittadini allo Stato; la famiglia è una creazione del diritto civile; al vincolo del sangue precede il vincolo della potestà.1

Il paterfamilias è tutta la famiglia: padre, capo, assoluto signore, proprietario di tutto egli solo; gli altri non sono che rappresentanti, mezzi, strumenti anonimi della sua volontà, maschere vuote di diritti; persone, non personalità. La donna non è veramente donna, ma foemina, da femur, dalle parti, ove il sesso la distingue dall’uomo.2 Uxor, non già da unxor, per il costume che avea la sposa di unger d’olio le imposte della casa maritale e il marito istesso all’uscire dal bagno, [p. 54 modifica]secondo attesta Servio,3 ma piuttosto, come io credo, da utor, essendo noto che l’usus era uno dei tre modi, per cui la moglie veniva in potestà del marito. L’uomo al contrario è mas, da Mars, Dio della fortezza; è vir, da vis, la forza; ha il dominium quiritarium sui figli, i quali non sono altro, che res mancipi, quae venundari, mancipari, vindicarique possunt.4 Il matrimonio non è che una conjunctio maris et fæminæ; non già l’unione di due anime, ma di due sessi; il vincolo personale non è un fine, ma un mezzo. La donna una proprietà, che dalle mani del padre o del tutore passa a quelle del marito; diviene sui juris, ma come per irrisione; resta in perpetua tutela, sotto la vigilanza degli agnati; non ha potestà alcuna sui figli, nessuno esercizio di diritti; è principio e fine della sua famiglia: familiæ suæ et caput et finis, come dice Ulpiano.5 Vuol passare in potestà altrui? Il tutore gliel’impedisce.6 Ha la fortuna di una vistosa eredità? La legge Voconia la limita nelle successioni.7 Vuol partecipare a un’impresa di commercio o d’industria? Non ne ha il diritto.8 Viene in sospetto, in uggia al marito? Il tribunale domestico la giudica e la condanna.9 Può dar facoltà ai parenti di ucciderla.10 Si dà bel tempo in conviti, sfoggia in [p. 55 modifica]adornamenti, cerca di riempire in modo alcuno il vuoto terribile della sua vita? La legge Oppia alza la sua voce abborrita; il vecchio Catone sbraita per le piazze; aggiunge al divieto l’insulto. Date frenos impotenti naturæ et indomito animali!11 Non soltanto si opprime la donna, ma sì dispregia: imbecillitas mulierum, majestas virorum! sono espressioni consacrate nel dritto. Il disprezzo è il più crudele coltello, con cui si possa ferire una donna. Opprimetela quanto volete: sopporterà: la sofferenza è la gran virtù della donna; sofferendo ella vince. Deridetela, se vi riesce; vi salterà alla gola come una tigre. Il cuore della donna ha sempre una speranza che le sorride, una memoria che la consola, una fede che la rassecura, un entusiasmo che la solleva. Alimentate questi fiori gentili dell’anima sua, e ne farete un angelo; agghiacciateli col soffio del vostro disprezzo, e ne farete un demonio. Educate ed istruite la donna, ed avrete la più buona, la più docile, la più devota compagna della vostra vita; abbandonatela al pregiudizio e all’ignoranza, ed avrete una schiava permalosa e ribelle.

L’educazione e l’istruzione soltanto potranno rialzare la dignità della donna romana, barbaramente calpestata dalla legge. Ma quale era l’educazione e l’istruzione ch’essa avea ricevuta?


II.


In Roma, come in Sparta, l’educazione avea questo di singolare, che non era rivolta a svolgere e modificare gli affetti naturali del cuore, ma invece a [p. 56 modifica]contrariarli, a soffocarli del tutto, per crearne poi altri più o meno artificiali e posticci. Un padre che uccide il figlio vittorioso, perchè ha osato vincere senza il suo comando, è un eroe; una madre che porge al figlio un pugnale per sottrarsi con la morte ai nemici, è l’ideale delle madri. In Roma, mi si permetta la frase, il cittadino non nasce dall’uomo; non si può essere uomo e cittadino ad un tempo; perchè nasca il cittadino, bisogna che l’uomo si uccida. La legislazione e la filosofia tendevano a questo principalmente; una delle precipue cagioni della decadenza di Roma è quest’educazione sforzata e fittizia, innalzata non sulle basi, ma sulle rovine della natura umana. La dolcezza, la moderazione, quel non so che di timido e d’irresoluto, che distingue essenzialmente la donna, e forma il corredo più bello delle nostre giovanette, non era dai Romani tenuto in conto.

L’ideale di tutto la forza. Quanto più una fanciulla tenea del maschile, tanto più meritava l’ammirazione e l’affetto. Le figlie dei patrizi venivano educate insieme ai loro fratelli; le ragazze del popolo frequentavano, come in America, le scuole comuni ai due sessi. Il canto, la danza, la musica, tutte quelle arti credute indegne della gravità degli uomini, erano parimente vietate alle donne. Questa educazione comune producea necessariamente due mali: distruggea nella donna quel tesoro di grazia e di dolcezza, che la natura le ha dato; svolgeva al massimo grado il sentimento dell’eguaglianza col sesso opposto. Certo, come dice Boissier, quando si vuol dare alla donna una parte importante ed attiva nelle lotte della vita, è mestieri ch’essa abbia quelle [p. 57 modifica]conoscenze e quella forza d’animo, che le permettono di lottare senza troppo manifesta inferiorità;12 ma qual parte attiva ed importante ebbero mai in Roma le donne ai tempi della repubblica?

Quale autorità potevano avere in famiglia, esse che venivano confuse fra le cose di mancipazione insieme al campo, alla casa, agli animali, qui dorso collove domantur?13 Qual parte nelle pubbliche faccende, esse, a cui s’imputava a colpa la curiosità di sapere che leggi si discutessero in senato, e che turbolenze agitassero il fôro?14 Nè vale il ricordare gli esempi di Clelia e di Lucrezia, di Veturia, di Cornelia e di qualche altra, le cui famose azioni non hanno niente che fare con la vita pubblica, e doventano pallidissime innanzi alle splendide virtù delle donne di Messina e di Suli. Che, se qualcosa in esse è da lodare, è soltanto quell’istinto generoso e gagliardo, che la tirannìa della legge non avea potuto del tutto domare.


III.


Le donne romane erano proprio alle strette. Da un canto un’educazione, che le metteva a paro con gli uomini; dall’altro una legislazione crudele, che le trattava come proprietà. Era inevitabile una rottura. Mossero in opera ogni lor ferro; la forza e l’astuzia ad un tempo. [p. 58 modifica]Bisognava conquistare due grandi libertà: quella degli affetti e quella dei capricci. I primi loro tiranni chi sono? I mariti. Cominciano dunque da loro. Li denunziano, li tradiscono, li uccidono.15 In quel sanguinoso baccanale delle guerre civili anche le donne vogliono avere il loro posto: non basta ingombrar di stragi le piazze; bisogna anche insanguinare le pareti domestiche. Si pubblica la legge Oppia? Le donne romane si uniscono in congiura, domandano minacciosamente r abrogazione della legge; mettono sossopra il senato.16 Aiutate dall’affetto dei genitori riescono ad eludere i rigori della legge Voconia, legge iniquissima, che al diritto del sangue sperava poter sostituire impunemente il diritto politico; fatta, come dice Cicerone, utilitatis virorum gratia, in mulieres plenae injuriae.17 Aiutate dall’astuzia e dalla seduzione, e facendo tesoro della disposizione, che accordava loro il diritto di scegliere il tutore,18 ne scelgono uno a lor comodo. Lo menano pel naso a piacere, lo tengono nella rete, deludono la vigilanza del tutore legittimo, riducono la tutela nelle proprie mani.19 Il tribunale domestico, le accuse pubbliche cadono insieme ai buoni costumi.20 La legge chiude un occhio, concede, transige. Non è più tempo: la legge Papia Poppea non basta: le donne han guadagnata la mano alla legge; corrono all’abisso della corruzione. [p. 59 modifica]La corruzione delle donne romane è la reazione necessaria della natura contro l’autorità dispotica della legge.

La reazione trovò alimento in molte circostanze. I costumi s’erano mano mano ingentiliti; cresciuta e diffusa l’istruzione; diradati i vecchi pregiudizi; entrato il gusto delle lettere, delle arti, delle riunioni; la pialla dei Greci avea digrossati quei rozzi ed angolosi caratteri abbozzati da Quirino col ferro insanguinato della conquista. Si abbandonano le cure dei campi, dove la solerzia e l’operosità uguagliava da prima le classi, che l’ambizione avea divise e nimicate in città; la vita domestica viene a noia, perchè a misura ch’essa manca di attrattive, le seduzioni, che vengon di fuori, si fanno ogni dì più potenti;21 il lusso e l’ozio delle donne che fa abborrire i Romani dal matrimonio,22 l’istruzione e lo spirito che rende loro uggiose le mogli, vien cercato e ammirato nelle cortigiane.


IV.


Le cortigiane di Roma gareggiarono ben presto con quelle di Corinto e d’Atene: la finezza del loro spirito, della loro educazione, della loro cultura fece girar la testa ai più gravi discendenti d’Evandro. Citeride ricordò Aspasia; non era arte di seduzione, ch’ella non sapesse: danzava come Tersicore; toccava la cetera come Galliope; cantava i versi di Catullo e di Saffo; trionfava in teatro ed in casa, sul cuore d’Antonio e [p. 60 modifica]di Cornelio Gallo, sulla saggezza d’Attico e la gravità di Cicerone; era il tipo delle bonae mulieres, come andavano dette; la dea del mondo elegante, la vera sacerdotessa di Venere.

Le pretiosae, le famosae, le dissolute d’ogni specie e d’ogni grado popolarono le vie di Roma: le schiave della mollezza diventarono le imperatrici dei forti Romani: l’esercito brillante delle cortigiane faceva più prigionieri e più vittime, che non aveano fatto i Galli di Brenno.23

L’esempio di tanta corruzione non potea non essere contagioso. I Romani, orsi in famiglia, divenivano agnelli nei convegni galanti, nelle comissazioni, nei passeggi della via Sacra, sotto i portici di Pompeo. Ogni più rigida matrona si persuase, che per vincere il suo uomo bisognava anzitutto piacergli, far la concorrenza alle cortigiane, rivaleggiar con loro, emularle. Era una bella scommessa. Le donne romane poteano prender due colombi a una fava: da un canto acquistar predominio sui mariti, ch’era una vendetta; dall’altro abbandonarsi alla mollezza e alla vanità: ficus avibus gratae.

Citeride fu vinta da Clodia; l’una strazia il cuore di Cornelio Gallo, l’altra calpesta il cuore del povero Catullo; ambedue, come dicea Sallustio di Sempronia, non aveano cosa al mondo, che lor fosse men cara della reputazione e dell’onestà. [p. 61 modifica]


V.


Clodia nacque in Roma da Appio Claudio Pulcro, che fu pretore nell’89 e console dieci anni dipoi, e da Cecilia, figlia di Q. Metello Balearico. La prosapia dei Claudi era delle più illustri di Roma; vantava, nel solo ordine patrizio, non meno di 28 consolati, 5 dittature, 6 censure, 7 trionfi, 2 ovazioni. Tutte queste glorie non bastarono a Clodia; volle aggiungervi le sue: non si contentò d’esser nobilis, come dice bisticciando M. Tullio, volle anche esser nota,24 Bella, vivace, irrequieta, educata e istruita con gentilezza, ingegno di poeta, capricci di regina, carattere di farfalla, ella era nata sotto il benedetto influsso di Venere, avea, come dire, il bernoccolo dell’amore, non so se nel cranio o in qualche altro posto.

Avvenne una notte ch’ella sentiva un gran freddo birbone; non c’era verso di addormentarsi. Nella camera contigua alla sua dormiva Publio, il suo buon fratello minore, bel tocco di ragazzetto sui quindici anni, pusio, come Cicerone lo chiama, che, a farla proprio a posta, aveva una paura del diavolo a dormir solo, nocturnos quosdam inanes metus.25 Che fa la Clodia? Si leva in punta di piedi, quatta quatta si avvicina al letto di Publio, solleva la cocca della coperta, e giù fra le coltri anche lei. Al fratello parve davvero un gran ben di dio; gli era piovuto il cacio sui maccheroni. Lei aveva [p. 62 modifica]tanto freddo e lui tanta paura. — Dite poi che il diavolo non cacci la coda per tutto! Fecero la vigilia d’armi in famiglia.

Roma veduta, fede perduta, dice il proverbio; e la Clodia, provato che il fare all’amore val meglio che andare a messa, non si potè più contenere; si diè a sdrucciolar per la china. I suoi, che si persuasero di buon’ora con che bizzarra cavalla avessero da fare, tentarono metterle un freno purchessia, e la diedero in isposa a Quinto Metello Celere suo cugino, certo coso duro, abbozzato con l’ascia, che avea più a cuore la patria che la vita.26 Non c’era di meglio perchè la Clodia s’inalberasse. Quel barbone le entrò subito in tasca. La donna è per natura allopatica: si cura coi contrarii. Datela in mano a un Ercole, presto o tardi si troverà un Apollo. La misurata gravità di Metello facea proprio a’ calci con l’indole stemperata e bizzarra della sua metà. Vennero subito alle prese. Metello messe in opera le buone e le brutte, ma non ne cavò più che nulla: tanto valeva strizzare una rapa: ab asino lanam. Clodia avea bisogno di svaghi: fra’ primi e più illustri, che si procurò, fu il povero Catullo. Ma, eadem tundere incude! qual cosa più noiosa per una donna che si vuol dare un bel tempo! S’annoiò del poeta ben presto. Più crescevano i suoi capricci, e più il marito le si rendea insopportabile; un vero pruno nell’occhio. Bisognava sbarazzarsi di lui per poter correre il palio con libertà. Un bel giorno, che è, che non è? Quinto Metello dà gli ultimi tratti. Come! or son tre giorni egli facea quella [p. 63 modifica]gran bella figura nella Curia, nei rostri, era l’onore della repubblica! Pare impossibile! egli tanto giovane, tanto sano, tanto robusto, rapito improvvisamente a tutti i buoni, all’universale città! Eh! gatta ci cova! Quella strega di Clodia gli ha somministrato qualcuno dei suoi filtri! Clitennestra da un quattrino!27 Le male lingue dicevano così. Clodia non se ne diè neppure per intesa. Che ella desiderasse levarsi di torno il marito, è probabile; ma che l’abbia avvelenato lei, questo davvero non fu mai provato. Non ch’io la voglia riabilitare, badiamo: è una gloria codesta, che lascio volentieri a Dumas figlio e suoi raschiatori; ma io vorrei, che a questa gravissima accusa, che Cicerone le scaglia, si levasse almeno la tara. Marco Tullio era nemico giurato di Casa Clodia. Sesto gli avea fatto diroccare la casa, e incendiare quella del fratello; Publio gli avea fatti non pochi torti; le sue accuse però son sospette: tirava brace alla sua focaccia.

Comunque sia, quando la Clodia si levò di fra’ piedi quel tipo del suo marito s’abbandonò pazzamente a ogni sorta di mollezze, di amori, di stravizi. Il suo giardino al Tevere divenne il convegno di tutti i giovanotti di Roma; la sua casa poco men che pubblica. Canti, danze, musiche; scampagnate, conviti, passeggiate in barca, bagni, gozzoviglie, amori, libidini d’ogni maniera; un’orgia, un baccanale, un delirio. Gli amanti si succedono a giornate, a ore; si combattono, si straziano, si vilipendono fra di loro, e Catullo in mezzo a tutti, ora primo, ora ultimo; or dispregiato, or [p. 64 modifica]dispregiatore; or dall’alto a lanciar sorrisi e sarcasmi, or dal fondo a gettar fango sulla faccia di tutti. A Clodio, Celio, Gellio, Egnazio, Ravido, Alfeno, vengono dietro gli amanti anonimi, ch’ella andava a procacciarsi alle Baie, che provocava per le vie, che prendea per un braccio e conduceva alle feste di casa sua; e poi c’erano i servi, che si contentavano di prender gli sgoccioli di tanto lusso e di tanta lussuria; il bagnaiuolo, a cui men dava copia di quattrini che di sè stessa,28 e finalmente la folla, i magnanimi Remi nepotes; chiunque non avesse i ragni nel borsellino: sacculus plenus aranearum. Alle infedeltà successero i capricci; ai capricci il traffico; alla speculazione sulla propria bellezza la speculazione sulla bellezza delle altre; è la solita storia. Le ribalderìe di Clodio avevano trovato un degno riscontro nelle sozzure della sua sorella.


VI.


Mancata la libertà, i costumi delle donne romane s’andarono sempre più inabissando. I poeti del tempo d’Augusto si faceano un dovere di fuggire le ragazze oneste:

Tum mihi constantis dejecit lumina fastus
     Et caput impositis preasit amor pedibus;
Donec me docuit castas odisse puellas
     Improbus, et nullo vivere consilio.29

Delia, Cintia, Corinna son tutte da mettere in un [p. 65 modifica]fascio. Ovidio scrive il codice della seduzione. L’arte è il termometro dei costumi.

Gl’imperatori favoriscono la libertà delle donne; i discorsi di Cecina e di Valerio Messalino30 hanno un esito uguale a quelli di Valerio e di Catone:31 la vittoria è del sesso debole, che non solo governa i mariti e le famiglie, ma i tribunali, il senato, le province, gli eserciti, l’impero.32 La libertà delle donne romane era frutto d’una violenta reazione; non erano salite in cima a un monte per conquistarla, ma erano discese in fondo a un abisso: furono liberte, non libere; ebbero parte nella vita pubblica rendendosi pubbliche sempre più. Si sgomentarono delle proprie licenze, istituirono una società d’assicurazione generale contro il mal costume, sodalitas pudicitiæ servandæ; il circolo delle matrone, conventus matronarum, le cui riunioni finivano spesso a bastonate. Tutto tempo sprecato, impiastri sulla cancrena. Le donne romane si resero degne delle severe rampogne di Tacito, delle oscene pitture di Petronio e di Marziale, delle declamazioni di Seneca e del sanguinoso flagello di Giovenale.



  1. Ortolan, Spiegazioni storiche del Diritto romano.
  2. Isidoro, Origini, XI, 2.
  3. Ad Aenead., IV, 459.
  4. Heinecci, Pandect., Pars I, lib. I, tit. VI, 5, 144.
  5. Dig., 50, 46, 195, § 5.
  6. Cicer., pro Flacco, 34
  7. Rathery, Recherches sur l’hist. du Droit de success. des femmes, I part.
  8. Troplong, Influenza del Cristianesimo, X.
  9. Dion. Halycarnas., lib. II.
  10. Valer. Massimo, lib. VI, c. 3.
  11. Tito Livio, lib. XXXIV, 2.
  12. «Les femmes à Rome:» Revue des deux Mondes, 1° dècembre 1873.
  13. Gaii, Instit. com., 2. Ortolan, loc. cit.
  14. Tito Livio, lib. XXXIV, 2.
  15. Valer. Massimo}, lib. II, 5 e Appiano, De bellis civilib., IV.
  16. Tito Livio, lib. IV, 4.
  17. De republ., III, 40.
  18. Gaii, Istit. com., 148.
  19. Troplong, loc. cit.
  20. Montesquieu, loc. cit.
  21. Boissier, loc. cit.
  22. Heinec., ad leg. Pap., lib. I, c. 2.
  23. Dufour, loc. cit.
  24. Cicer., pro Cælio, XIII.
  25. Cicer., ibidem.
  26. Cicer., Oraz. cit., XXIV.
  27. Cicer., Oras. cit., XXIV; C. Rufus, apud Quintil., VIII, 6; Plutarco, in Cicerone.
  28. Cicer., c. 4, XIII, XXVI.
  29. Propert., lib. I, eleg. 1.
  30. Tacito, Ann., III, XXXIV.
  31. Tito Livio, Hist. rom., lib. XXXIV.
  32. Tacito, c. 4.