Cenni statistico-storici della Valle Vigezzo/Parte 2/Capo I.

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Parte 2 Parte 2 - Capo II.

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CAPO PRIMO

Dall'origine della Valle al mille dell’era volgare.


SOMMARIO

Primo stato della Valle Vigezzo — Essa era un lago — Come si asciugasse, e quando — Primi abitatori — Se essi fossero li Osci, i Leponzii, od una colonia della Valle Antogorio - Vestigi di romana dominazione - Passaggio dei Cimbri - Cristiana Religione in Vigezzo - Chiesa di Santa Maria fabbricata da S. Giulio.


L'origine della Valle di Vigezzo giace sepolta nelle più profonde latebre del tempo. Il Vescovo Bescapè opinava, che tutta l’Ossola fosse anticamente occupata dalle acque, e costituisse un braccio, od un seno del lago Verbano. Vediamo, egli diceva (1), il seno Ossolano circondato ovunque da aspri monti, ed il fondo largo più di un miglio, non incavato dai fiumi come altrove, ma piano, eguale e sabbioso. Convien credere che questo fondo fosse molto più basso, e pieno allora d’acqua, che col tempo queste facessero luogo alle materie terrose e sassose, che dall’impeto dei torrenti venivano, e vengono in gran [p. 96 modifica]copia continuamene dall’alto dei monti strascinate al basso; che infine questo fondo totalmente si riempisse. Tutte queste considerazioni sono applicabili, ed a più forte ragione, alla valle Vigezzo. Essa pure trovasi ovunque contornata da monti, e costituita da un fondo lungo sette, e largo un miglio, non incavato dai fiumi, ma piano, uguale, e composto da materie sassose - sabbiose, in tutto simili a quelle di che constano i circostanti monti, e quali vengono dalle acque trasportale. Si aggiunga che i due sbocchi di detto piano trovansi amendue chiusi da forte breccia, circostanza questa, che al dire dell’Amoretti (2), proverebbe da se sola, che la Valle era un lago.

E suppongasi per un momento che i monti circostanti al piano Vigezzino andassero, come succede comunemente, a riunirsi in basso ad angolo acuto; egli è certo che il seno della Valle dovrebbe allora essere di molti e molti metri più profondo. Essendo però chiuso tanto a Gagnone, che al ponte Manlione dall’indicata breccia, le acque discendenti dalle montagne non aveano scolo, e dovevano stagnare. Per conseguenza ciò che ora vediamo di piano terroso, era in allora piano acqueo; nè potea essere altrimenti. La livellazione di questo lago di tre buone ore di lunghezza dovea essere regolala dal piano dei due sfoghi, di Gagnone e di Manlione, i quali tanto più confermano la nostra congettura, in quanto che mostransi presso a poco all’uguale elevazione. Se non che i luoghi bassi si riempiono, gli alti si appianano. Strascinate dai torrenti, doveano ad ogni momento cadere in questo bacino numerose materie d’ogni genere, piante, sassi, sabbia e terra, e doveano necessariamente col tempo riempirlo, come si riempie un bacino d'acqua, in cui cada giornalmente un granello d’arena, e come rimpirannosi forse col tempo i laghi, ed i mari che noi osserviamo.

La nostra sopposizione acquista maggiore probabilità quando [p. 97 modifica]si consideri la condizione topografico-geognostica del piano, o bacino della Valle. Tutte le acque sortono col mezzo di due fiumi: uno per l'anzidetto sbocco di Gagnone all'ovest va verso l'Ossola , e termina nella Toce; l’altro per lo sbocco di Manlione all'est si dirige a Locarno, ed al Lago Maggiore. Amendue portano il nome di Melezzo, o come vecchie carte dicono, Malesco; ciò che prova che in origine non ne formavano che un solo; che una sola era la sortita delle acque vigezzine, e che questa dall’antico nome era o viziosa, o stentata. E di l'atto chiare vestigia si hanno tutt'ora dell'incerto vagare dei torrenti sulla superficie del piano di Vigezzo; mucchi di ciottoli rotondi, e di fina sabbia qua e là dispersi nelle campagne, manifesti indizi di seguite corrosioni: banchi di sabbia lavata a poca profondità dal suolo. Nè diversamente poteva correre la bisogna. Riempito il seno, scacciate le acque stagnanti, quelle che continuavano a discendere dai monti ebbero senza dubbio sul nuovo piano, e per lungo tempo, incerto ed instabil corso; e ciò tanto più quanto maggiore è il numero dei torrenti, che in occasione di lunghe e dirotte pioggia guadagnano il piano, e che colle materie che trasportano si disputano a vicenda il proprio letto. Sembra infatti che il Melezzo, il quale discende dalla così detta Pioda di Crana, e che ora si porta all' est, andasse in altri tempi verso l'ovest, e si congiungesse coll'altro Melezzo, che si porta nell'Ossola. I torrenti delle valli di Ragno, e di Corio, strascinaodo continuamente numerosi materiali , alzarono il suolo tra S. Maria Maggiore e Druogno, ed obbligarono le acque del primo Melezzo ad aprirsi un nuovo sbocco. Queste acque sulle prime con instabil corso visitarono tutto il piano: finalmente discesero a Manlione e lungo le cento Valli a Locarno. E che ciò sia realmente avvenuto, ognuno convincerassi sapendo che nel decimoterzo secolo il Melezzo scorreva ancora a fiore di terra del piano Vigezzino, e bagnava le praterie esistenti fra S. Maria Maggiore e Malesco. Troviamo infatti da una pergamena dell'anno 1265, esistente [p. 98 modifica]nell’Archivio del Comune di Malesco, che le terre inferiori della Valle aveano mossa lite ai Comuni di Craveggia, Vocogno, e Toceno pel motivo che estraevano dal fiume, onde irrigare i propri fondi, una maggiore quantità d’acque di quella che realmente loro spettasse.

Col tempo queste acque si scavarono un letto, e tale, che al giorno d’oggi giunge alla profondità di oltre trenta metri dal piano. E queste sponde corrose dal fiume sempre, più provano, che tutto il piano Vigezzino venne formato dalle acque. Che esse mostransi tutte quante costituite da terreno di alluvione, da sabbia e ciottoli, e tali probabilmente mostreransi a ben maggiore profondità ancora, e sino a che il letto del fiume abbia toccato di nuovo il primitivo fondo della Valle. Cosi il letto del torrente Lovana vicino à Malesco profondo fondo più di venti metri consta di uguali ciottoli di pietra oliare, come la superficie del suolo; ciottoli provenienti visibilmente da un monte di simil pietra situato a tre ore di distanza lungo il corso di quelle acque. Cosi nel piano detto delle Lotte fra S. Maria Maggiore e Druogno trovansi a discrete profondità le torbe e le piante pietrificate, state un tempo colà trasportate, e sepolte dalle acque. Cosi in una parola il pozzo Vigezzino riempissi, ed all’instabile elemento succedette il piano terrestre, che noi osserviamo, ed abitiamo.

Quando ciò avvenisse, invano si tenterebbe per noi di determinarlo. Egli è certo che la Valle era abitata prima assai della venuta di Gesù Cristo, e sembra probabile che non si abitasse cosi tosto asciugata. Tale asciugamento effettuossi senza dubbio per gradi, e lentamente. Le acque ingrossate dalle pioggie dominarono per molti anni quel piano, già loro sede ordinaria. La scomparsa poi degli immensi ciottoli, e dell’infeconda arena, di che tutta esser dovea seminata la superficie, volle essa pure l’opera del tempo, e della paziente e laboriosa mano dell’uomo. Un suolo vergine però è presto fecondo, [p. 99 modifica]e questa fecondità congiunta colla bellezza del cielo, coll’amenità del sito, colla purezza dell’aria ha senza dubbio contribuito alla pronta popolazione della Valle. Chi primo però calcasse la nostra patria terra; chi primo ne solcasse le viscere, noi lo ignoriamo, ed è cosa che giace sepolta nella voragine del tempo. Se la valle Vigezzo fu in ogni tempo parte dell’Ossola superiore, si potrebbe dedurre, che i primi abitatori, siccome di questa, fossero anche di quella gli Osci, colonia Toscana. Dice infatti Catone: Alpes omnes colonias fuisse Thuscorum incolae omnes assentiunt, et ab his vel ducibus, vel capitibus originum nomina gentibus, et locis indita, ut Retii a Rheto rege Lydorum, et Veronenses a Vera colonia thusca; Comenses a Fani Regiis Turrenis a quibus Vallis Vulturena, et Osci a quibus Oscela. Certo egli è poi che gli antichi abitatori di Vigezzo formavano parte dei popoli chiamati da Cesare ne’suoi commentarii: Debello gallico: Leponzii o Lepontini, dappoiché da tutti gli antichi scrittori, e segnatamente da Glareano, citato dal Capis, vengono i Leponzii così circoscritti: isti Lepontii medii sunt quinque populorutn, Rhetorum, Insubrium, Salassiorum, ac Helvetiorum; Rhetos quidem ab ortu, Insubres ad meridiem; Salassios, Sedunosque ad occasum, Helvetios ad seplentrionem habent. Ritenuto dunque, che i Salassi, ed i Seduni erano i popoli che abitano la valle d’Aosta, ed il Vallese, ne viene che i Leponzi erano costituiti dagli abitanti dei monti, e delle valli situati fra il monte Rosa ed il S. Gottardo; cioè dalle valli Sesia, Anzasca, Ossola, Antigorio, Vigezzo, e Cantone Ticino. L'identità del nome sembra dimostrare uguaglianza di origine, e secondo tutte le apparenze, un’antica colonia Toscana avviossi a questi monti occupando tutti quei siti, che mostravansi suscettibili di abitazione. Forse le intestine civili guerre, le proscrizioni, e tutte le altre umane miserie indussero i nostri primi padri a cercare rifugio e quiete fra queste balze. [p. 100 modifica]e forse in questo è veridica la popolare tradizione tutt’ora esistente in Vigezzo. E di fatto il Glareano nelle annotazioni al libro quarto dei Commentari di Cesare, dice manifestamente, che i Leponzii furono in altri tempi dispersi, e confinati nelle sommità delle Alpi: coeterum in universum hoc sciendum Lepontios olim dispersos fuisse, et circum summas alpes occupasse, ecc. Sarebbe vero, dice un moderno autore (3), che i Leponzii altri non fossero che quei seguaci d’Ercole, i quali non fidandosi di passare le Alpi insieme col loro condottiero si rimasero abbandonali nella Valle? Per verità il loro nome in greco indica l’abbandono. Comunque la cosa sia la denominazione di Leponzii scomparve, e subentrò quella di Osci, da cui Oscela, e finalmente Ossola. In quanto a Vigezzo in particolare, noi non taceremo come da alcuni autori, e segnatamente da Guido Ferrari, si argomentasse che gli abitatori della Valle fossero i Vocontii, deducendolo dal nome di Vocogno, che ancora conserva un Comune della medesima. Ma questo ci sembra assai incerto, tanto più che Vocogno è uno dei più piccoli Comuni fra quelli dei quali è composta la valle Vigezzina.

Dalle sopra dette cose erronea certamente risulta l’opinione di coloro, i quali pretendono, che i primi abitatori di questi luoghi fossero alcuni pastori della vicina valle Antigorio. Dicono essi che alcuni possessori di quella valle nello scopo di procurare pascolo al proprio armento s’introducessero a grado a grado nel seno di questi monti; si recassero quindi nei migliori siti e dei medesimi s’impadronissero. Queste visite in pria transitorie e di poca durata sarebbersi fatte in seguito più frequenti e più durevoli; sarebbesi incomincialo coll’edificare delle capanne; poscia delle stalle; finalmente delle case. Così, a loro senso, sorsero i paesi della valle Vigezzo. [p. 101 modifica] Dopo lunghe, e pazienti investigazioni ci venne fatto di conoscere procedere tale credenza da due fatti, o documenti che noi anderemo ora brevemente analizzando. Il primo consiste in una pergamena delli 26 novembre 1269 esistente nell’archivio comunale di Druogno, colla quale certi Guidobono, e Guifredo da Baceno in valle Antigono vendettero a diversi particolari per la maggior parte del cognome Druogno l’alpe Saxilio, e quasi lutto il restante territorio di quel Comune per quarant’otto doppie cosi dette tertiolorum. Il secondo è un’investitura in data 11 gennaio 1439 esistente nell’archivio comunale di Finero passata dai curati della chiesa di S. Stefano di Crodo a certi Giacomo Mazzarocco, ed Antonio Coroli, ambedue di Finero in valle Vigezzo, per totam illam decimam, et ius decimandi, qua decima coligitur, et eoligi debent ex antiqua consuetudine in et supra loto loco, e territorio de Finero et alibi in dicta Valle spectantem, et pertinentem dictae Ecclesiae Sancti Stephani, et Rectoribus, et Beneficialibus suis: e ciò per lire tre imperiali da pagarsi ogni anno nella festa di S. Martino, ed un mazzo di rami d’oliva verdi nella domenica delle palme avanti la messa. Inferiscono dal primo di detti documenti , che i possessori dei terreni Vigezzini fossero anticamente della valle Antigorio; dal secondo, che il Comune di Finero, e per conseguenza la restante parte della Valle fosse soggetta alla parrocchia di Crodo; dall’una e dall’altra illazione, che Vigezzo fu popolata dagli abitanti di Antigorio.

Ma oltreché trattasi di documenti posteriori di venti secoli, o poco meno, alla presunta primitiva popolazione di Vigezzo, conviene pure riflettere, che i Guidobono potevano essere originari di questa Valle, oppure esser loro pervenuti i detti beni per eredità, per dazione in pagamento, per donazioni, non infrequenti in quei tempi, per causa di dote, e per mille e mille altre cagioni. Erroneamente i tardi nostri nepoti [p. 102 modifica]rebbero che i primi popoli dell’Ossola furono Vigezzini dalla esistenza di molte vendile e compre falle da questi in quel territorio; e cosi erroneamente si deduce dall’istromento dei Guidobono, che i primi abitatori di Vigezzo fossero della valle Antigorio. Si aggiunga, che quella pergamena dice, che si cede tutto ciò che il Guidobono e fratelli possedono intus totum massum de Saxilio vallis Vigliettii in territorio de Druogno, per cui è manifesto, che in quel tempo esisteva già la comunità di quel nome.

In punto alla decima di Finero conviene osservare che questo luogo è il più lontano dei paesi della valle Vigezzo da Crodo; che la parrocchia di quest’ultimo luogo non venne eretta, a quanto si dice, che nel secolo decimo quarto, mentre quella di Santa Maria istituissi, come vedremo, nel quarto secolo; che Finero d’altronde prima dell’anno 1569 era membro della parrocchia di Malesco, e noi sappiamo che questa esisteva già nell’anno mille e cento, e che in origine fu smembrata da quella di Santa Maria Maggiore. Or dunque non si può in nessun conto dalla sopra citata investitura argomentare, che Finero fosse membro della parrocchia di Crodo, tanto più che non può l’umana mente persuadersi, che una parrocchia potesse avere dei membri a dieci ore di distanza. La decima di cui parlasi potrebbe derivare da molte altre cause. La chiesa, ed i parrochi di Crodo per lascito, per donazione e simili, erano forse possessori di beni stabili nel territorio di Finero, e può darsi che nel tempo gli cedessero a quel Comune mediante un’annua prestazione da esigersi in forma di decima. Può pure darsi che qualche privato , od anche qualche antico dominatore di Vigezzo trasmettesse il diritto di decima sul luogo di Finero alla chiesa di Crodo, e questa supposizione non è improbabile pei tempi che passarono, e per quelli soprattutto che da vicino seguirono al così detto Medio Evo, in cui dai supremi dominanti cedevansi in dono i paesi, le regioni. [p. 103 modifica]come ora si regala una piccola galanteria in occasione delle feste, o del capo d’anno.

Ben più fondata crediamo l’opinione di coloro, che pensano essere stati questi luoghi a quando a quando visitati dai Romani, e da que’ popoli, che per andare contro di Roma il sommo giogo delle alpi superavano. Chè questi a sostegno del loro assunto potrebbero produrre e l’esistenza in Valle di alcune opere, e nomi apparentemente di Romana origine, e l’autorità di molti scrittori, che narrano come le Romane Legioni, e l’immensa turba di quei fieri Cimbri sconfitti da Mario per questi monti passassero. E primieramente, si vedono nel torrente che mette a Finero scolpiti nella viva rocca diversi fori rotondi di oltre un piede di diametro, e due di profondità, i quali sono certamente assai antichi, e per quanto la tradizione dice, altre volte destinati alla triturazione del grano. Si vorrebbero pertanto i cosi detti pistilli degli antichi Romani.

Allo sbocco della Valle in vicinanza del comune di Re vi esiste un antico ponte in pietra sul fiume Melezzo che porta il nome di ponte Manlione, e che vorrebbesi perciò costrutto da Manlio. Sappiamo infatti che Manlio console di Roma passò nelle Gallie per combattere con G. Serviglio Cepione i Cimbri, e sappiamo che questi combattimenti, funesti pei Romani, seguirono non lungi dalle Alpi; imperocché, come scrive il Bescapè, il fiume Rodano divideva i due eserciti, e le fazioni sostenute da Cepione e da Manlio avvenivano a un di presso nei luoghi, dove pure infelicemente combatteva Catulo, vale a dire alle sponde del fiume Toce, come vedremo fra poco (4). E su questo combattimento di Calulo, o per meglio dire sul passaggio dei Cimbri in Italia, narra Plutarco nella vita di Mario, che i Cimbri, gli Ambroni, ed i Teutoni, [p. 104 modifica]chiamati anche col generico nome Celto-Sciti, procedenti in pria dalle nordiche regioni, ed in ultimo luogo dalle Spagne, avviavansi in numero di oltre seicento mila alla volta di Roma. Gli Ambroni, ed i Teutoni seguivano le coste del mare Mediterraneo, e recavansi all’incontro di Mario accampato alle sponde del Rodano, e colà ritrovavano sconfitta e morte. I Cimbri, separati dai compagni , avanzaronsi più verso il nord contro Catulo, il quale non credendo di opporre ostacolo al loro passaggio dalle Alpi, ritirassi alle sponde del fiume Atisone (Aτιδωυα); ma respinto anche da questa posizione lasciò ai barbari la regione che venne da essi occupata. Mario intanto prima a Roma si recava, e poscia Catulo raggiungeva, e conveniva coi Cimbri di combattere il tergo giorno in campo ad Vercellas.

Or bene alcuni Autori ignorando, per quanto sembra, il fiume Atisone, e scambiandolo coll’Athesis, ossia coll’Adige, fecero calare i Cimbri dai gioghi Tridentini, e fecero per conseguenza seguire la famosa battaglia loro data da Mario non ad Vercellas ma bensì presso Verona. Chi primo commise tale errore che fu poscia copiato, come suole, da molti altri senza punto curarsi di meglio esaminare la cosa, sembra essere stato l’istorico Floro il quale dice apertamente, che i Cimbri superavano le Tirolesi vette; che Catulo fu cacciato in Venezia, ove penuriava di vino e di carni; che i Cimbri invece ne abbondavano a segno, da lasciarsi dai medesimi ammollire. Dove egli, posteriore di tanto tempo ai fatti, traesse simili cose, noi al certo noi sappiamo, e forse nol sapeva egli stesso. Ben sembra che ignorasse l’esistenza, ed il nome del fiume Atisone; che non trovando altro nome che meglio corrispondesse fuori dell’Athesis, a questo si appigliasse, e che commesso il primo errore, ne seguissero tutti gli altri. A tale supposto tanto più siamo inclinati, inquantochè sappiamo, che il sopraccitato istorico amava di ornare le [p. 105 modifica]sue narrazioni con piacevoli aneddoti a danno spesso e ad onta della verità.

Ma avanziamoci ad un più minuto esame. Eusebio dice che i Cimbri furono sconfitti nelle vicinanze del fiume Po. Floro medesimo, e Plinio, nel vasto campo chiamato Caudio, o Candio, giusta Alciati e Castiglioni: Velleio vuole, che la pugna seguisse nei campi Raudii. Ora sappiamo, che nelle vicinanze del Po, e non molto distante da Vercelli trovasi tuttora un paese chiamalo Candia; che nel vasto campo posto fra Vercelli e Candia trovansi tutt’ora le vestigia della denominazione di campi Ro, Raude, Robio, Rodi, ecc.; che in quelle pianure trovasi un paese già chiamalo Arcomariano, ed ora Camariano, di cui al dire del lodato Bescapé (5) Omnino a Marii memoriam nomen est, et a Marii Victoria, quam una cum Catulo collega, retulit in campo, ut Plutarchus ait ad Varcellas; che agli Ambasciatori dei Cimbri Mario presentò i Re Teutoni stati presi nei monti Siciani, ora Valsesiani, i quai monti non a Verona, ma a Vercelli si trovano vicini; sappiamo per ultimo, che i Cimbri, differivano la pugna attendendo i compagni, e questi compagni, diretti lungo le sponde del Rodano, doveano certamente passare per le alpi Graie e Pennine, e discendere nel Piemonte. Ciò posto come avrebbero potulo attraversare l’Italia , e portarsi nelle vicinanze di Verona senza essere impediti dai Romani, e dalle tante fortezze naturali, ed artificiali, che doveano incontrare in cosi lungo viaggio?

A tutto ciò si aggiunga poi, che i greci esemplari di Plutarco, e lo stesso Alciati, ed altri molti ritengono concordemente i nomi di Atisonos, e di Vercelli. Non si può dunque in nessuna maniera variare, e convertire quello in Athesim, in Verona questo, imperocché non vi sarebbero più allora [p. 106 modifica]rità istoriche, certezza di luogo e di tempo. Nè si dica che l’odierno nome di Toce non concorda coll’Atisone, poiché se si ha specialmente riguardo al vernacolo, Atos, con cui si chiama dagli Ossolani il fiume, non si potrà a meno di ritrovarvi la massima analogia. D’altronde Leandro nel capitolo Leponzi dice manifestamente, che il fiume Zoza è quello dagli antichi nominalo Athiso, e di tale sentimento sono il lodalo Bescapè, il Capis, il Baudrand, il Durandi, il Napione, e moltis- simi altri. Che Plutarco dica che i Cimbri si divisero dai compagni ut per noricum irent, non ne viene che si dirigessero ai monti del Tirolo. Non è assolutamente da supporsi, che volessero intraprendere un così luogo viaggio per passare in Italia, e allontanarsi di tanto da loro alleati, e ciò tanto più in quanto che poteano più facilmente effettuare tale passaggio per le alpi Ossolane, e pei molti luoghi, che s’incontrano prima di arrivare alle Trentine vette. Non è possibile poi che in soli tre giorni potesse l’enorme turba di gente dal Tirolo portarsi ai campi vercellesi; che dall’uno all’altro luogo vi sono più di trecento miglia, e la strada ovunque intersecata da popolose città, da validissime fortezze, e da considerevoli fiumi, quali l’Adige, l’Oglio, l’Adda, ed il Ticino. All’opposto la Toce non è distante da Vercelli più di quaranta miglia, ed i campi vercellesi sono i primi che s’incontrano, passate le Alpi, capaci di permettere lo sviluppo di così sterminati eserciti. Questa fu senza dubbio la causa , per la quale si convenne di combattere al terzo giorno nell’indicato luogo; per avere cioè un piano conveniente, e per potere nei tre giorni ivi tutti recarsi.

Dalle sopra dette cose dimostrato adunque che i Cimbri passarono la Toce, e non l’Adige, e che combatterono nelle vicinanze di Vercelli, e non di Verona, ci resta d’esaminare quale propriamente fosse la strada dai medesimi tenuta per [p. 107 modifica]passare le Alpi, e pervenire alle sponde della Toce. E questo è precisamente lo scopo nostro, e la causa della digressione, che ci ha sinora occupati. Tre soli passaggi si trovano pei quali può un esercito dalle regioni oltramontane arrivare al piano dell'Ossola; pel monte Sempione, e valle di Vedro; per la Formazza, e valle Antigorio; pei santi Gottardo e Bernardino e la valle Vigezzo. Si arriva al Sempione camminando a ritroso del Rodano lungo il Vallese , e si sbocca nel piano Ossolano alla sponda destra del fiume Toce. Al S. Gottardo si giunge portandosi più al nord, guadagnando Altorf nel cantone di Uri, e si sbocca a Bellinzona, ed a questo luogo si arriva pure venendo dal S. Bernardino dopo di aver toccato Coira nei Grigioni. Da Bellinzona poi dirigendosi in linea retta all'occidente, e dopo un viaggio di circa dodici ore si arriva alla sponda sinistra della Toce attraversando Locarno, le Cento Valli, e la valle Vigezzo. Salendo il S. Gottardo dalla parte guardante il cantone Ticino in vicinanza di Airolo incontrasi una strada assai disagiosa, che dirigendosi più all'occidente conduce al passo della Formazza, quindi alla valle Antigorio, ed al piano Ossolano lungo la sponda destra di detto fiume Toce.

Ciò premesso ritorniamo al testo di Plutarco. Dice egli, che Catulo, il quale si era posto contro i Cimbri , non volle starsene a custodire i gioghi delle alpi per non separare di troppo le proprie genti, ma giù scese tosto in Italia, e fermossi al fiume Atisone, munendo l'una e l'altra sponda di forti trincee, e costruendo un ponte onde soccorrere quelli di là, se i nemici passando le stretture forzassero la guarnigione da quella parte. I barbari tanto orgoglio aveano, e tanta baldanza contro i nemici, che piuttosto per volere ostentare la robustezza loro, ed il loro ardimento, che per far cosa che necessitati fossero a fare, tollerarono ignudi che loro nevicasse addosso, e camminando così per alte nevi, e per ghiacci ascesero in su le vette, e di là su poi mettendo sotto a se stessi gli [p. 108 modifica]scudi che erano larghi, ed indi lasciandosi andare si calarono da quelle eminenze giù per lo chino, che era di una discesa lubrica e precipitosa, e dov'erano pendii liscii d'immensa estensione. Quando venuti furono ad accamparsi da presso, ed esaminato ebbero l'alveo del fiume, cominciarono a volerlo riempire, e tagliando quindi, come nuovi giganti, i poggi al dintorno strascinaron nel fiume e piante sbarbicate, e rupi divette, e rilievi di terra, onde a restringer venian la corrente e mandavan giù grosse moli , contro i sostegni che reggevano il ponte, le quali tratte a seconda della corrente medesima, con gli urti, e con le percosse loro il crollavano (6). I Romani intimoriti fuggirono, ed i barbari, assalito il forte, che era al di là dell'Atisone, il presero.

Da tale racconto impariamo da prima che i Cimbri passarono le Alpi non per una sola, ma per molle strade, dappoiché Catulo ritirossi per non separare l'esercito in tante parti onde difenderle tutte: impariamo poi che i barbari giungevano alle sponde del fiume venendo dall'alto; che queste sponde erano contornate da boschi, da rupi, da monti, come succede del fiume Toce; che trovavansi alla sponda opposta del forte, che era al di là dell'Atisone, il qual forte non poteva esser certamente che quello detto di Matarella; che infine, e per conseguenza erano alla sponda sinistra della Toce. Ora tutti questi argomenti lasciano fondatamente presumere che i Cimbri arrivassero al fiume Ossolano sboccando principalmente per la valle Vigezzo. E di fatto abbiamo veduto che procedendo dalle valli Divedro ed Antigono si arriva alla destra, e non alla sinistra sponda, e si arriva poi per una via piana e non per discese lubriche e considerevoli, come succede a chi viene da Vigezzo. D'altronde non è a supporsi che i Cimbri separati dai Teutoni per dirigersi più al nord, volessero [p. 109 modifica]nare sui loro passi; volessero riguadagnare la via che doveano percorrere i compagni, qual era quella delle sponde del Rodano, e del Sempione; via d’altra parte, e sponde, al dire di Plutarco, già occupate e difese dall’esercito di Mario. All’opposto i passi del S. Gottardo, e S. Bernardino, mentre trovavansi più al nord, offrivano ampio e non contrastato passaggio, e tanto più dacché dall’Epitome di Livio sappiamo , che i Cimbri si congiunsero nell’Elvezia coi Tigurini, ossia cogli abitanti del cantone di Zurigo, di dove si viene per linea quasi retta, e breve ad Altorf, e successivamente al passaggio del San Gottardo. Si aggiunga, che quelli del S. Bernardino, e del San Gottardo erano in quei tempi, al dire dell’erudito Guido Ferrari (7) , i passi più frequentati per venire da oltremonte. La valle Vigezzo poi dava comodo accesso alle sponde sinistre del fiume Toce, ove trovavasi l’esercito di Catulo, a cui erano diretti i Cimbri. Nè altra strada esiste, che procedendo da oltremonte potesse condurre quelle genti al luogo, a cui s’indirizzavano, e dove arrivarono, vale a dire, alle delle sponde sinistre dell’Atisone. Vero egli è che questi luoghi potrebbero ravvisarsi come incapaci a contenere ed alimentare tanta gente; ma si osservi che da Bellinzona all’Ossola havvi una vallata di oltre trenta miglia di lunghezza; che vi si trovano molti e popolosi paesi; molte e ben pasciute mandrie, e che finalmente quei barbari sapevano procacciarsi il vitto a molte ore di distanza tutto distruggendo quanto sul passaggio veniva loro fallo d’incontrare. Erano un torrente devastatore, un esercito di Cavallette, se ci è lecito il paragone, che accelera o ritarda il corso a seconda della minore o maggiore abbondanza di preda che incontra onde satollare l’ingorda fame.

Quale disastro recasse alla povera Valle tale invasione se lo giudichi il lettore, ben sicuro che qualunque più trista [p. 110 modifica]posizione non s’avvicinerebbe mai al vero. Erano i Cimbri popoli del nord, e di forme tali, che gli stessi soldati Romani ne restavano spaventati. Mario dovette restarsene per molto tempo neghittoso al cospetto del nemico onde assuefare le proprie genti a mirare senza terrore quelle brutte faccie, e Catulo vide le sue legioni fuggirsene precipitosamente si tosto che mirarono da vicino quelle straordinarie figure. Estrema era poi la loro ferocia, o per meglio dire, la loro barbarie. Al vedere i nemici mettevano degli urli da demonio, e non vi era cosa al mondo, che potesse intimorirli. Vinti poi, uccidevansi da se stessi anziché cadere nelle mani dei nemici. Dopo la sconfitta loro data da Mario, e nella ritirata , le donne cimbre uccidevano tutti i fuggiaschi, che capitavano alle loro mani, fossero essi i padri, fossero i mariti, od i fratelli; per ultimo i propri bambini; e se stesse strangolavano, attaccando i capestri alle corna dei buoi, e quindi aizzandoli a fuggire. Fu veduta una madre sospendersi alla cima di un timone con due suoi figliuoletti di quà e di là sospesi con un laccio ai taloni delle sue piante.

Ora simil gente, al numero, come si disse, di oltre seicento mila, ognuno può immaginarsi come trattasse i paesi pei quali passava, e come trattasse la nostra povera Valle. I monti, le sole Vigezzine rupi potrebbero narrarlo; ma i monti, e le rupi si mantengono muti, e lasciano le circostanze tutte di tale passaggio, e dei danni recati, sepolti nella più profonda oscurità. Ed in questo buio se ne giacciono pure gli avvenimenti, che seguirono in Valle dappoi, e sino al quarto secolo dell’era volgare. Il perchè alieni dalle arbitrarie supposizioni , e molto più poi dalle invenzioni, con che soglionsi da molti riempire le lacune lasciate dal tempo, ci è giuoco forza portarci in un tratto all’epoca avventurata, in cui la Cristiana religione rigenerava le Vigezzine genti, e Divina luce, inestimabile conforto apportava a queste alpestre regioni. Sembra fuori d’ogni [p. 111 modifica]dubbio, che ciò avvenisse sul finire dell’anno trecento dell’era volgare. Narra infatti la tradizione, mantenutasi costantemente fra di noi, che la chiesa di S. Maria Maggiore venne edificata dai santi fratelli Giulio, e Giuliano. Cosi assicuravano gli avi ai padri nostri, e questi lo ripetevano come articolo di fede a noi, come noi ai nostri figli lo tramanderemo, quale notizia non meno preziosa, che carissima, passata da bocca in bocca, da generazione in generazione, per lo spazio di oltre quindici secoli. I primi momenti, in cui si introdusse la cristiana religione in Vigezzo formarono, e formeranno sempre un ricordo consolantissimo per una popolazione sommamente religiosa; per una popolazione, che lontana dai frastuoni o dai trambusti del mondo, trova il migliore spediente nel rivolgersi al vero Dio, ed invocarlo fervidamente sì nelle prospere, che nelle avverse umane contingenze. Noi avremo campo di mostrare sovente ai nostri lettori una tale verità, e noi sempre lo faremo colla massima effusione di cuore, e con quella schiettezza, che ci siamo sino da principio proposti. Intanto rientriamo nel calle.

La per noi poc’anzi accennata tradizione viene confermata dall’autorità di molti autori, da antiche scritture, e dai residui monumenti del vetusto tempio di S. Maria. E in prima, gli autori che trattarono della vita di S. Giulio attestano concordemente avere il Santo visitata la valle Vigezzo, e dato mano alla fabbricazione di un grandioso tempio dedicato alla Madre del vero Dio. Il Canonico di S. Giulio d’Orta, Antonio Maria Bonino, nella sua vita di S. Giulio stampata l’anno 1721 in Brescia, narra che S. Giulio in compagnia del fratello S. Giulano da una delle tre isole del Lago Maggiore, portossi nell’Ossola, ed in primo luogo si condusse a Cravegna, dove eresse la chiesa parrocchiale; indi ripigliando il cammino, da questa valle si portarono i due fratelli in quella di Vigezzo, ove similmente eressero la parrocchiale di S. Maria [p. 112 modifica]Maggiore, chiesa assai spaziosa e magnifica, con un oratorio detto in Druogno su la sboccatura della stessa Valle e ciò viene asserito, continua lo stesso autore, per tradizione antica dedotta da loro maggiori, e per la forma dell’antica architettura; ma per l’asprezza dei monti inaccessibili rivolsero i Santi i loro passi indietro, riportandosi nelle pieve di Omegna ecc. ecc. L’abbate Carlo Michele Giulino nella vita e nei miracoli dei santi confessori Giulio prete, e Giuliano diacono, stampata in Piacenza nel 1749 annovera fra le chiese fabbricate da S. Giulio la parrocchiale di Santa Maria Maggiore in valle Vigezzo, ed un oratorio in Druogno. Il Bescapè (8) chiama la chiesa di Santa Maria matrice di tutte le altre, e come il Giulino fra i popoli soliti recarsi annualmente, e processionalmente all’isola del Santo annovera quelli di Santa Maria di Vigezzo. Il Capis poi (9) chiama egli pure antica la chiesa di Santa Maria, e dice essere appellata Maggiore perchè matrice di tutte le altre. In una pergamena portante la data delli 24 febbraio dell’anno 1022 da noi posseduta, trovasi indicato per testimonio un certo Ioannino, Parroco di Santa Maria, e sottoscritto un certo Bernardo, Notaio de Sancta Maria de Vigetio. Tale documento prova dunque in via assoluta che la nostra chiesa non solo esisteva , ma già era costituita in parrocchia al principio del mille, vale a dire nove, e più secoli or sono.

Per rapporto all’architettura, sanno i lettori Vigezzini, che questa chiesa era di molto infossata nella terra , con piccole aperture, e piccolissime finestre, per modo che riusciva assai oscura anche di pieno giorno: sanno poi che era tutta composta di pietra ollare, detta comunemente Lavegera, e che su tutte le pareti vedevansi tratto tratto scolpiti dei [p. 113 modifica]schi, e degli animali d’ogni sorta e d’ogni figura, che le davano un singolare aspetto. Noi possediamo un antico dipinto su grossa tavola di legno di quest’antichissimo tempio, sul tetto del quale stanno effigiati una pianticella in piena vegetazione, e la Beata Vergine che afferra pei capelli un uomo, che giù cadeva dall’attiguo campanile. Narra la tradizione, che questa chiamavasi la Madonna del Brenciolo (Iuniperus), e che operava il miracolo su quel quadretto dipinto. Appare poi dal medesimo che il primitivo tempio di Santa Maria veniva costituito da una navata di mezzo alta ed assai stretta, e da due laterali molto basse; che aveva una sola ed ampia porta con un rosone trasparente al di sopra, e diverse finestre laterali strette, e terminanti nella parte superiore ad arco rotondo; che i muri all’esterno erano perfettamente lisci, e costituiti da pietre quadrilatere uniformi, sovrapposte alternativamente le une alle altre; che il tetto veniva formato da tanti pezzi di legno essi pure uniformi e quadrilateri; che sul sommo vertice del frontone, o facciata che voglia chiamarsi, sorgeva una colonna di forma rotonda surmontata da una piccola croce di sasso.

Anche i residui tutt’ora esistenti di questo tempio mostrano a chiare note la sua antichità. Fra questi si vedono 1° una colonna di pietra ollare, ora esistente fuori del borgo di Santa Maria Maggiore verso Crana, sui quattro lati del cui capitello stanno rozzamente scolpiti dei quadrupedi, e degli uccelli di strane forme; 2° un Orso pure rozzamente scolpito in pietra ollare, il quale tiene afferrata colle zampe anteriori, e coi denti una testa di un bambino; 3° una specie di serpente a due teste, e munito di gambe scolpito su di una lapide pure di ollare; 4° diversi grotteschi, e specialmente una grande ruota o rosone trasparente, ed una lunga cornice, o balaustrata ad archi, i quali si vedono sulla facciata dell’attual chiesa parrocchiale. Ora noi sappiamo che queste [p. 114 modifica]ture erano già in uso presso gli antichi tempi pagani, e che sotto il nome di geroglifci costituivano il mistico linguaggio dei sacerdoti egizi. Sappiamo eziandio, che molle delle primitive chiese Cristiane vennero costrutte coi materiali di questi edifizi, ed anche puramente scambiate dal cullo idolatrio a quelle del vero Dio. Perciò in quei primi tempi vedevansi ancora le pagane sculture, ed introducevasi quel genere di architettura, che durò poi sino al Medio Evo, e che rituale o simbolico chiamossi. Si aggiunga, che i primi edifizi innalzati al culto cristiano ritraevano molto delle famose sotterranee catacombe, nelle quali i primi fedeli rifuggivansi onde pace implorare, e pace trovare contro le incessanti sterminatrici persecuzioni: erano perciò bassi, angusti, oscuri, con una sola ed ampia porta, con grande semplicità, e quale in somma per noi si disse essere stato quello credo ai tempi di San Giulio nella valle Vigezzo, e cosi sul finire del trecento dell’era nostra.

Ed a più ampia prova di quanto si disse, non che a maggiore illustrazione delle Vigezzine storie, noi riportiamo letteralmente il contenuto di una pergamena dell’anno mille, e cinquecento, ed esistente nell’archivio della nostra chiesa. Essa incomincia: In nomine Domini amen. Anno nativitatis eiusdem millesimo quingentesimo indictione tertia, die lune prima mensis lunii. In loco de Sancta Maria vallis Viglietii, ibique in domo beneficii domini presbiteri Antonii Melerio beneficialis dictae Ecclesiae: Cum ita sit quod ab antiquo per paucos principales Cristianorum in dicta valle Viglietii constructum, et edificatum fuerit templum unum magnum cum testudinibus, et campanile maius sub nomine et ad laudem Omnipotentis Dei, et Sanctae Virginis Matris. Et quia ipsum templum de intus obscurum erat ob exiguitatem fenestrarum rito antiquo constructarum; tandem voluntate Divina et gloriosae Virginis Mariae iam superioribus annis [p. 115 modifica]proxime elapsis convenerunt in uno sic dicto animo venerabiles Presbiteri Antonius de Melerio, Michael de Magistris de Toceno et Benedictus de Penonibus omnes tres Rectores, et beneficiales Curati dictae Ecclesiae, et cum eis maiores populi Consules, et homines locorum parrocchiae dictae Ecclesiae per quos statutum fuit praedictum templum illustrari, clarificari, et augmentari debere, et pro ipso opere perficiendo perquisitis multis opificibus modernis, advenit Magister Matheus de Varisio edificiorum opifex doctissimus, qui pro libris duobus mille quinquecentum imperialibus convenit opes antiquum in anteriori parte ipsius templi removendum et ipsum templum reficere, illustrare, eterificare, et lumen magnis fenestris augmentare, cum sacrestiae arcibus duobus magnis triumphalibus, testudinibus, tecto et muris de foris lapidibus lavoratisi pillonis, et aliis laboreriis qui de presenti constructi adparent. Deduciamo da questo documento, che la chiesa di Sanla Maria chiamavasi già antichisima nel mille e cinquecento; che essa fu in origine fabbricata da pochi Cristiani; che era l’unica in valle Vigezzo: in dicta valle Viglietii constructum et edificatum fuerit templum unum magnum: e finalmente che era oscura, e fornita di strette e piccole finestre secondo l’antico rito. Che se a tutto questo aggiungiamo quanto per noi già si disse; se soprattutto riflettiamo, che la chiesa in discorso esisteva già nell’anno mille, e non avea i caratteri architettonici propri del Medio Evo, vale a dire il gotico stile, ma bensì quelli propri dei primi secoli; noi sempre più verremo assicurati, che la Cristiana Religione col primo tempio fu introdotta in Vigezzo dai santi Giulio, e Giuliano sul finire dell’anno trecento.

  1. Novaria, seu de Ecclesia Novariensi. Novar. 1612
  2. Viaggio ai tre laghi
  3. Lizzoli: Osservazioni sul dipartimento d’Agogna. Milano 1802.
  4. Bescapé. Novaria, pag. 218
  5. Novaria, pag.82
  6. Plutarco, Vita di Caio Mario, Traduz. del Pompei.
  7. Lettere Lombarde
  8. Novaria, pag. 187-230
  9. Memoria della Corte di Matarella. Milano 1673.