Cesare/V

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IV VI
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Invece di ritornar subito a Salvore, come le aveva raccomandato il signor Luigi, Emilia, pregata vivamente dalle cugine, rimaneva parecchie settimane in loro compagnia. Ma dacchè aveva capito che il vecchio conte non la vedeva di buon occhio, sfuggiva tutte le occasioni di trovarsi con lui; tanto più, che le riesciva assolutamente antipatico.

A poco a poco ella aveva trovato de’ buoni pretesti per non scendere nemmen più nella sala comune all’ora del desinare. Del resto quel vecchio così rigoroso in certi rapporti, lasciava incerti altri che ciascuno facesse il comodo suo. Quella casa era un governo assoluto, e nello stesso tempo era il regno dell’anarchia. Già, la casa era tanto grande, [p. 61 modifica]e il vecchio così metodico nell’uscire e nel rientrare, che parecchie persone ci avrebbero potuto abitare dei giorni e forse anche delle settimane, senza essere vedute da lui.

All’undici però bisognava che tutti quelli cui era concesso dormire al secondo piano — dove dormiva la famiglia — fossero ritirati nelle loro camere: il conte nonno, preciso come un orologio, andava a chiudere la porta foderata di lamiera di ferro, colla quale si chiudeva tutto l’appartamento, e portava la chiave in camera sua. Alle sei del mattino s’alzava e andava a aprire da sè.

Queste precauzioni erano la conseguenza d’un assalto di ladri notturni, che il conte aveva respinto coraggiosamente un vent’anni addietro.

Fra i contadini però era molto accreditata l’opinione ch’egli passasse la notte a contare i marenghi nascosti misteriosamente nella parete della sua camera.

Ma per farsi un’idea giusta del carattere singolare di quest’uomo, delle sue prepotenze e della sua debolezza, bisognava vederlo a tavola. La nuora e i nipoti non parlavano mai se lui non ne dava in certo modo il permesso con qualche interrogazione. S’egli taceva, appena Cesare, quando c’era, osava [p. 62 modifica]scambiare qualche parola sommessa e qualche sorriso colla madre e colle sorelle.

Il cappellano era un commensale quasi di tutti i giorni; ma non tutti i giorni era egualmente ben accetto e ben trattato.

Davanti al padron di casa erano sempre preparati due piatti: egli si serviva il primo ad ogni portata, poi empiva l’altro piatto, molto fondo e largo, che il domestico portava nell’anticamera, dove si trovava sempre un contadinello che l’aspettava.

A maniera di compensazione alla sua famiglia gentilizia, poco allegra, come abbiamo veduto, il nobile signore se ne era, pareva, creata un’altra, la quale s’adagiava assai bene vicino a quella, nell’ampio cortile del palazzo avito, all’ombra delle quercie secolari.

Era una famiglia di contadini che viveva relativamente nell’abbondanza e si componeva di marito e moglie e tre figliuoli: figliuoli del conte, dicevano.

Nè lui si curava di far tacere questa voce. Era troppo convinto della propria superiorità su quanti lo circondavano, perchè ciò gli paresse necessario.

C’era un non so che d’antico, di patriarcale in mezzo ai vizi e alle superbie di questo discendente di feudatari, ribelle a tutti i diritti moderni ch’egli [p. 63 modifica]chiamava le usurpazioni rivoluzionarie. Certo egli l’amava, a modo suo, quella donna rozza, che non avrebbe mai levata dal suo stato di contadina e alla quale aveva dato marito lui. Bisogna confessare però che non aveva durato fatica a trovarle marito: la cosa s’usa in que’ paesi: codesti contadini, codesti schiavi che vivono per quei poderi in qualità di coloni o famigli — una specie di domestici salariati e mantenuti, i quali servono sempre la famiglia tanto in casa che lavorando i campi — sono sempre felicissimi di sposare le donne che piacciono al padrone.

L’amava come poteva amare lui; ma certo è che sulla tavola dei Conti di *** non compariva come si suol dire, un chicco d’uva, senza che quella donna non bella più, nè giovane, ne ricevesse la parte che il padrone giudicava le fosse dovuta.

Ma lui era sempre il padrone, ed ella la povera contadina che s’inchinava umilmente al suo passaggio.

Del resto il conte nonno, in mezzo a tutte le sue stranezze e l’avarizia e la boria, non aveva abbandonato i cari studi della sua giovinezza, e quando non andava a caccia passava giornate intere chiuso nella sua biblioteca: il suo spirito così tenace in [p. 64 modifica]pratica, così nemico a ogni idea di libertà, a ogni principio d’eguaglianza, era quasi rivoluzionario in scienza e in letteratura.

Il cappellano era un commensale quasi giornaliero della sua tavola, ascoltava tutte le domeniche la messa in mezzo ai suoi famigli e coloni, tra la famiglia legittima e quella illegitima, ma egli non credeva in Dio. Senonchè, questa incredulità naturale secondo lui al cervello dell’uomo superiore, gli sarebbe sembrata un’enormità, se qualcuno l’avesse tradotta in atto davanti agl’inferiori. E in ciò somigliava a molti, anche del nostro tempo, e precorreva certe dottrine opportunamente ipocrite.

Emilia, dopo averlo osservato bene, confessò a sè stessa che non lo poteva soffrire. A quell’età giudizi sono così assoluti! Ma l’antipatia che sentiva per il nonno non diminuiva menomamente l’amore postumo per il nipote.

Fra le sue cuginette ce n’era una, la piò piccola che, somigliava molto al fratello. Questa bimba divenne la prediletta di Emilia: si chiamava Ida e non aveva più di undici anni, ma vivace e intelligente, sebbene poco educata: se la teneva sempre vicina come una consolazione.

La vita di queste cinque ragazze in quella casa [p. 65 modifica]solitaria, non circondata altro che dalle casupole de’ contadini e da campi e da boschi, merita che se ne dica almeno qualche parola. La maggiore aveva ventun anno ed era bella e spiritosa, tanto che la fama delle sue attrattive s’era divulgata e il nonno aveva dovuto respingere parecchie domande di matrimonio. Egli aveva in animo di rifiutarle tutte, per non metter fuori la dote. Quanto a lasciarla sposare senza darle nulla, il decoro della famiglia non poteva permetterlo. Ma la ragazza sapeva che a ventiquattr’anni sarebbe stata libera, e s’era già fidanzata in segreto. Le altre quattro erano tutte tra gli undici e diciasett’anni, tutte vispe e graziose, appena vedevano sparire il profilo del nonno, sempre pronte a fare qualche merenda o a ballare. Le merende tutti i giorni, i balli quando il vecchio andava alla caccia.

Nè mancavano i ballerini.

Capitavano sempre al momento opportuno. Dove ci sono fiori, le farfalle svolazzano volontieri.

Quando il nonno andava a caccia la cameriera correva in soffitta e metteva fuori i tappeti per darci aria; era un segnale convenuto, e punto compromettente.

La finestra si vedeva da lontano; quei tre o [p. 66 modifica]tro giovani che abitavano a poche miglia de’ dintorni, montavano subito a cavallo e correvano al castello del conte. E quando per una circostanza qualunque non potevano venire, quelle che avevan voglia di ballare a tutti i costi si contentavano dei figliuoli del fattore o di qualche cuginetto dalla mano sinistra.

Tutto questo però accadeva prima della disgrazia di Cesare. Dacchè Emilia aveva portato il doloroso messaggio della sua morte, le povere ragazze parevano cinque ombre, non ad altro intente che a distrarre un po’ il dolore della loro mamma.

Appena se si permetteva al fidanzato di Maria, la sorella maggiore, di fare qualche breve visita di nascosto.

In que’ momenti Emilia sentiva più che mai la tristezza della sua posizione, pensando a una felicità che stimava perduta per sè irreparabilmente, prima d’averla conosciuta.

Un giorno ella escì pian piano dal salotto mentre le sue cugine stavano a guardare una cassettina di gingilli eleganti che il giovane aveva portato in dono alla sua fidanzata. Voleva andare a chiudersi nella sua camera come soleva fare quando era troppo disperata, e ogni parola le riesciva grave. Ma nel passare davanti a un uscio chiuso si sentì


1 [p. 67 modifica]presa da un nuovo desiderio. Quell’uscio metteva nella camera di suo cugino. Non ci era mai entrata; nessuno della famiglia aveva avuto il coraggio di entrarci dacchè credevano che il povero giovane non vivesse più.

Emilia pensò che avrebbe pianto meglio là dentro.

Era fatta così, quando si sentiva agitata da un sentimento potente, andava in cerca delle commozioni più strazianti e provava una voluttà vertiginosa nell’eccitamento del suo dolore.

Era un bisogno della sua indole che il suo sangue corresse più rapido, che le fibre vibrassero, sia d’affanno o di gioia, l’importante era di sentirsi vivere, di consumare in qualche maniera le forze sovrabbondanti che la schiacciavano col loro peso.

I giorni in cui avrebbe cercato la pace a tutti i costi erano ancora lontani: i giorni allorchè la potenza vitale s’illanguidisce, le fibre si irrigidiscono e la morte anticipa su noi i suoi diritti. Lei diceva che gli stoici e gl’indifferenti erano tutti gente vecchia, o gente che non ha saputo o non ha potuto esser giovane.

Il cuore batteva forte a Emilia entrando in quella camera. Il sole la illuminava giocondamente, quel [p. 68 modifica]bel sole d’ottobre che non è più cocente come in estate, non è ancora pallido e fosco come nel novembre, ed ha in sè tutto l’incanto della bellezza giovanile, misto al fascino acre e misterioso degli ultimi piaceri.

La tensione delle sue fibre si rammollì: quella cameretta così serena aveva come un profumo di speranza; non pareva mai la camera abbandonata di un morto.

Ma quando pensò che lui, quel bel sole, non lo vedeva più; quando vide il ritratto suo, ch’egli teneva a capo del letto, ornato ancora di rose appassite, e pensò che nessun fiore avrebbe rallegrato la sua tomba deserta e ignota in paese lontano, ella sentì tutta la crudele ironia di quel contrasto, e i singhiozzi uscirono prepotenti dal suo petto oppresso; le lagrime sgorgarono abbondanti come la prima sera dai suoi occhi già stanchi dal lungo piangere.

Voleva vedere da vicino, baciare tutti gli oggetti che lo avevano occupato negli ultimi giorni prima della sua partenza: inebbriarsi di quelle memorie, imprimerle dentro al suo cuore.

Sul tavolino stava un libro nuovo, appena cominciato; una pagina piegata indicava il punto dove [p. 69 modifica]egli aveva iuterrotta la lettura. Lo prese in mano, lo guardò a lungo, poi vi posò le labbra, come se avesse voluto raccogliere l’ultimo alito, l’ultimo pensiero che lui ci aveva lasciato.

Aveva letto poche pagine, mormorò richiudendo il libro: come nel libro della vita.

Aprì lo stipo di cui conosceva il segreto. Là erano disegni abbozzati, un suo ritratto quasi terminato, e versi, e fiori secchi, e lettere e libercoli.

In uno scompartimento, distinte anno per anno, in tanti plichi legati da nastri color di rosa, c’erano le lettere ch’ella gli aveva scritto con placido affetto di sorella e ch’egli conservava con l’amorosa tenerezza dell’amante.

Insomma guardò ogni cosa; passò in rivista tutte quelle reliquie; toccandole appena e rimettendole al loro posto, dopo averle baciate con trepida riverenza.

In questo tempo s’era fatto tardi. Il sole era scomparso: la cameretta non aveva più l’aspetto gaio di qualche ora prima. Così c’era meno contrasto con lo stato dell’animo suo.

Finalmente sentì la voce di Maria che la chiamava e si dispose a uscire di là perchè nessuno sapesse che vi era entrata; ma prima volse ancora uno [p. 70 modifica]sguardo alle care pareti, mandò ancora un tenera saluto a tutte quelle desolate memorie.

Un foglio era caduto sul pavimento senza che se ne fosse accorta. Si sentì sgomenta come se avesse commesso un sacrilegio. Si chinò in fretta per raccattarlo e rimetterlo nello stipo, ma fu sorpresa della sua forma.

Era una lettera scritta su carta rozza, i cui caratteri parevano anche più rozzi.

Chi poteva averla scritta? Un contadino certo. Ma perchè l’aveva conservata?

Forse era una preghiera di qualche povero diavolo che Cesare si era promesso di esaudire, forse un ringraziamento di qualcuno cui aveva fatto la carità in segreto. Il pensiero di scoprire una bella azione ignorata che facesse onore al suo diletto, la spinse a leggerla, e lesse:

«Illustrissimo signor Padrone.

«Mi prendo la libertà di far sapere alla vostra Signoria Ill. che la ragazza che il signor padrone sa di chi voglio parlare, sta qualcosa di meglio e potrà coll’aiuto del signore tornare a lavorare. Ma la suddetta non ha avuto cuore di mandar via la [p. 71 modifica]sua bambina come mi aveva raccomandato anche la sua signora mamma. E il dottore gli ha dette che a portargli via la sua creatura, la si poteva far morire della disperazione o fargli perdere la ragione che Dio ci scampi tutti. Così noi s’è dovuto stare zitti e lasciarla fare. La si ringrazia tanto di tutta la sua carità e si aspetta i comandi di Vostra Signoria. Noi di salute coll’aiuto di Dio si sta tutti bene, e così si spera di lei. Speriamo una buona raccolta. Col più umile rispetto sono

«Il suo obbedientissimo
servitore e fattore
Francesco»


Emilia provava un singolare malessere man mano che leggeva; quando ebbe finito trovò che questo signor fattore si esprimeva molto confusamente. Che imbecille! Le faceva una stizza! Come lo avrebbe conciato. O cos’era quel guazzabuglio? Una ragazza che aveva una bambina che non voleva mandar via, ch’era stata malata, che stava meglio... o che razza di storia era mai codesta!

Si doveva trattare di qualche povera donna, alla quale la contessa Ottavia aveva fatto la carità col mezzo del figliuolo e l’aiuto del fattore. Eppure la [p. 72 modifica]ci provava un certo dispetto difficilissimo a essere giustificato, ma che non poteva domare.

Intanto sua cugina continuava a chiamarla e a cercarla; l’Emilia la sentiva aprire gli usci delle altre stanze, poi richiuderli e chiamarla ancora.

Gettò la lettera nel primo cassetto che le venne fatto d’aprire e uscì oppressa da una tristezza più cupa e muta, da quella camera; ma questa ultima impressione fu rapidamente dimenticata e come sommersa nel dolore abituale che le veniva dalla perdita del suo Cesare.