Chi l'ha detto?/Parte prima/67

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Parte prima - § 67. Sapere, studio, ignoranza

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§ 67.

Sapere, studio, ignoranza




Platone nel Protagora, Cicerone nel De Oratore, Senofonte nei Detti memorabili di Socrate, Pausania, Plutarco, narrano che i sette sapienti, un giorno riuniti a Delfo, avrebbero scritto a lettere d’oro nel tempio di Apollo il motto:

1517.   Γνῶθι σεαυτόν.1

che i Latini tradussero in Nosce te ipsum (cfr. Cicer., Tusculan. quaest., I, 22), e che attribuito fra gli altri a Chilone spartano, a Talete milesio, a Solone, e all’oracolo stesso di Apollo, fu poi ripetuto da poeti e filosofi come sentenza discesa dal cielo. Socrate fra altri la prese come fondamento della sua filosofia, e anche Giovenale (Satira XI, v.27)

E cœlo descendit Γνῶθι σεαυτόν


Ma sul vero significato di queste parole pare che già gli antichi fossero in errore. La verità è ch’esse facevano parte di due versi nei quali erano espresse le norme etiche per coloro che intendevano di visitare il Santuario di Delfo e di interrogarne l’oracolo: versi che già nel IV sec. av. C. non erano più interpretati esattamente. Lo Γνῶθι σεαυτόν in tal caso intendeva significare semplicemente questo, che prima di interrogare l’oracolo il fedele si formulasse chiaramente ciò che voleva domandare al Nume: quindi la esatta e completa traduzione non potrebbe essere che questa: «Ti sia chiaro, ciò che tu desideri con la domanda al Nume». Vedi: Partsch J., Griech. Bürgschaftsrecht, I. Th.: Das Recht des altgriechischen Gemeindestaats (Leipzig, 1909, a pag. 109).

Anche Pierre Charron disse in principio della prefazione del Libro I del suo Traité de la Sagesse (Bordeaux, 1601), che

1518.   La vraye science et le vray estude de l’homme, c’est l’homme.2

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La stessa sentenza trovasi in Pope che nell’Essay on Man (1733; ep. 2, 2) scrisse:

The proper study of mankind is man.

La Bibbia insegna che non può esservi scienza verace senza la fede, senza il timor di Dio:

1519.   Initium sapientiæ timor domini. 3

(Ecclesiastico, cap. VI, v. 16 ).


(su di che Chamfort causticamente osservava: «L’Écriture a dit que le commencement de la sagesse était la crainte de Dieu; moi, je crois que c’est la crainte des hommes»); e tanto Orazio quanto Dante ammoniscono a non tentare di spingere la scienza umana oltre quei limiti che la fede ha voluto imporle; il primo dice:

1520.   Quid sit futurum cras, fuge quærere. 4

(Orazio, Odi, lib. I, od. 9, v. 13 ).

(cfr. col n. 853) e più oltre:

1521.   Nec scire fas est omnia. 5

(Ivi, lib. I, od. 4, v. 22 ).

e l’altro:

1522.   State contenti, umana gente, al quia.

vale a dire contentatevi di sapere che le cose sono come sono, e non indagatene le troppo arcane ragioni. Fu detto da Dante in materia di fede, ma si estende anche ad altri argomenti. Anche il celebre fisiologo berlinese Emil du Bois-Reymond chiudeva un discorso pronunziato a Lipsia nel 1872 dicendo, a proposito del mistero della vita:

1523.   Ignorabimus.6

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Ma la scienza moderna non vuol saperne di questi vincoli imposti al suo libero esame. Essa si ribella, e innalza un inno al mitico Satana, che spinse i nostri primi progenitori ad assaggiare i frutti dell’albero della scienza, promettendo loro:

1524.   Eritis sicut dii, scientes bonum et malum.7

(Genesi, cap. III, v. 5).

Qui il poeti inneggia:

1525.              Salute, o Satana,
               o ribellione,
               o forza vindice
               della ragione!

(Inno a Satana di Enotrio Romano. cioè Giosuè Carducci).

nel medesimo ordine d’idee restava lo stesso Carducci, ammonendo che

1526.   Scienza è libertà.

nella magnifica epigrafe che nell’atrio dell’Università di Bologna posta nel 1870 alla memoria degli studenti morti per la libertà per la patria. Dice l’intiera iscrizione:

                         Fratelli,
               per diverse terre le vostre ossa
               per l’Italia tutta il nome,
               ma la religione di voi è qui
                         e passa
               di generazione in generazione
                         ammonendo
               che scienza è libertà.

(Opere di G. C., Ceneri e faville, ser. I, Bologna, 1891, pag. 76).

Sciogliendo i simboli, è certo però che la fede molte e molte volte si è trovata in contrasto con quel desiderio naturale di sapere che Dante chiamò: [p. 516 modifica]

1527.   La sete natural che mai non sazia,
Se non con l’acqua onde la femminetta
Sammaritana domandò la grazia.

di cui l’origine fu modestamente indicata dal Metastasio là dove disse:

1528.   ....La meraviglia
Dell’ignoranza è figlia,
E madre del saper.

(Temistocle, a. I, ss. 1).

E questa irrequietezza di sapere è così violenta che per antitesi si credettero felici coloro che possedevano la scienza, secondo la sentenza virgiliana:

1529.   Felix qui potuit rerum cognoscere caussas.8

(Virgilio, Georgiche, lib. II, v. 490).

Invece non è proprio la scienza quella che forma la felicità, più spesso essa concorre a fare più inquieti, più dolenti gli uomini:

1530.   Qui addit scientiam, addit et laborem.9

(Ecclesiaste, cap. I, v. 18).

In ogni modo l’apprendere soltanto non basta: occorre qualcosa di più che ci dice Dante nei due noti versi:

1531.                                           ....Non fa scienza
Sanza lo ritenere, avere inteso.

(Paradiso, c. V, v. 41-42).

e per ritenere, occorre esercitare la memoria, secondo l’ottimo precetto di Cicerone:

1532.   Memoria minuitur.... nisi eam exerceas.10

(Cato major, vel De Senectute. VII.).
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La memoria è veramente dono prezioso: e dov’essa si trovi in difetto, manca all’uomo una sicura guida: perciò chi erra, piuttosto che confessare altre deficienze, invoca volentieri la mancanza di memoria, secondo la maliziosa osservazione di un noto pensatore francese:

1533.   Tout le monde se plaint de sa mèmoire, et personne ne se plaint de son jugement.11

(La Rochefoucauld, Maximes, § LXXXIX).

Altro eccellente consiglio per apprendere bene è quello contenuto nell’adagio latino:

1534.   Non multa, sed multum.12

che ha origine dalla sentenza di Plinio Secondo il giovane (Epist., lib. VII, ep. 9): Ajunt enim multum legendum esse, non multa, ovvero da quella di Quintiliano (De instit. orat., X, 1, 59): Multa magis quam multorum lectione formanda mens.

Sono di Dante anche le due citazioni seguenti che non di rado ricorrono nel comune parlare ove si discorra di cose che al sapere e allo studiare si appartengono:

1535.   M’insegnavate come l’uom s’eterna.

(Inferno, c. XV, v. 85).

1536.   O voi che siete in piccioletta barca
     Desiderosi d’ascoltar, seguiti
     Dietro al mio legno che cantando varca,
Tornate a riveder li vostri liti!
      Non vi mettete in pelago! Che forse,
      Perdendo me, rimarreste smarriti.
L’acqua ch’io prendo giammai non si corse.

(Paradiso, c. II, v. 1-7).
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Il maestro, mentre insegna altrui, perfeziona sè medesimo, ciò che può dirsi anche con una citazione della settima lettera (§ 7) di Lucio Anneo Seneca:

1537.   Homines dum docent discunt.13

da cui si è fatto anche la frase più compendiosa Docendo discitur. Il maestro non soltanto fa il bene individuale dello scolaro, ma rende un nobile servigio al paese: lo sa la Germania, la quale ripete da lunghi anni che

1538.   Der preussische Schulmeister hat die Schlacht bei Sadowa gewonnen.14

dando forma sentenziosa, come spesso accade, alle idee svolte più diffusamente dal rinomato geografo Oskar Peschel in un articolo del suo periodico Das Ausland (Bd. 29, 17. Juli 1866, pag. 695), intitolato: Die Lehren der jüng. Kriegsgesch. Del resto si narra che anche il Duca di Wellington, il vincitore di Waterloo, avrebbe detto: The battle of Waterloo was won in the playing fields of Eton (Will. Fraser, Words on Wellington, p. 139), intendendo di dire che i successi dell’esercito inglese erano dovuti alle esercitazioni ginnastiche che ne rinforzano le giovani generazioni: Eton, nella contea di Buckingham, è famosa come sede di un antico collegio che fu tra i primi a mettere in onore gli esercizi sportivi.

Lo studente può appartenere a due categorie: c’è lo studente definito da Arnaldo Fusinato:

1539.                                           ....Studente
Vuol dire: Un tal che non istudia niente.

(Lo studente di Padova, p. 1).

c’è anche lo studente che studia davvero, che ha per il maestro suo quella venerazione che Dante aveva per Virgilio e che gl suggeriva le semplici parole: [p. 519 modifica]

1540.        Vagliami il lungo studio e il grande amore
     Che m’ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e il mio autore:
     Tu se’ solo colui, da cui io tolsi
     Lo bello stilo che m’ha fatto onore.

(Inferno, c. I, v. 83-87).

quella venerazione che ai discepoli degli antichi filosofi faceva ossequiosamente

1541.   Jurare in verba magïstri.15

(Orazio, Epist., I, 1, 14; Seneca, Epist., 12, 10).

con frase che ricorda le altre locuzioni Ipse dixit (αὐτὸς ἔφα), Magister dixit, che erano già proverbiali presso gli antichi (vedi p. es. Cicerone, De natura Deorum, I, 5, 10, parlando dei Pitagorici: «quos ferunt, si quid.... ita esset, respondere solitos Ipse dixit»; e anche Quintiliano, Inst. Orat., XI, 1, 27), ma furono certamente popolarizzate dalla Scolastica medievale. Il Fiorentino nel Manuale di storia della filosofia, P. I (Napoli, 1879, a pag. 87), scrive di Averroè, il quale, se non fu il primo a tradurre e commentare Aristotile, come per errore si diceva, fu il più grande tra i commentatori arabi: «Prima di commentare ei soleva riportare intero o compendiato il testo di Aristotile, preceduto sempre dalla parola Kdl, dixit; donde forse l’ipse dixit

Però, se ottima cosa è la scuola, non basta a formare la mente dell’uomo, che veramente si tempra nella diuturna esperienza della vita, quindi, giustamente si doleva Seneca che:

1542.   Non vitæ sed scholæ discimus.16

(Epist., 106, 11 fin.).

La nota sentenza:

1543.   Indocti discant et ament meminisse periti.17

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fu composta per servire di epigrafe al suo Abregè chronologique de l’histoire de France dal pres. Hènault, il quale nella 3a edizione del libro medesimo (Paris, 1749) disse di averne preso il concetto da due versi (parte III, v. 180- 181) del Pope nell’Essay on criticism che sono i seguenti:

     Content, if hence th’unlearn’d their wants may
          view, The learn’d reflect on what before they knew.

mentre per un’opera di erudizione spicciola, come potrebbe essere il presente Chi l’ha detto?, sarebbe acconcia epigrafe la frase inglese:

1544.   When found, make a note of.18

In un romanzo di Carlo Dickens, pressochè dimenticato, Dombey and Son (cap. XV), uno dei personaggi, il cap. Cuttle, si compiace di ripetere queste parole che le Notes and Queries, la rivista fondata il 3 novembre 1849 a Londra da W. J. Thoms, assunsero come motto. Le Notes and Queries che furono il primo esempio di rivista per la corrispondenza letteraria fra gli eruditi e gli studiosi di ogni genere, ebbero presto degli imitatori, in Olanda col De Navorscher di Amsterdam nel 1851, in America con l’Historical Magazine and Notes and Queries di Boston nel 1862, in Francia con l’Intermèdiaire des chercheurs et des curieux nel 1864, in Italia col Giornale degli Eruditi e dei Curiosi di Padova nel 1882. L’Intermèdiaire, che ancora vive, nel suo primo numero (15 gennaio 1864), facendo la storia dei suoi predecessori diceva che l’epigrafe delle Notes and Queries non era altro che il Singula quaeque notando di Orazio(?) e per conto suo lo adottava come motto lievemente cambiandolo in Singula quaeque legendo che era stampato in giro all’impresa di un alveare con le api in volo e accompagnato dagli altri due motti non meno significativi: Cherchez et vous trouverez, Il se faut entr’aider. Ma è veramente singolare che una rivista fondata per il culto della esattezza nelle ricerche e nelle citazioni, esordisca con uno sfarfallone: il Singula quaeque notando che molti veramente cercano in Orazio, non è d’Orazio. Basta consultare il minuziosissimo volume: A [p. 521 modifica] Concordance to the works of Horace di Lane Cooper, pubblicato a cura della Carnegie Institution a Washington nel 1916, per assicurarsi che la sentenza non è in Orazio, e che nulla di simile vi si trova, salvo un verso delle Satire (lib. I, sat. 4, v. 106): Ut fugerem exemplis vitiorum quaeque notando, che però ha tutt’altro significato.

Nell’Andria di Terenzio (a. I, sc. 3, v. 194), il servo Davo interrogato dai padrone su cose ch’egli non intende, risponde:

1545.   Davus sum, non Œdipus.19

Il quale Edipo, come tutti sanno, seppe spiegare l’enigma della Sfinge.

1546.   O sancta semplicitas!20

avrebbe esclamato Giovanni Hus (non Huss) il 6 luglio 1415, a Costanza, quando attendendo la morte sul rogo cui era stato condannato dal celebre Concilio, vide un contadino (o secondo altri una vecchierella) che mosso dall’ignoranza e dal fanatismo correva a gettare sulle fiamme altre fascine (ma pare che si tratti di una leggenda, poichè l’aneddoto è completamente ignorato dai narratori contemporanei e testimoni oculari della eroica morte del riformatore; vedi Louis Léger, Le cinq-centième anniversaire du supplice de Jean Hus, nella Bibliothèque Universelle et Revue Suisse, to. LXXIX, juillet 1915, pag. 22 in n.); — mentre Ovidio rimpiangeva che questa virtù si fosse ormai fatta così rara:

1547.             .... Aevo rarissima nostro
          Simplicitas.21

(Ars amandi, v. 241-242).
  1. 1517.   Conosci te stesso.
  2. 1518.   La vera scienza e il vero studio dell’uomo, è l’uomo stesso.
  3. 1519.   Il timor di Dio è il fondamento di ogni sapienza.
  4. 1520.   Rifuggi dall’indagare quel che avverrà domani.
  5. 1521.   Non è concesso di sapere tutto.
  6. 1523.   Non lo sapremo mai.
  7. 1524.   Sarete come Dei, conoscitori del bene e del male.
  8. 1529.   Felice chi potè conoscere le cagioni delle cose.
  9. 1530.   Chi accresce il sapere, accresce anche l’affanno.
  10. 1532.   La memoria diminuisce, se non la tieni in esercizio.
  11. 1533.   Tutti si lamentano di avere pota memoria, nessuno si lamenta di aver poco giudizio.
  12. 1534.   Non molte cose, ma molto [cioè profondamente].
  13. 1537.   Gli uomini, mentre insegnano, imparano.
  14. 1538.   La battaglia di Sadowa è stata vinta dal maestro di scuola prussiano.
  15. 1541.   Giurare sulle parole del maestro.
  16. 1542.   È nostro vizio d’imparare più per la scuola che per la vita.
  17. 1543.   Imparino gl’ignoranti, e godano i dotti di rinfrescare le loro cognizioni,
  18. 1544.   Quando trovate qualcosa, prendetene nota.
  19. 1545.   Io sono Davo, non sono Edipo.
  20. 1546.   O santa semplicità!
  21. 1547.   La semplicità, cosa rarissima a’ nostri tempi.