Commedia (Tommaseo)/Proemio

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Il secolo di Dante


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PROEMIO.



Molto fu scritto intorno al secolo e al poema di Dante, molte nuove bellezze nel suo canto scoperte, molte preziose notizie ad illustrarlo raccolte; onde pare che nulla o poco rimanga a sapere più oltre di lui, del suo libro, dell’età nella quale egli visse. Ma cosiffatta è la natura delle cose grandi, che di quanta più luce si rischiarano intorno, più nuove appariscono, e più arcane; laddove i piccoli oggetti, le tenebre e il dubbio giovano a rinvolgerli di maestà. Più studiasi l’anima di Dante, e più varia riesce l’armonia degli elementi che ne costituiscono la grandezza: più studiasi quel secolo, irradiato da tanta luce di storia, di tradizioni, di poesia; e cresce il desiderio di penetrarvi più addentro, di riguardarlo da’ lati men luminosi, che non sono i meno importanti, di cercare le cagioni d’effetti così singolari, e gli effetti di sì memorande cagioni. Quando l’erudizione e la scienza hanno investigato, meditato; allora sorgono, quasi rampolli a piè del vero, altri dubbi. Non è del nostro intendimento penetrare quanto ha di più recondito la natura d’uomo e di secolo così fecondi: ma non saranno qui forse inutili alcuni cenni a indicare con quale disposizione convenga leggere i libri di Dante. Nè le [p. vi modifica]dichiarazioni storiche, nè le estetiche considerazioni, nè le note diligentissime basteranno a dare a conoscere l’anima dell’Allighieri, che è l’anima che agitava il suo secolo, se il lettore con la propria meditazione non se ne crea a poco a poco un concetto, e non sa collocarsi nel vero punto a contemplare l’uomo interprete de’ dolori di un popolo.

Chi è egli dunque l’autore che, postosi accanto al soglio della giustizia sapientissima, sentenzia buoni e rei, gli uni esalta e beatifica, gli altri aggrava di tormento e d’infamia? Chi è egli il guerriero scienziato, l’amante teologo, il magistrato poeta, il giudice delle nazioni e dei re? Perchè tante contradizioni nella sua natura, nelle opere sue tanti toni diversi? Ora giusto come spirito più che umano, ora implacabile quasi demone, or tenero come amante? A conoscere quest’uomo tutti gl’indizii son preziosi: dispersi, accrescono le contradizioni; raccolti, le vengono conciliando.

Leggiamogli parte del suo segreto nel volto. Miriamo quella fronte alta, pronta a contrarsi alla meditazione, a aggrottarsi allo sdegno; quelle guance alquanto incavate, quel mento sporgente, che dicono vigore e accensibilità: dall’aria altera della fisonomia non so che di posato, di raccolto, e (in profilo riguardandola) di malinconico e di pietoso. Non un pensiero solo, un affetto, da quel volto traspare: que’ lineamenti che, leggermente considerati, o infedelmente ritratti, non spirano che la ferocia e la rabbia; la gravità, la sicurezza, il dolore, li modellano a espressione più varia e più profonda. Tu vi leggi un animo ardente, ma signore del proprio pensiero, ma rinchiuso in sé tanto da non lasciar prorompere invano scintilla del fuoco che lo divora; ma disposto a sentire in mezzo all’ira e all’orgoglio i più miti e nobili affetti; accessibile alla compassione che ama, al dolore ch’esalta l’anima, o la rende migliore. Ognuno avrà conosciuto fisonomie so miglianti a questa di Dante, e, nonché impresse de’ segni del rancore, informate a indulgenza e a pietà. Tale era [p. vii modifica]l’amante di Beatrice negli anni più belli, quando il dolore di un affetto solitario e le cure della repubblica sole gli agitavano il cuore: nè, prima delle umiliazioni che avvelenarono lo scorato suo esilio, si svolse in lui quello sdegno feroce che poi pullulò sì robusto. E quando io riguardo attentamente que’lineamenti che mi si offrivano alterati dall’ira, riconosco in essi il cantore di Francesca, di Matilde, di Beatrice, tanto chiaramente quanto il nemico di Filippo e di Bonifazio. Questa quasi commistione di due contrarii elementi, la sensibilità dell’ira e la sensibilità dell’amore, è come il fondo della natura di lui; le sono due corde dalle quali esce, or alterna e or unita, la potente armonia.

E l’attitudine che domina in quell’aspetto, che dà rilievo a tutte le qualità dell’uomo e del poeta, si è la fermezza: quella fermezza che, accoppiata all’amore, gl’ispirava nella grave età un lungo inno trionfale di gloria alla giovanetta del suo cuore, perduta negli anni più spensierati; quella fermezza che, accoppiata alla giustizia, lo costituiva giudice de’nemici e degli amici; che, accoppiata al dolore, gli faceva sotto alle mutate opinioni tenere nel fondo dell’anima i sensi stessi; che, accoppiata all’orgoglio, lo rispingeva dalle mura desiderate della terra natale, la qual egli sdegnava racquistare a prezzo di viltà; quella fermezza che, accoppiata all’ amore di patria e di vendetta, non gli permise porre mai giù la speranza, lo spinse di provincia in provincia, di corte in corte; e, ributtatone, ve lo ricondusse non tanto per mendicarne un ricetto, quanto per arrotare la più possente delle armi, la parola armoniosa, che doveva echeggiare per tanta via di spazii e di tempi; quella fermezza che diede forme giganti all’edifizio della sua imaginazione, e tutte le parti sin dal primo ne predispose, e le architettò fortemente; e avventò rigido, intero, diritto, come saetta, quel verso variissimo, e nell’apparente negligenza sempre ponderato e sicuro.

Da questa dote un’ altra gliene veniva, ch’è l’essenza [p. viii modifica]dell’uomo onesto, cosi come del grande poeta; la sincerità: e gliela leggi scolpita nel viso, e ne’ suoi scritti la trovi, o sia ch’esalti sè stesso, o sia che i propri difetti confessi; o ragioni freddo de’ suoi, e caldo degli estranei; o taccia di coloro che gli sarebbe giovato lodare, e parli altamente di quelli de’ quali il pur bisbigliare in segreto era risico. Per dare a conoscere l’animo suo senza sotterfugi, egli trasceglie un soggetto dove abbiano luogo accomodato fatti coetanei, ne crea sè medesimo attore, rigetta la lingua dei dotti, come impotente a sfogare tutto quant’egli sentiva; e là dove più fervono gli sdegni, quivi egli alza più chiara la voce, le parole più schiette quivi fa risuonare; ansioso di trasfondere sè negli spiriti tutti. Certamente non temeva che il suo segreto si divulgasse, l’uomo che addita le bestie fiesolane, e la p..... sciolta trescante co’re, e l’Italia non donna di provincie ma bordello, e la cloaca di sangue e di puzzo, e la rogna delle umane viltà. Queste voci esalate dall’ira, accanto all’espressioni di un amore gentilissimo, d’un alto sdegno, d’una religione severa e composta, dimostrano che la sua propria grandezza appunto gli rendeva intollerabile l’ipocrisia. Egli si confessa superbo, lascivo, traviato dall’alto sentiero della virtù: e gli par cosa vile sopprimere nulla dei proprii sentimenti dalla cui mistione era quasi conflato il suo genio. Lui felice, se i tempi men duri avessero temperato il suo sentire in tranquilla armonia con le cose di fuori, tanto che il dolore e l’orgoglio, innaspriti, non fossero diventati rabbia divoratrice, superba febbre d’immortale vendetta! Lui felice, s’egli avesse potuto mostrare sè stesso, e nulla manifestare che puro non fosse! Ma poichè le vicende del secolo, e quella debolezza che viene dalla non regolata forza, gliel tolse; apprezziamo almeno la sua animosa sincerità; e compiangiamolo.

Un’osservazione ancora innanzi di partirci dall’imagine del poeta. Chi punto conosce la schiatta toscana vivente, ne ravvisa in Dante (altri già l’osservò), quasi il generale modello: quella fronte, quel profilo, quel mento, a ogni [p. ix modifica]rivolger d’occhi rincontransi in tutta Toscana; e nelle terre venete altresì, che portano una delle più antiche e più gentili schiatte d’Italia. Lo direste nato a rappresentare così la sua nazione, come l’intero suo secolo. Quella forza mista di soavità che distingue il genio toscano dall’attico, e lo rende men vivido, ma più fermo; nell’Allighieri chi non la riconosce eminente, come in una di quelle creature in cui la natura si compiace di raccogliere e congegnare i disparati suoi doni?

Or dalla vita sua quali conseguenze possiam noi dedurre a meglio conoscere l’uomo? Nato di padre già dalle civili discordie cacciato in esilio, e’ comincia nelle domestiche tradizioni a succiare sin da’ primi anni l’ira e il dolore: al sentimento degli odii fraterni congiungesi la salutare esperienza della sventura, e la sventura in parte rattempera quanto è in quelli di soverchiamente selvaggio; la sventura maestra d’amore e di mansuetudine. Si pensi da quale famiglia e’ nascesse, e s’avrà in mano una chiave, a dir così, del suo cuore.

Disposto dalla natura e dalla fortuna all’amore, egli ama nella puerizia: e l’affetto gl’insegna la forza di tacere, di soffrire, di perfezionare sè stesso; gl’insegna i più intimi e più soavi fra i terreni dolori. La guerra di quest’amore ideale coi doveri di padre di famiglia, e con altre passioni, non turpi (io vo’ sperarlo) ma meno gentili, è una di quelle contradizioni che la sua natura ci spiega: dall’un lato, ingegno che ha di bisogno del grande; cuore ardente dall’altro, al quale una passione più prossima, più irrequieta, appare come necessità prepotente.

Educato nelle massime e nelle pratiche di religione severa e profondamente sentita, l’umana corruzione lo indusse a discernere la religione dai ministri di lei; a onorare quella, e questi giudicare severo; a congiungere coll’umiltà di credente devoto l’irriverenza d’incredulo audace. Gli uomini, che per solito non amano le distinzioni, e si compiacciono, per fuggire fatica, di guardare le cose [p. x modifica]da un lato solo; si trovano impacciati a giudicar quest’ingegni a’ quali apparisce così netto il limite che separa il vero dal falso; imparziali, talvolta almeno, nella stessa parzialità, e nell’ardore della passione presenti a sè stessi. Io non dico che Dante nell’ira non abbia varcato mai quel tenuissimo limite: dico che in mente sì retta non solo non s’hanno a chiamare contradizione ma logica necessità questi due elementi contrarii; riverenza alla religione, e dispetto di chi ne prostituisce l’amabile dignità.

E pare che la Fortuna (quella ch’egli imaginava ministra degli splendori mondani, e regnatrice beata nel volgere della sua spera) abbia voluto per tanti casi agitare la sua vita, e quasi per tanti stadii d’educazione condurre, e in contrarie posture atteggiare, quell’anima, acciocchè riuscisse più intero il suo svolgimento. Egli, insieme con le gioie e le inquietudini dell’amore, uso a provare i conforti e ad esercitare i rigidi uffizi della vera amicizia, vedersi a un tratto trasportato in una regione d’odio e di rancore, e quivi per forza di sempre sopravvegnenti sventure confitto e compresso! Prima non timido guerriero, poi cittadino autorevole, poscia in tempi difficili magistrato infelice, quindi esule e nemico impotente: l’onore e il dispregio, l’agiatezza e la povertà, gli affetti di famiglia e di patria, la vita meditativa e l’attiva, il vizio e la virtù: tutto egli ha sentito in sè stesso. E le lettere e le arti, e le divine scienze e le umane, e quelle che la materia riguardano e quelle che lo spirito, e l’antichità lontana e il mondo vivente, e la propria e le straniere provincie, e i vicini popoli e i remoti, e gli orrori della selvaggia e l’amenità della coltivata natura, e i principeschi e i popolari costumi, e i tirannici stati e gli anarchici e i liberi, egli ha visitati, dipinti, com’uomo che serba nella contemplazione la sicurezza e l’agilità della vita operante, con un’esclamazione, con un’imagine, con un cenno. Onde si potrebbe affermare che quella mirabile varietà che corre tra il suo Paradiso e l’Inferno, indichi la varietà delle sue proprie esperienze, e la guerra d’opposti principii che commoveva il suo secolo. [p. xi modifica]

Nessuna maraviglia dunque se l’odio in quel canto siede allato all’amore; se gli uomini stessi, per opposte qualità, sono qui rammentati con lode, altrove segnati d’infamia; se il sentimento della pietà viene a spargere una stilla di refrigerio sulle fiamme dell’ira, un po’ di dolcezza sul fiele del crudele disprezzo. Nessuna maraviglia se il ghibellino Federico, l’uomo sì degno d’onore, è rammentato come precursore dell’Inquisizione, cacciato tra gli atei; se la cara buona paterna imagine del vecchio che gl’insegnò come l’uomo s’eterna, è da lui rincontrata sotto le fiamme punitrici di Sodoma; se Bonifazio, ch’egli tanto acremente accusa, empiamente vessato dal coronato suo complice, gli trae di bocca accenti di compassione sinceramente addolorata, accenti che onorano non tanto la poesia e l’animo suo, quanto l’umana natura, la qual vi si mostra capace d’equità tanto degna del cielo.

E’ non cessa però d’esser uomo: l’equità sua a quando a quando traluce magnanima; ma poi le ire la offuscano, e il provocato dolore la irrita. Ardente nelle lodi, ardentissimo ne’ vituperii; ora vantatore della propria grandezza, ora dimesso, e conoscente (al modo che i vili non la conoscono) la fiacchezza propria; nemico d’ogni simulazione, ma non padrone di sè tanto da non adoperare la forza della mente nel dare alla passione stessa aspetto di austera virtù; pronto insomma a mostrarsi altrui non pur quale egli è, ma quale si crede d’essere; e in ciò non mai ingannatore, ma talvolta ingannato egli stesso. E ben disse che al suo poema avevano posto mano e cielo e terra; perchè in esso s’alterna quant’ha la parola ispirata di più austero, e la virtù di più candido, e l’amore umano di più profondo, e l’ira di più meditato, e di più amaro il disprezzo, e l’amicizia di più cordiale, e la riverenza di più modesto, e i bassi affetti di più difficile a indovinare a chi non li abbia sperimentati, e i nobili di più generoso. Semplice e forte, ardente e grave, conciso e abbondante, imaginoso ed esatto, severo ed umano, tragico e comico, dotto e poeta, Fiorentino e Italiano, simbolo delle contradizioni [p. xii modifica]che rendono gloriosa e infelice questa nazione e l’umana natura. Chi cerca in esso non altro che il poeta, non saprà degnamente apprezzarlo, giungerà forse a deriderlo; chi lo considera come un infelice mal conosciuto dal suo secolo, e che anela darsi a conoscere intero, facendo pompa dell’ira sua come della scienza, sdegnando e nei concetti e nei sentimenti e nello stile e nel linguaggio le raffinatezze dell’arte; quegli saprà doppiamente ammirarlo nelle bellezze, degnamente scusarlo nei difetti, indovinare gl’intendimenti ch’egli ama talvolta nascondere sotto il velo dei versi strani.

I destini di Firenze erano a quel tempo sì collegati ai destini della nazione intera, e l’Italia, allora più che mai, aveva tal parte nelle ambizioni e ne’ timori e nei raggiri di tutti i potentati europei, che Dante non poteva cantare della gran Villa, senza stendere la sua voce al di là del mare e de’ monti. Quella missione che ai dì nostri è affidata ai negoziati politici o alla libera voce de’ giornali, o a gravi trattali scientifici, Dante, l’esule e quasi mendico cittadino, esercitava, unico tra gli uomini di stato d’allora, unico tra i poeti di tutti i secoli, in mezzo all’intera nazione; la esercitava in quei canti, che i rozzi artigiani ripetevano nelle officine, che i grandi temevano e ambivano; che poi suonavano interpretati dalle cattedre, nelle chiese; che trasvolarono i secoli, ed ora risuonano sino in quel mondo ch’egli diceva senza gente, eternando, coi dolori e coi rancori d’un uomo, le glorie e le sventure d’un popolo. Nella mente di Dante, le miserie e le vergogne della discordia che agitava Firenze non erano che un anello di quella grande catena che si avvolgeva intorno al bel corpo d’Italia. Egli piange sul suo nido natio, ma dopo avere esecrato i tiranni di cui le terre d’Italia erano tutte piene. Gli Svevi da Federico a Corradino, gli Angioini da Carlo a Roberto, gli Aragonesi da Pietro a Federico, i Tedeschi da Alberto ad Arrigo, i Francesi da Carlo Magno a quel di Valois, e i Re di Spagna, di Navarra, di Portogallo, d’Inghilterra, di Scozia, d’Ungheria, di Boemia, di [p. xiii modifica]Norvegia, di Cipro, passano tutti a rassegna, o lodati con parole miste d’esortazione, di rampogna, o maledetti con la potenza che dà l’ira, l’ingegno, il dolore. Non provincia in Italia, non città ragguardevole quasi ch’egli non tocchi nel volo della concitata passione, dond’egli non tragga un idolo di speranza o di vendetta. Gli uomini di tre secoli gli passano dinnanzi quasi, paurosi di essere marchiati di infamia; ed egli come il suo Minosse, conoscitor de’ peccati segna a ciascuno il suo grado in quell’inferno il cui modello la vendetta gli stampa rovente nell’anima.

Dal vero gli venne il suggello del genio. Quel vasto disegno de’ tre mondi è ordinato alle civili intenzioni dell’esule. Le fosse ardenti e ghiacciate, i cerchi della solitaria montagna, le sfere armonizzanti di luce, sono il paese posto ad aggiungere alle figure storiche più evidente rilievo. E le pitture stesse della natura corporea, le stesse visioni del mondo della fede, in tanto nel poema di Dante son vive, in quanto vi scorre per entro, quasi sangue, la storica verità. Gli altri poeti, ai fatti che cantano, cercano una similitudine nel mondo de’ corpi: Dante agli oggetti del mondo corporeo cerca un’illustrazione ne’ fatti della storia; e il suo tremore alla vista dei diavoli è paragonato al sospetto di que’ che uscivano patteggiati di Caprona, e le figure dei giganti alle torri di Montereggione, e le tombe degli eresiarchi a quelle d’Arli e di Pola, e la scesa infernale alle rovine del Trentino, e la selva dei suicidi agli sterpi tra Cecina e Corneto, e gli argini del ruscello fumante a que’ de’ Fiamminghi e de’ Padovani, e le cappe degl’ipocriti alle cappe degli eretici arsi, e le piaghe de’ falsarii al marciume di Valdichiana, e il ghiaccio de’ traditori al Danubio in Austerich, e l’atteggiamento della frode al giacersi del bevero là tra’ lurchi. Le storiche allusioni ora prorompono dalla poesia dantesca come incendio dilatato, ora come guizzare di lampo; ora scendono quasi fiume pieno, ora serpeggiano quasi per vie sotterranee. Gli è un cenno talvolta, che significa una serie di fatti, di passioni; gli è talvolta un simbolo, che la rabbia assume per trasparir più potente dal velo della profezia e del mistero. [p. xiv modifica]

Quindi la difficoltà di penetrare certi intendimenti di Dante; difficoltà che gli antichi comentatori confessano o col tacere, o col poco dire, o col contradirsi. Inutili dichiarazioni grammaticali, e ingiurie a’ precedenti comentatori, e dubbi accumulati a dubbi, e allegorie a allegorie; tali i più de’comenti. Ma quello che più deve recar maraviglia, è l’abbattersi in uomini ai quali lo studio di Dante fu professione prediletta, e quasi unico vanto, e trovarli non curanti de’ fatti più importanti che commettono la poesia dantesca alla storia. Eccovi un autore di fama raccontare che i Guelfi ajutati da Manfredi sconfissero i Ghibellini: eccovi il Perticari creare Gianciotto signore di Rimini, e chiamar degno amico di Dante l’uomo che cent’anni innanzi amò la sorella di Ezzelino beatificata da Dante.

Non accade fermarsi a confutare l’idea strana del Foscolo, della missione apostolica che Dante riceveva lassù in Paradiso per riformare la Chiesa; egli che, gridando con ira passionata l’enormità degli abusi, professava ad un tempo La riverenza delle somme chiavi; e affermava l’impero di Roma essere stato stabilito da Dio

                    . . . . . . . . . . per lo loco santo
                    U’ siede il successor del maggior Piero.

Non accade fermarsi a confutare quelle ragioni di mera probabilità con le quali egli, il Foscolo, s’ingegna di dimostrare che Dante non diede fuori in vita sua del poema altro che i canti meno storici e meno iracondi; poiché non solamente le tradizioni a ciò contradicono, ma i fatti e l’indole del poeta, e le sue speranze, e i suoi fini, e la natura de’ tempi. Ma dal bene studiare le allusioni storiche del poeta viene dedotta questa conseguenza, che uomo di tale ingegno, di tale esperienza, e tanto desideroso di dimostrare in piena luce parte almeno di certe verità, oltre al dover essere onorato come poeta, dev’essere interrogato come narratore e pittore di grandi memorie; e [p. xv modifica]siccome le altrui autorità servono a rischiarare i suoi versi, così devono i versi di lui servire a confermare e conciliare le autorità degli storici antichi. In questo aspetto non è stata forse ben riguardata finora l’opera dell’Allighieri, e nessuna poesia: e pure la storia da simili comparazioni trarrebbe inaspettata e amenità e moralità ed evidenza.

Speriamo che la nostra letteratura, incominciando a considerare in Dante il cantore della rettitudine e della religione, l’amico della patria e del vero, il poeta storico, apprenderà, non più ad echeggiare la durezza de’ versi, o ad affettare l’ardimento di certi modi, o a ricopiare in nube le forme fantastiche della visione da lui scolpita, ma ad emularne la storica fedeltà, la libertà coraggiosa; e conoscerà finalmente, essere inefficace e peggio che inutile ogni poesia che non venga dall’anima.