Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto XXIII

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Purgatorio
Canto ventitreesimo

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Purgatorio - Canto XXII Purgatorio - Canto XXIV
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C A N T O   X X I I I.




1Mentre che li occhi per la fronde verde
     Ficcava io sì, come far sole1
     Chi dietro alli uccellin sua vita perde,2
4Lo più che padre mi dicea: Filiole,3
     Viene oggimai, che ’l tempo che n’è posto4
     Più utilmente compartir si vole.
7Io volsi il viso, e ’l passo non men tosto
     Appresso ai savi, che parlavan sìe,
     Che l’andar mi facean di nullo costo.
10Et ecco pianger e cantar s’udìe,
     Labia mea, Domine, per modo
     Tal, che diletto e dollia parturìe.
13O dolce Padre, che è quel ch’io odo?
     Cominciai io; et elli: Ombre che vanno
     Forse di lor dover solvendo ’l nodo.
16Sì come i peregrin pensosi fanno,
     Giungendo per cammin gente non nota,
     Che si volgeno ad essa, e non restanno;5

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19Così di rieto a noi, più tosto mota,
     Venendo e trapassando, ci mirava6
     D’anime turba tacita e devota.
22Nelli occhi era ciascuna scura e cava,
     Pallida ne la faccia, e tanto scema,
     Che dall’ossa la pelle s’informava.7
25Non credo che così a buccia strema
     Erisiton si fusse fatto secco,8
     Per digiunar, quando più n’ebbe tema.
28Io dicea fra me stesso, pensando: Ecco
     La gente che perdeo Gerusalemme,9
     Quando Maria nel Fillio diè di becco.
31Parean le occhiaie anella senza gemme:
     Chi nel viso delli omini legge omo,10
     Bene avria quive cognosciuto l’emme.
34Chi crederebbe che l’odor d’un pomo,
     Sì governando, generasse brama;11
     E quel d’un’acqua, non sapendo como?12
37Già era in ammirar che sì li affama,
     Per la cagion ancor non manifesta
     Di lor magrezza e di lor trista squama;
40Et ecco del profondo de la testa
     Volse a me li occhi un’ombra, e guardò fiso,
     Poi gridò forte: Qual grazia m’è questa?
43Mai noll’arei ricognosciuto al viso;
     Ma ne la voce sua mi fu palese
     Ciò che l’aspetto in sè avea conquiso.

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46Quella favella tutta mi raccese13
     Mia cognoscenzia a le cambiate labbia,
     E ravvisai la faccia di Forese.
49Deh non contender a l’asciutta scabbia,
     Che mi scolora, pregava, la pelle,
     Nè a difetto di carne ch’io abbia;
52Ma dimmi ’l ver di te; e chi son quelle
     Du’ anime, che là ti fanno scorta:
     Non rimaner che tu non mi favelle.
55La faccia tua, ch’io lagrimai già morta,
     Mi dà a pianger mo non minor dollia,14
     Rispuosi io lui, veggendola sì torta.
58Però mi dì, per Dio, che sì vi sfollia;
     Non mi far dir, mentre io mi meravillio:
     Chè mal può dir chi è pien d’altra vollia.
61Et elli a me: De l’eterno consillio
     Cade virtù ne l’acqua, e ne la pianta15
     Rimasa addietro, ond’io sì mi assottillio.
64Tutta esta gente che piangendo canta,
     Per seguitar la gola oltra misura,
     In fame e sete qui si rifà santa.
67Di ber e di mangiar n’accende cura
     L’odor ch’esce del pomo, e de lo sprazo16
     Che si distende su per la verdura.
70E non pur una volta, questo spazo16
     Girando, si rinfresca nostra pena;
     Io dico pena, e dovrei dir solazo:16
73Chè quella vollia all’arboro ci mena,17
     Che menò Cristo lieto a dir Elì,
     Quando ne liberò co la sua vena.

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76Et io a lui: Forese, da quel di’,
     Nel qual mutasti mondo a millior vita,
     Cinque anni non son volti infine a qui.
79Se prima fu la possa in te finita18
     Di peccar più, che sovvenisse l’ora19
     Del buon dolor ch’a Dio ne rimarita,
82Come se’ tu di qua venuto ancora?20
     Io ti credea trovar là giù di sotto,21
     Dove tempo per tempo si ristora.
85Und’elli a me: Sì tosto m’à condotto
     A ber lo dolce assenzio dei martiri
     La Nella mia col suo pianger dirotto:
88Con suoi preghi devoti e con sospiri22
     Tratto m’à de la costa ove s’aspetta,
     E liberato m’à delli altri giri.
91Tant’è a Dio più cara e più diletta
     La vedovella mia che molto amai,
     Quant’in bene operar è più soletta:23
94Chè la Barbaggia di Sardigna assai24
     Ne le femine suoe è più pudica,
     Che la Barbaggia dove io la lassai.24
97O dolce frate, che vuoi tu ch’io dica?25
     Tempo futuro m’è già nel cospetto,
     Cui non serà quest’ora molto antica,
100Nel qual serà in pergamo interdetto
     Alle sfacciate donne fiorentine
     L’andar mostrando co le puppe il petto.26

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103Quai Barbare fur mai, quai Saracine,
     Cui bisognasse, per farle ir coperte,
     O spiritali o altre discipline?
106Ma se le svergognate fusser certe
     Di ciò che ’l Ciel veloce loro ammanna,
     Già per urlar avrien le bocche aperte.
109Chè se l’antiveder qui non m’inganna,
     Prima fier triste che le guance impeli27
     Colui che mo si consola con nanna.
112Deh, frate, or fa che più non mi ti celi:
     Vedi che non pur io; ma questa gente
     Tutta rimira là dove il Sol veli.
115Per ch’io a lui: Se tu riduci a mente
     Qual fosti meco, e qual io teco fui,
     Ancor fie grave il memorar presente.
118Di quella vita mi volse costui,
     Che mi va inanzi, l’altr’ier, quando tonda
     Vi si mostrò la suore di colui;
121E ’l Sol mostrai. Costui per la profonda
     Notte menato m’à dai veri morti,
     Con questa vera carne che ’l segonda.
124Inde m’àn tratto su li suoi conforti,
     Salendo e rigirando la montagna
     Che drizza voi che ’l mondo fece torti.
127Tanto dice di farmi sua compagna,
     Che io serò là dove fie Beatrice:28
     Quivi convien che senza lui rimagna.

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130Virgilio è questi che così mi dice,
     Et additailo; e quest’altro è quell’ombra,29
     Per cui scosse dianzi ogni pendice
127Lo vostro regno che da sè lo sgombra.


  1. v. 2. C. A. così,
  2. v. 3. C. M. drieto
  3. v. 4. Filiole; presso gli antichi per parità di cadenza, come domine, vase ec. Questo viene dal vocativo latino filiole. E.
  4. v. 5. C. M. C. A. Vienne
  5. v. 18. C. A. ristanno;
  6. v. 20. C. A. ammirava
  7. v. 24. C. A. dell’
  8. v. 26. C. A. fosse sì
  9. v. 29. C. A. perde
  10. v. 32. C. A. legge ,
  11. v. 35. C. A. Sì gorvenasse, generando
  12. v. 36. Como; come dal quomodo latino. E.
  13. v. 46. C. A. Questa favilla
  14. v. 56. C. A. Mi dà di
  15. v. 62. C. M. Cadde
  16. 16,0 16,1 16,2 vv. 68, 70, 72. C. A. sprazzo - spazzo - sollazzo:
  17. v. 73. C. A. arbore
  18. v. 79. C. M. E prima
  19. v. 80. C. A. s’avvenisse
  20. v. 82. C. A. tu quassù venuto?
  21. v. 83. C. A. quaggiù di
  22. v. 88. C. A. Con suoi prieghi
  23. v. 93. C. A. a bene
  24. 24,0 24,1 vv. 94. 96. C. M. C. A. Barbagia
  25. v. 97. C. A. che vuo’
  26. v. 102. Puppe, puppa; secondo il latino puppis, e così profferisce il popolo toscano. E.
  27. v. 110. Fier, fiero; terza persona plurale del futuro dal singolare fie v. 117 cangiato l’n in r, come in fossero, avessero per fosseno, avesseno ec. E.
  28. v. 128. C. A. fia
  29. v. 434. C. M. quest’altri è

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C O M M E N T O


Mentre che li occhi ec. Questo è lo canto xxiii, nel quale lo nostro autore, continuando la materia incominciata di sopra; cioè del sesto cerchio del purgatorio dove elli fìnge che si purghi lo peccato de la gola, finge come vidde quelle anime che quive si purgavano magrissime; e finge come ne cognove alcuna e venne a parlamento con lei, e diceno insieme molte cose, come apparirà nel testo. Et in questo canto principalmente fa due cose: imperò che prima finge come venne a cognizione d’uno di quelli spiriti, che fu fiorentino et ebbe nome Forese, e come elli lo dimandò de la cagione perchè quelli spiriti del vi cerchio erano cosi magri, e come Forese li disse la cagione; ne la seconda finge come elli si meravilli che Forese sia venuto sì tosto in quello luogo, e come Forese ancora lo prega che si li manifesti, e finge altri ragionamenti ch’avessono insieme de la loro città, et incomincia quive: Et io a lui: Forese, ec. La prima, che serà la prima lezione, si divide in parti sei: imperò che prima finge come elli stava a vedere l’arbore ditto di sopra, e come fu sollicitato da Virgilio de l’andare, e come vidde nuova gente venire, e come elli ne dimanda Virgilio, et elli li risponde generalmente; ne la seconda finge come, venuta quella gente a loro, si meravilliava di loro e loro ragguardava, e come elli si meravillia de la loro condizione, et incomincia quive: Sì come i peregrin ec.; ne la terza finge ch’elli si meravilliasse de la loro magressa, et incomincia quive: Io dicea fra me stesso, ec.; ne la quarta finge come elli ricognove tra loro uno suo fiorentino che ebbe nome Forese, et incomincia quive: Già era ec.; ne la quinta finge come Forese lo prega che li dica chi elli è e li suoi compagni, e come elli dimanda lui de la cagione de la loro magressa, e quive incomincia: Deh non contender ec.; ne la sesta finge come Forese li dichiara quello che àe dimandato, e quivi incomincia: Et elli a me: ec.; e questa è l’ultima parte. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co l’esposizione litterale, allegoriche e morali. [p. 552 modifica]

C. XXIII — v. 1-15. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che mentre ch’elli stava a vedere l’arboro ditto di sopra, elli fu sollicitato de l’andare da Virgilio; e com’elli inviato uditte pianti e canti, de la qual cosa dimandò Virgilio non sapendo la cagione e Virgilio li risponde. Dice così: Mentre che li occhi; cioè miei, per la fronde verde; cioè de l’arboro ditto dinansi, Ficcava io; cioè Dante, sì, come far sole; ecco che induce la similitudine, ch’elli avesse sollicitudine di vedere quil ch’era tra le fronde del ditto arboro, che parlava come fa l’uccellatore che va cercando li uccelli; e però dice: Chi; cioè colui lo quale, dietro alli uccellin sua vita perde; et è notabile che l’uccellatore perde sua vita, andando di rieto alli uccellini; che perde lo tempo che in più utile cosa si vorrebbe spendere; che non è utile a nulla la vita dell’uccellatore se non a la gola; e però meritevilmente la riprende qui. Lo più che padre; cioè Virgilio lo quale tiene qui luogo di maestro, e veramente lo maestro è più che padre: imperò che dal padre riceviamo l’essere; e dal maestro lo bene essere; sicchè tanto è più tenuto lo discepulo al maestro che al padre, quanto è più lo bene essere che l’essere, mi dicea: Filiole; cioè dicea a me Dante, chiamando filliuolo, Viene oggimai; ecco che lo sollicitava, che ’l tempo che n’è posto; cioè lo tempo che c’è conceduto a far questo cammino, Più utilmente compartir si vole; cioè si vuole partire a le materie più utili, et a la materia più utile dare più tempo et a la meno utile men tempo. Et è qui da notare, secondo l’allegoria, che lo ficcare li occhi di Dante tra le verdi frondi non era altro che considerare la vigorisità de la scienzia del bene e del male; la qual cosa, benchè fusse utile, più era utile procedere ne la sua materia; e però à finto che Virgilio lo solliciti del tempo da essere speso più utilmente. Io; cioè Dante, volsi il viso, e ’l passo non men tosto; che fusse fatto l’ammonimento; ecco che bene si dimostra obediente: volger lo viso è atto che dimostra la inclinazione de la volontà informata de la ragione; volger il passo è atto che dimostra la inclinazione dell’affezione informata ancora da la ragione, Appresso ai savi; cioè Virgilio e Stazio che m’andavano inanti, che; cioè li quali, parlavan sìe; cioè cose sì notabili e dilettevili, Che l’andar mi facean di nullo costo; cioè ch’io Dante non sentia la fatica dell’andare; unde dimostra che lo ragionare de le cose utili per cammino fa dimenticare la fatica dell’andare. Et ecco pianger e cantar s’udìe; cioè da me Dante s’uditte pianto e canto di quelli spiriti ch’erano in quil cerchio: lo pianto dimostrava la contrizione del peccato, e lo canto significava lo ricognoscimento de la grazia che aveano ricevuta da Dio, che del loro peccato s’erano pentuti; et ecco che dimostra quel che cantavano: Labia mea, Domine; ecco quello che cantavano; cioè: Domine, labia [p. 553 modifica]mea aperies, et os meum annuntiabit laudem tuam, per ristoro che nel mondo aveano aperto le labbra el operato la bocca al peccato de la gola. E di quelli del mondo intende allegoricamente che debbiano così dire per emenda de la gola, e così operare la bocca a la loda di Dio; e di quelli del purgatorio finge convenientemente secondo la lettera, come ditto è, per modo Tal; cioè per sì fatto modo, che diletto; quanto al canto, e dollia; quanto al pianto, parturìe; cioè cagionò in me Dante. E però volto a Virgilio disse: O dolce Padre, che è quel ch’io; cioè Dante, odo: imperò ch’io odo canto e pianto, e non so unde questo sia: imperò che questa è cosa contra natura, che canto che viene d’allegressa, e pianto che viene da dolore, debbiano essere insieme in uno medesimo subietto? E però ben finge che ne dimandi Virgilio: Cominciai io; cioè Dante, et elli: cioè Virgilio rispuose: Ombre che vanno Forse di lor dover solvendo ’l nodo; cioè sono anime che forsi vanno facendo loro penitenzia, che è dovuta loro per lo peccato de la gola. Ecco che bene risponde Virgilio, che significa la ragione, a Dante al dubbio, secondo che si conviene; quasi dicesse: Di questo non sono certo: imperò che non è cosa ragionevile; ma ben posso conietturare ch’è cosa sopra natura; e però dice Forse.

C. XXIII — v. 16-27. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come, mentre ch’andavano oltra, gente venne loro a le spalle che erano anime che si purgavano del peccato de la gola; e descrive le loro condizioni et induce per similitudine una fizione, dicendo: Sì come i peregrin pensosi fanno; qui induce una similitudine; cioè che come li peregrin, pensosi di tornare a casa loro, fanno quando sopra iungeno altrui, che guardano altrui, e non si sorreggono; così faceano quelli spiriti, Giungendo per cammin gente non nota; cioè adiungendo nel cammino gente ch’elli non cognoscano, Che si volgeno ad essa; cioè gente, e non restanno; cioè non lassano l’andare, perchè avvisino chi elli trovano. Cosi di rieto a noi; cioè a Virgilio e Stazio et a me Dante, più tosto mota; cioè che andava più ratta che noi, Venendo e trapassando; cioè noi, per l’andar tosto, ci mirava; cioè li poeti e me, D’anime turba tacita e devota; ecco che descrive come era fatta; prima tacita e devota. E si nota moralmente come dè andare chi fa penitenzia e chi va ai perdoni, che non dè andare parlando, nè avvisando; ma tacitamente e devotamente. Nelli occhi era; ecco che descrive le loro condizioni, ciascuna scura e cava; non avea li occhi allegri, nè grillanti; ma malanconosi, e cavati, e fitti ne la testa per la magressa, Pallida ne la faccia; cioè smorta, come la la fame, e tanto scema; cioè consumata et assottilliata, Che dall’ossa la pelle s’informava; cioè che la pelle era in su l’ossa, e non v’era mezzo nessuno di carne. Ecco che pone la pena dei golosi [p. 554 modifica]con la quale si purgavano; cioè co la fame come fanno li vivi; e per quelli fa l’autore la fizione, che de’ passati non sapea se non come li altri omini: imperò che coi digiuni e co la astinenzia purgano la gola sì come dice la Medicina; cioè: Contraria contrariis curantur — . Non credo che così a buccia; cioè bucchia, strema; cioè assottilliata e privata di carne, Erisiton; questi fu, secondo che pone Ovidio Met. lib. viii, greco e dispregiò Cerere, talliando ancora in suo dispetto lo bosco consecrato a lei, che era iddia de la biada; unde ella indegnata misse1 grande sterilità e fame ne la contrada, unde elli sempre desiderava di mangiare e mai non si vedea sazio, e consumò tutta la sua sustanzia pure in mangiare, e venditte2 molte volte la filliuola che si mutava in varie figure, e venduta ritornava poi a lui, et elli la vendea da capo; unde diventò magrissimo per la fame; e però dice: si fusse fatto secco; a buccia sottile, com’è quella gente che si purgava: ecco che àe indutta la fizione per similitudine, Per digiunar; cioè per lo digiunare; cioè per non mangiare: imperò che chi digiuna non mangia, quando più n’ebbe tema; cioè paura: chi à fame, à paura di digiunare, e però dimagra. La verità di questa finzione fu che Erisitone fu goloso e consumò tutta la sua sustanzia; e consumato ne la gola ogni cosa, vendeva la filliuola in disonesto uso; e però fingeno li autori che, mutata in varie figure, tornasse a lui: imperò che tornava mutata di nuovo atto di peccato.

C. XXIII — v. 28-36. In questi tre ternari lo nostro autore finge come elli notasse la condizione di quelli spiriti, meravilliandosi de la loro magressa e de la cagione, dicendo così: Io; cioè Dante, dicea fra me stesso; cioè nel cuore, pensando; cioè parlando col pensieri: Ecco La gente che perdeo Gerusalemme; cioè li Iudei che funno assediati in Gerusalemme da Tito Vespasiano, li quali patitteno3 asprissima fame, com’è ditto di sopra nel xxi canto, Quando Maria; cioè una gentil donna che v’era, che ebbe nome Maria, nel Fillio; cioè suo, diè di becco: imperò che l’uccise per mangiarlo, et avealo arrostito mezzo, e l’altro mezzo riservava a l’altro di’; la quale sentita a l’odore de l’arrosto, fulli intrato in casa; e veduto questo, deliberonno li maggiori d’arrendersi; et, avuto Tito la città, vendettene grande parte a 30 per denaio; cioè 90000, come fu ditto di sopra. Parean le occhiaie; cioè li luoghi de li occhi, anella senza gemme; cioè anella tonde sensa castone, dove si mette la gemma. Chi nel viso delli omini legge omo: dicesi che ne la faccia umana se vedono formate littere che significano omo; cioè le du’ ritondita delli occhi per due O, e la tratta del naso co li archi de le cillia uno m, fatto in questa forma ; [p. 555 modifica]e così4 leggono omo sensa h: imperò che la h non è littera; ma è signo d’aspirazione: homo dice lo Grammatico, quasi fatto de humo; cioè di vilissima terra: imperò che Iddio fece lo primo omo Adam in Damasco di loto5; e spirando ne la faccia sua spiraculo di vita, lo vivificò e diedeli anima ragionevile et intellettiva e misselo nel Paradiso delitiarum — , Bene avria quive; cioè ne le faccie di coloro, cognosciuto l’emme; cioè la lettera m, fatta al modo di sopra. Chi crederebbe che l’odor d’un pomo; cioè del pomo del ditto arbore, Sì governando; cioè dimagrando, generasse brama; cioè fame, E quel; cioè odore, d’un’acqua; cioè di quella che esce de la grotta e cade in su le follie e va in su, de la quale fu detto di sopra, non sapendo como6; cioè non sapendo la cagione, unde proceda lo modo? E dèsi notare che di sotto nel canto xxv muoverà l’autore lo dubbio del modo, e però quive si dichiarerà. In questa parte occorre uno dubbio; cioè che l’autore pare sapere qui la cagione che fa dimagrare, et affamare, et assetare; et in questo medesimo canto più giuso mostra di dubitarne, e dimandane Forese. A che si dè rispondere che qui parla l’autore come tornato di là, scrivendo quello che di là vidde, e comprese, et uditte; e parla come certificato di quello che, allora ch’era di là, dubitava; di sotto parlerà narrando quello che di là fece, vidde et uditte. E però qui finge di saperlo, e di sotto finge com’elli dimandò, e com’elli fu certificato, narrando lo fatto come fu.

C. XXIII — v. 37-48. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come venne in cognoscimento d’alcuna di quelle anime, la quale nomina nel testo, dicendo così: Già era; cioè Dante: ecco ora parla l’autore come recitatore de le cose ch’essa vidde, uditte e comprese di là, in ammirar; cioè in meravilliarmi, che sì li affama; cioè quelli spiriti, e che li fa sì magri, Per la cagion ancor non manifesta; cioè per la cagione che non m’era, allora ch’io era di là, ancora manifesta, Di lor magrezza e di lor trista squama; cioè de la loro magressa, e de la loro aspressa. Et ecco del profondo de la testa; per questo nota che li occhi fusseno ben fitti in entro, Volse a me li occhi; cioè suoi a me Dante, un’ombra; cioè di quelle che ci aveono giunto, e guardò fiso; cioè a me Dante, Poi gridò forte; la ditta ombra, poi che m’ebbe ricognosciuto all’abito ch’io era fiorentino: Qual grazia m’è questa; cioè come accetta, cioè ch’io abbia qui trovato vivo uno fiorentino, lo quale non avea anco cognosciuto se non per patria a l’abito et al portamento? Mai noll’arei ricognosciuto al viso; cioè io Dante quello spirito: sì era travalliato, Ma [p. 556 modifica]ne la voce sua; cioè di Forese, mi fu palese; cioè fu manifesto a me Dante; cioè io lo ricognovi a la voce, Ciò che l’aspetto; cioè la sua vista et apparenzia, in sè; cioè in lui, avea conquiso; cioè guasto, cioè la cognoscenzia: imperò che non potea comprendere nel volto chi elli era, e così l’aspetto suo avea guasta7 la sua cognoscenzia. Quella favella; ch’io uditti da lui, dice l’autore, ora parlando al lettore, tutta mi raccese; cioè mi invigoritte, Mia cognoscenzia; cioè la mia virtù cognitiva, a le cambiate labbia; cioè a la cambiata faccia; e pone qui l’autore la parte per lo tutto, usando lo colore che si chiama8 intellettivo, E ravvisai; cioè un’altra volta l’avvisai e raffigurai, la faccia di Forese; cioè ch’elli era stato uno ch’avea avuto nome Forese. Questo Forese fu cittadino di Fiorense9, e fu fratello di messere Corso Donati, e fu molto goloso; e però finge l’autore che l’abbia trovato qui, dove si purgano li gulosi.

C. XXIII — v. 49-60. In questi quattro ternari finge lo nostro autore come Forese l’incominciò a parlare, e pregavalo che li dicesse chi era; e l’autore dimandò lui che cagione era de la sua magressa, loro dicendo così: Deh non contender; cioè tu, Dante, a l’asciutta scabbia; cioè non stare pur a vedere la rogna asciutta ch’io abbo; ecco che finge l’autore come li golosi erano scabiosi: imperò che come ànno ben pasciuto lo corpo, per fallo10 ben grasso e luccicante; così finge che per lo dolore e per la contrizione ora sia piagato; e perchè l’abstinenzia discolora e piaga lo corpo dice, Che mi scolora la pelle; cioè la scabbia mi fa pallida e scolorita la pelle, pregava; cioè Forese Dante quil che ditto è, Nè a difetto di carne ch’io; cioè Forese, abbia; non contender tu, Dante. Ma dimmi ’l ver di te; cioè chi tu se’, e chi son quelle Du’ anime; finge l’autore che dimostrasse Virgilio e Stazio, e di loro dimandasse Forese, che là ti fanno scorta; cioè che t’aspettano colà, per scorgerti la via; potrebbe anco dir lo testo: che ’n là; cioè che in verso là. Non rimaner; tu, Dante, che tu non mi favelle; cioè non lassare che tu non mi risponda. Ora finge l’autore ch’elli rispondesse al dimando, dicendo così: La faccia tua; cioè di te Forese, ch’io lagrimai; cioè io Dante piansi, già morta; per questo mostra che Forese fusse stato suo amico quando visse, sì che a la morte lo pianse, Mi dà; cioè a me Dante, a pianger mo; cioè avale, non minor dollia; ch’io avesse allora ch’io la viddi morta: sì la veggio fatta ora, Rispuosi io; cioè Dante, lui; cioè a Forese, veggendola sì torta; cioè mutato da l’usato essere. Però mi dì, per Dio; ecco che ’l prega che ’l certifichi de la [p. 557 modifica]cagione, de la quale toccò di sopra quando parlò l’autore al lettore sì come tornato; ma ora racconta al lettore lo modo che tenne, quando fu di là, in saper la cagione, che sì vi sfollia; cioè sì vi dismagra e cambia. Non mi far dir; cioè non voler ch’io dica, mentre ch’io abbo ammirazione di quello ch’io veggio, mentre io; cioè Dante, mi meravillio; di quil ch’io veggio in voi; ecco che assegna la cagione, perchè lo prega che ’l certifichi: Chè mal può dir chi è pien d’altra vollia; cioè male può certificare altrui chi à vollia d’essere certificato.

C. XXIII — v. 61-75. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come, fatta la sua preghiera a Forese, elli lo certifica di quello che volea sapere, dicendo così: Et elli; cioè Forese, a me; Dante rispuose in questa forma: De l’eterno consillio; cioè de l’eterna providenzia et ordinazione di Dio, lo quale ordina e dispone ogni cosa secondo ragione et iustizia, Cade virtù ne l’acqua; che irriga la pianta, e ne la pianta; cioè nell’arbore del quale è ditto di sopra, e però dice: Rimasa addietro: imperò che già l’aveano passata, ond’io sì mi assottillio; cioè per la qual verità io Forese dimagro. Già è ditto di sopra che questa pianta è quella11 che assaggionno li primi parenti Adam et Eva contra lo comandamento di Dio, che si chiama l’arbore de la scienzia del bene e del male: dalla notizia del bene e del male procede l’amore del bene e l’odio del male, per lo desiderio naturale che Dio à posto ne la mente umana; e però finge l’autore che quelle anime, cognoscendo che ànno fallito seguitando l’appetito sensuale, se ne penteno e dolliansene sì che, come seguendo l’appetito diventono12 grasse, diventano ora magre, che non è altro a dire che ànno in dispregio tale appetito e non vorrebbeno averlo seguitato; ma vorrebbono avere seguitato la virtù de l’astinenzia, sicchè ora avesseno lo frutto che produce la scienzia del bene e del male; cioè beatitudine; del qual frutto sempre ànno desiderio, e questa è la loro fame. E similmente ànno sete dell’acqua che irriga questa pianta che è la grazia di Dio, la quale mantiene verde questa pianta co la sua infusione; e l’odore di questa asseta l’anima che sempre desidera di inebriarsi di quella, per opposito di quello che ànno fatto li golosi dei beni terreni nel mondo, dilettatosi di bere e di mangiare oltra misura. E però seguita: Tutta esta gente; ecco che dimostra Forese li spiriti di quil cerchio sesto, che piangendo canta; cioè la quale canta e piange insieme; questo finge, per contrapesare la pena col diletto del peccato: nel peccato de la gola àe avuto diletto l’occhio, vedendo lo cibo desiderato, e così vuole che ne porti pena piangendo; e la bocca ebbe diletto gustando, e [p. 558 modifica]però vuole che ne porti pena rispondendo al pianto, e canti dimandando grazia a Dio e lodandolo e ringraziandolo de la grazia che àe fatto loro, che si sono ricognosciuti del loro peccato, Per seguitar la gola oltra misura: imperò che non mangiò, nè bevve per necessità; ma per diletto più che non si convenia, In fame e sete; cioè sostenendo fame e sete, qui si rifà santa; cioè in questo luogo si purga e monda di tal peccato; e benchè l’autore parli di quelli del pureatorio, secondo la lettera, la intenzione sua è di quelli del mondo li quali per fare astinenzia si purgano di tal peccato. Di ber e di mangiar n’accende cura; cioè desiderio, L’odor ch’esce del pomo; che pende da quelli rami, e de lo sprazo; cioè e de lo spargimento dell’acqua che irriga la pianta; e però dice: Che si distende su per la verdura; cioè su per le follie verde13 de la pianta. E dèsi intendere allegoricamente per quelli del mondo o del purgatorio; cioè che come l’odore del buono cibo e del vino àe acceso l’appetito carnale a mangiare et a bere; così ne la penitenzia accendesi lo desiderio ragionevili14 per la dolcezza che sente l’anima de la beatitudine che aspetta, e de la Grazia Divina che irriga la notizia del bene e del male, rinvigorando la sua verdura15; cioè la sua vivacità: e come tale desiderio adimpiuto16 grassa lo corpo e dimagra l’anima; così tale desiderio, quale ànno quelli che sono in stato di penitenzia fermato nell’anima, ingrassa l’anima di virtù e dimagra lo corpo che fa astinenzia. E non pur una volta; ma più volte, questo spazo Girando: imperò che finge che vadino intorno al monte, si rinfresca nostra pena; cioè si rinova la nostra vollia del pomo e dell’acqua; e perchè àe parlato corrotto, corregge lo suo ditto et usa lo colore che si chiama correctio— ; Io dico pena; cioè Forese, e non dico bene, e dovrei dir solazo; parlando corretto: imperò che questa pena serà consolazione de le nostre anime: imperò che questo aspettare purga la macchia del nostro peccato. Chè quella vollia; cioè imperò che quella volontà ragionevile, all’arboro ci mena; cioè a la pianta che ditta è, la quale finge che si trovi17 tra più luoghi nel cerchio del monte, Che; cioè la qual volontà, menò Cristo lieto a dir Elì; cioè che menò lo nostro Redentore Gesù Cristo a la croce, ne la quale confitto e sospeso gridò: Eli, Eli, lammasabactani; cioè Iddio mio, Iddio mio, perchè m’ài abbandonato? La volontà ragionevile menò Cristo a la passione, che la sensualità temea, Quando ne liberò; cioè quando noi liberò, co la sua vena; cioè col sangue suo sparto fuora de le vene; e pone lo singulari per lo plorali, e però dice co la sua vena; cioè co le suoe vene; lo quale sangue sparse di tutte le suoe [p. 559 modifica]vene; ne la sua passione che fu sì amara. Finge l’autore che queste anime vadano in circuitu18 e trovino questi arbori: imperò che le sante anime, che sono in stato di penitenzia, sempre col pensieri si girano e rivolgensi a la beatitudine che aspettano; e ben che tale aspettare tormenti l’anima, pur torna volentieri a quil desiderio, per ch’ella è tratta da l’odore; cioè da la dolcezza del Sommo Bene. E qui finisce la prima lezione del canto xxiii, et incomincia la secunda.

Et io a lui: In questa secunda lezione lo nostro autore finge come anco elli ebbe parlamento con Forese preditto, e ch’elli predisse de l’iudicio divino che dovea venire sopra Fiorenza, per disonestà dei portamenti de le donne; et al fine ripregato da Forese li manifesta sè e le suoe scorte. E dividesi questa lezione in quattro parti: imperò che prima finge com’elli lo dimanda come sì tosto sia intrato in purgatorio, pensando che tanto fusse perseverato nel peccato; ne la seconda finge che Forese li risponda e renda la cagione esser stata li di voti preghi de la sua donna, et incomincia quive: Und’elli a me; ne la terza finge com’elli fa disgressione, e prediceli de l’iudicio che dè venire a Fiorensa, per la disonesta portatura de le donne e ripregalo ch’elli si palesi, et incominciasi quive: O dolce frate, ec.; ne la quarta et ultima finge come Dante si li manifesta e li suoi conducitori, et incominciasi quive: Per ch’io a lui: ec. Divisa adunqua lezione, ora è da vedere lo testo co l’esposizione litterale, allegorica e morale.

C. XXIII— v. 76-84. In questi tre ternari lo nostro autore finge ch’elli movesse uno dubbio al preditto Forese; che: con ciò sia cosa ch’elli siano non anco19 cinque anni ch’elli morì et in prima non s’era convertito a Dio, come sia venuto sì tosto in purgatorio: imperò che, secondo la fizione di sopra, dovrebbe essere ne la costa fuor del purgatorio a ristorare tempo per tempo. E però dice: Et io; cioè Dante, a lui; cioè a Forese dissi, s’intende: Forese, da quel di’, Nel qual mutasti mondo a millior vita; cioè dal di’ che tu moristi, che allora mutasti mondo: imperò che dal mondo temporale se’ venuto al perpetuo, e da quello dove si pecca a quello dove non si può peccare; e però dice a millior vita: imperò che ne la vita mondana si può demeritare, e ne la vita in che tu se’ ora s’emenda lo demeritato, Cinque anni non son volti; cioè non sono passati, infine a qui; cioè infine a questo di’. Se prima fu la possa; cioè la potenzia e la possibilità, in te; cioè Forese, finita; cioè compiuta, Di peccar più; cioè se prima per le infirmità tu non potesti più peccare nel peccato de la gola: imperò che quando le febbre sono nel corpo nè ’l bere, nè ’l mangiare più diletta, anco viene in abominazione, e [p. 560 modifica]se pure v’è lo desiderio del bere non è di vino, anco è d’acqua per l’ardore ch’è dentro, che sovvenisse l’ora Del buon dolor; cioè de la contrizione del peccato commesso, ch’a Dio ne rimarita; cioè lo quale dolore ci ricongiunge con Dio: imperò che come lo diletto del peccare ci separa da Dio; così lo dolore d’aver peccato col proponimento di non peccar più ci ricongiunge a Dio e rimetteci ne la grazia sua, Come se’ tu di qua; del balso primo del purgatorio, venuto ancora; ch’è meno di cinque anni? Io; cioè Dante, ti credei trovar: cioè te Forese, là giù di sotto; cioè fuor del purgatorio, ne la piaggia o ne la costa, Dove tempo per tempo si ristora: imperò che, come è stato dimostrato di sopra, l’autore finge che li negligenti a venire a la penitenzia si purghino di tale negligenzia di sotto dal purgatorio pur co l’aspettare tanto tempo, quanto sono stati negligenti; se non chi è stato scomunicato, che finse che stesse per ogni anno 30, e le cagioni sono state assegnate di sopra.

C. XXIII — v. 85-96. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Forese risponda al dubbio che mosse di sopra; cioè che per li preghi de la donna sua elli sia stato liberato de la costa e delli altri 5 cerchi del purgatorio, dicendo così: Und’elli; cioè Forese preditto, a me; cioè Dante rispuose, s’intende, questo che seguita: Sì tosto m’à condotto; cioè àe menato me Forese, A ber lo dolce assenzio; cioè la dolce amaritudine: assenzio è una erba amarissima, che la Medicina la chiama absinthium, e però l’autore la pone qui per l’amaritudine, e dolce la chiama, perchè ogni amaritudine e pena portano volontieri l’anime che si purgano dal peccato, pensando la gloria che aspettano, dei martiri; cioè che in questo luogo si sostegnano, La Nella mia; cioè la donna mia, che fu chiamata Nella: ebbe questo Forese per donna una santa donna, che ebbe nome Nella, la quale finge l’autore che abbia pregato per lui et abbiali coi suoi preghi e devote orazione abbreviato lo tempo de l’aspettare e de le pene, per verificare quello che à ditto di sopra in più luoghi che l’orazioni aiutano a cavare l’anime di purgatorio, e per fare menzione di questa onesta donna e riprendere le disoneste, come dirà di sotto, col suo pianger dirotto: pianto dirotto è quando è non rattenuto, nè tramezzato da alcun mezzo, et intende col suo pianger dirotto; cioè coi suoi preghi venuti bene dal cuore, accompagnati con lagrime e con voce: pianto è con voce e percossione, m’à cavato de la costa dove s’aspetta. E non solamente m’à fatto questo; ma anco, Con suoi preghi devoti; cioè non solamente con preghi, con lagrime e pianti; ma con suoi preghi mossi da devozione, e con sospiri; che vegnano dal cuore quando à alcuno increscimento, come stato è ditto di sopra, Tratto m’à de la costa; cioè del monte, ove s’aspetta; dai negligenti: e non solamente m’à fatto questo; ma [p. 561 modifica]anco, m’à liberato delli altri giri; del purgatorio che sono di sotto da questo. Tant’è a Dio più cara e più diletta; ecco che loda la virtù de la sua donna, La vedovella mia; cioè la ditta Nella, che di po’ la morte sua fu vedova, che; cioè la quale, molto amai; cioè io Forese, Quant’in bene operar è più soletta: imperò che più si mostra la sua virtù quando non à compagnia: in bene operare mostra che vegna pur da sè, e non da la compagnia, e però Iddio più l’accetta; e questo dice in vituperio de le donne fiorentine, mostrando che poghe ve ne siano atte a bene operare: Chè la Barbaggia di Sardigna: Sardigna è una isula tra la Sicilia e la Corsica inver l’Africa, sicchè viene quasi come in terso, et è stesa a modo d’una pianta di piede umano, secondo che dice Anticlaudiano De laudibus Stiliconis; et àe monti inaccessibili se non d’alcuno lato con grande fatica; ne’ quali monti à molto popolo, molto feri et inculti, viventi a modo di barbari, e però credo che sia chiamata Barbaggia; e perchè vanno quasi nudi li omini e le femine, e però dice che a rispetto de le donne fiorentine ella è più pudica et onesta; unde dice: assai Ne le femine suoe; cioè de la ditta Barbaggia di Sardigna, è più pudica; essa Barbagia di Sardigna è20 più onesta, Che la Barbaggia; cioè di Fiorensa, la quale chiama Barbaggia per la disonestà del portamento del vestire de le donne, dove; cioè ne la quale, io la lassai; cioè io Forese lassai la donna mia Nella, vedova onesta quive, dove l’altre donne sono disonestissime del vestimento, non avale; ma al tempo de l’autore quando le donne fiorentine andavano tanto sgolate e scollate li panni, che mostravano di rieto lo canale de le rene, e d’inanti lo petto e lo fesso del ditello; ma laudato sia Iddio che ora portano li collaretti, sicchè sono uscite di quella abominazione.

C. XXIII — v. 97-114. In questi sei ternari lo nostro autore finge come Forese, continuando la sua riprensione de la disonesta portatura de le donne fiorentine, dice a Dante: O dolce frate; ecco che ben finge la carità che è nell’anime passate, che sono in via di salute, che vuoi tu ch’io dica? Ecco che Forese dimanda Dante se elli vuole ch’elli dica di questo fatto quil che ne vede; e questo finge perchè, avendo ditto le parole di sopra Forese, Dante fece uno atto, perchè Forese s’accorse che Dante volea più udire; e però dice: O dolce frate, che vuoi tu ch’io dica? E presa la licenzia, sensa avere risposta altramente, dice: Tempo futuro; cioè che dè venire, m’è già nel cospetto; cioè è a me presente, che veggo quello che allora dè essere, Cui; cioè al quale tempo, non serà quest’ora molto antica; cioè questa ora, ne la quale siamo, non serà molto di lunge; ecco che finge l’autore che Forese veggia quil che dè venire: imperò [p. 562 modifica]che l’anime del purgatorio possano sapere quil che dè venire in quanto è loro rilevato21; ma poeticamente questo dice l’autore, mostrando di dire inanti quil ch’era al presente o era già passato: imperò che, quando l’autore finge che avesse questa fantasia, incominciavano le donne a prendere la disonestà, e non era anco tanto cresciuta che meritasse riprensione; ma poi creve tanto eccessivamente, che al tempo, ch’elli scrisse et inanti, già si predicava contra tale disonestà dai predicatori; e però finge che Forese predìca questo come cosa che dè venire, dicendo: Nel qual; cioè tempo, serà in pergamo: pergamo è lo luogo alto, dove stanno li predicatori ad annunziare la parola di Dio al popolo, interdetto; cioè vietato Alle sfacciate donne fiorentine; cioè sensa vergogna: chi non si vergogna si dice sfacciato: imperò che ne la faccia stanno li segni de la vergogna; cioè ne la fronte che s’abbassa, ne li occhi che si calano, e ne la faccia tutta che si china a la terra, quando l’omo si vergogna; e però sensa faccia si dice chi non si vergogna quando si dè vergognare, e tiene la faccia alta: imperò che la faccia non è faccia allora: imperò che non osserva la sua natura, L’andar mostrando co le puppe il petto; ecco quello che serà vietato a le donne dai predicatori: imperò che questo è ben cosa disonesta ad una donna mostrare lo petto co le puppe. Quai Barbare fur mai; ecco che parla indignative, quasi dica: Nulle, quai Saracine; cioè nulle, Cui; cioè a le quali, bisognasse, per farle ir coperte, O spiritali; cioè o omini spirituali, o altre discipline; cioè o altri ammaestramenti: imperò che ciascuna barbara e saracina va coperta da sè medesima sensa che li sia insegnato? Ma se le svergognate; cioè le donne fiorentine, che sono sensa vergogna, fusser certe Di ciò che ’l Ciel veloce; cioè lo quale gira velocemente, e col suo girare induce giuso a noi nel mondo nuovi effetti, loro; cioè a le femine fiorentine, ammanna22; cioè apparecchia, Già per urlar avrien le bocche aperte; cioè arebbeno le bocche aperte per mettere urli e guai, per dolore de la miseria e de l’afflizione che sopra loro dè venire; et ecco che più lo manifesta, dicendo: Chè; cioè imperò che, se l’antiveder qui non m’inganna; cioè s’io non m’inganno nel veder inanti quil che è a venire sì, ch’io erri nel tempo, Prima fier triste che le guance impeli, cioè che diventi23 barbute le guance, Colui; cioè lo fanciullo, che; cioè lo quale, mo24; cioè avale, si consola; cioè s’accheta quando piange, con nanna; questa è una interiezione adulante e lusingante che usano le balie, quando volliano addormentare li fanciulli che diceno, menando lo ghieculo: Nanna, nanna. Questo forse dice l’autore: imperò che nel 1302 fu una grande divisione in Fiorensa tra i [p. 563 modifica]Bianchi e Neri, e mandòvi papa Benedetto frate Nicolao da Prato cardinale ostiense legato, perchè mettesse tra Fiorentini concordia; e fu sì poco creduto, che li lassò in peggiore stato che nolli trovò. E nel 1304 fu messo fuoco in Calumala25, et arse gran parte di Fiorensa e li Bianchi se ne uscitteno fuora, e così poi successivamente vi funno molti travalli26 in breve tempo; e però l’autore àe finto che Forese dica così: Deh, frate; questo Deh è interiezione esomitante27, e parla Forese a Dante pregandolo ancora che si li manifesti; e però dice: or fa che più non mi ti celi; cioè non mi tenere più celato, manifestamiti. Vedi; cioè tu, Dante, che non pur io; cioè Forese, ma questa gente; che è qui meco, Tutta rimira là dove il Sol veli; cioè dove tu fai ombra col corpo ai raggi del Sole: imperò che per questo cognosceno che se’ vivo, e di ciò si meravilliano come tu sii in questo luogo.

C. XXIII — v. 115-133. In questi sei ternari et uno versetto lo nostro autore finge come elli rispuose a Forese, manifestando sè e le suo28 scorte, dicendo così: Per ch’io; cioè per la qual cosa io; cioè Dante rispuosi, s’intende, a lui: cioè a Forese: Se tu; cioè Forese, riduci a mente; cioè a la tua mente, Qual fosti meco; cioè meco vivendo nel mondo; cioè come fosti dato ai peccati, e come fusti peccatore, e qual io; cioè Dante, teco fui; cioè vivendo teco nel mondo, com’io fui peccatore e vizioso, Ancor fie grave il memorar presente; cioè darà pena a te e a me, che ci arricorderemo de la nostra vita viziosa, de la quale ci doleremo29. Di quella vita; cioè viziosa, che io ebbi teco nel mondo; cioè quando io fui giovano: imperò che inanti ai 35 anni, mi volse costui, Che mi va inanzi; cioè Virgilio: imperò che lui dimostrò l’autore, l’altr’ier; cioè non è molti di’, quando tonda Vi si mostrò la suore di colui; cioè la Luna che, segondo la poesi, si dice suore del Sole; e però adiunge dichiarando quil ch’elli intese per lo dimostrativo colui; adiunge: E ’l Sol mostrai; dice Dante a lettore: Sappi che quando io dissi la suore di colui, io parlai dimostrative e mostrai lo Sole. E per questo dà ad intendere lo venerdi’ santo, passato di poghi di’, quando correa lo 1300 di marso, quando elli finge ch’avesse questa fantasia e ch’elli si trovasse ne la selva; e come volse montare suso al monte; ma impedito da le fiere tornava a rieto e volea ritornare ne la selva, se non che [p. 564 modifica]Virgilio li apparve e promesseli sua compagnia e cavarlo di quil periculo, menandolo per lo inferno e per lo purgatorio, sì come tutto questo è noto nel primo canto de la prima cantica. E perchè lo venerdi’ santo era stata la Luna quinta decima, e però dice: Quando si mostrò tonda la Luna, Costui; cioè Virgilio, per la profonda Notte; cioè oscurità de lo inferno, menato m’à; cioè me Dante, dai veri morti; cioè di veramente dannati che sono morti quanto a la grazia, che mai debeno avere remissione, Con questa vera carne; cioè con questo vero corpo e non aereo, come è lo vostro, che ’l segonda; cioè lo quale lo seguita. Inde; cioè de lo inferno, m’àn tratto su; cioè al purgatorio, li suoi conforti; cioè di Virgilio, Salendo; cioè montando insù; cioè allegoricamente menandomi la ragione, prima a considerare la viltà del peccato e la sua pena, m’à tratto di quello; e, mostrandomi lo modo di purgarmi da esso co la penitenzia, m’à inalsato di virtù in virtù, e rigirando la montagna; come àe mostrato che ànno fatto in più luoghi; la quale cosa significa che à spesse volte ne le materie ritenutosi, dicendo molte circustanzie, com’è stato bisogno, per adornamento de la sua poesi. Che; cioè la qual montagna, drizza voi; cioè fa diritti voi spiriti, purgandovi dai peccati, che ’l mondo fece torti; cioè li quali lo mondo àe fatto torti, fattovi cadere ne’ vizi e peccati co le suoe lusinghe et inganni. Tanto dice di farmi sua compagna; cioè Virgilio tanto dice che mi farà compagnia, Che io; cioè Dante, serò là dove fie Beatrice; questa Beatrice è nome d’una donna, de la quale l’autore àe finto ne le suoe cansoni morali ch’elli fusse inamorato; ma allegoricamente significa qui la santa Teologia, la quale finge che debbia trovare nel paradiso delitiarum: imperò che quive si tratterà di cose, che per la ragione non si possano comprendere; e però Virgilio non lo guiderà più per quello luogo; ma pillieràlo a guidare Beatrice, cioè la santa Scrittura. Quivi; cioè nel paradiso delitiarum, nel quale è Beatrice, convien che senza lui; cioè sensa Virgilio, rimagna; cioè io Dante: imperò che da inde insù non varrà lo iudicio de la ragione: imperò che seranno cose che s’appartegnano a la fede, e l’Apostolo dice: Fides non habet meritum ubi ratio prœbet experimentum. — Virgilio è questi che così mi dice; cioè dissi io Dante a Forese, dimostrandoli Virgilio, Et additailo; cioè addimostrailo col dito io Dante; e questo dice ora l’autore a lettore tanto, e quest’altro è quell’ombra; dissi io Dante a Forese, dimostrandoli Stazio, Per cui; cioè per lo quale, scosse dianzi ogni pendice; cioè scotendo tremò ogni sua costa: imperò che li monti ànno molte coste, e perchè pendono si chiamano pendice, Lo vostro regno; cioè lo purgatorio, nel quale voi spiriti regnate a tempo, che; cioè lo quale, da sè lo sgombra; cioè da sè lo libera, perch’elli è purgato interamente. E qui finisce lo canto xxiii, et incomincia lo xxiv.

Note

  1. Missi; messi sono voci del passato del verbo mettere, le quali odonsi frequenti nel parlare comune. E.
  2. C. M. vendette
  3. C. M. quali sostenneno
  4. C. M. leggeno senza h:
  5. C. M. di loto; cioè di fango; e spirando
  6. Como; dal quomodo latino. E.
  7. C. M. guasto la
  8. C. M. si chiama interiectio — , E ravvisai;
  9. Fiorense. Dal latino Florentia derivò Fiorenza o Firenza, e per uniformità di cadenza Fiorense, Fiorenze o Firenze, come Buemme, Danismarche per Buemma, Danismarca e simili. E. — C. M. Fiorensa,
  10. C. M. per farlo
  11. C. M. è di quella che assagionno
  12. C. M. diventonno
  13. C. M. foglie verdi della
  14. C. M. ragionevile
  15. C. M. verdura con la sua vivacità:
  16. C. M. adempiuto ingrassa
  17. C. M. trovi in due luoghi nel cerchio vi del monte,
  18. C. M. in circuito
  19. C. M. siano cinque anni
  20. C. M. più pudica essa Barbagia di Sardigna, e più onesta,
  21. C. M. rivellato;
  22. Ammanna; dall’infinito ammannare. E.
  23. C. M. diventino
  24. Mo; ora, dal latino modo. E.
  25. C. M. Calimala,
  26. C. M. travagli
  27. esortante — si legge nel Cod. M, e nel nostro — esomitante — che à il medesimo significato, derivando da somoner de’ Trovatori che vale invitare, confortare. Sir Conte Enrico il giovine lasciò scritto «m’an somos; m’ànno invitato». E.
  28. Suo; sue. Come al principio della lingua si adoperarono de’ sustantivi con la stessa desinenza in ambi i numeri; così pure alcuni aggettivi e pronomi, quali sono mano, peggio, suo e cotali. Fazio degli liberti, Ditt. lib. iii «dalle suo schiumi».
  29. Doleremo; inflessione primitiva dall’infinito dolere. E.
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