Commedia (Lana)/Inferno/Canto III

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Canto III

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III.




er me si va nella città dolente,
     Per me si va nell’eterno dolore,
     Per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore:
     Fecemi la divina potestate,5
     La somma sapïenza e il primo amore.
Dinanzi a me non fur cose create,
     Se non eterne, ed io eterna duro:1
     Lasciate ogni speranza, voi, ch’entrate.
Queste parole di colore oscuro10
     Vid’io scritte al sommo d’una porta:
     Perch’io: Maestro, il senso lor m’è duro.
Ed egli a me, come persona accorta:
      Qui si convien lasciare ogni sospetto;
      Ogni viltà convien che qui sia morta.15


  1. V 8. Anch’io accetto eterna perch’è la porta che parla. Ho con me oltre i Codici soliti anche la Vindelina e BU, BV, BP. II BS ha eterna anch’esso ma per correzione.




V. 1. Questo modo di parlare che recita più volte una parola è ditto dalli rettorici parlare effettivo, in lo quale mostra l’affezione del dicitore essere molta. E però replica Dante qui per me tre volte, a mostrare come aveva grande affezione di fare suo viaggio. E seguendo suo poema recita che scritte erano sopra la porta dello Inferno queste parole: voi ch’entrate in questa cittade lassate ogni speranza, perchè la giustizia dell’alto fattore mi fe’. E soggiunge, che dinanzi ad esso non furono alcune cose create se non eterne, quasi a dire che lo Inferno fu la prima cosa che creò Dio da poi le universali; e questo per giustizia a ciò se le creature, che poi sono create, fallassono, fusse luogo aparecchiato, dove fusseno punite dello suo fallo, si come poi fu bisogno per quelli Angeli li quali furono rebellanti a Dio, de li quali fu capo Lucifero.

10. Mostra qui Dante sua mollezza, che perchè vide scritto: lassate ogni speranza, temè l’entrare, e disse a Virgilio che lo senso della lettera gli era duro, cioè che dubitava.

13. Qui conforta Virgilio Dante toccando come cominciava lo luogo, lo quale elli avea proposto di vedere. Circa lo quale luogo

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Noi sem venuti al luogo ov’io t’ho detto
   Che troverai le genti dolorose,
   Ch’hanno perduto il ben dello intelletto.




è da sapere, acciò che meglio s’intenda, che Dante l’imaginava così: cioè che quando Lucifero principe de’ demoni cadde da cielo, la giustizia di Dio lo pinse sino al centro della terra, lo quale luogo è lo più remoto dal cielo che sia. E drieto a lui cadde di quelli angeli, li quali furono ribelli a Dio. E perchè elli fue lo principale, però ello solo sta nel centro della terra, li altri secondo che pecconno, stanno e più e meno lontani da esso.

Or imagina ello che quando lo ditto Lucifero cadde, fèsse un foro in terra, lo quale foro si va astringendo come vae più apresso al centro. E imagina questo foro rotondo e distinto per cerchi overo per gradi a modo di scala, sicome l’arena di Verona, li quali gradi sono deputati a stanzie di demoni e delle anime le quali si puniscono de’ peccati per loro commessi nel mondo. E quanto li gradi vanno più verso lo centro, tanto sono minori e sono di maggiore pena.

Or la terra che fu creata rotonda e solida, e che era intiera, per opposito di questo foro fe’ una montagna, sichè la terra ch’era in lo luogo dove lo predetto foro si fe’ uno monte, Dante imagina che abbia la sua sommità in lo cielo del fuoco, lo quale è apresso lo cielo della luna, vegnendo verso lo mezzo; lo quale monte ello imagina fatto a gradi 1 su li quali gradi elli pone l’anime che sono in Purgatorio, sicome apparirà in la seconda parte di questa Comedia a quel trattato deputata.

Or come elli entra in lo predetto foro, cioè in lo primo grado, elli imagina in la bocca di quello una pianezza, in la quale stanno le anime, le quali non hanno né merito né peccato; e questo da una parte è appellato Limbo; da un’altra parte anzi che si entri purga anime, le quali sono state cattive e triste al mondo e di nessuno valore, e immerite di nominanza; le quali per opposito, si come sono state triste e pigre, così sono stimolate da animaletti, li quali continuo le tegnono in esercizio, e fannole doglia e pena, e sempre corrono. Or quelle, che sono dalla parte del Limbo in lo primo grado, non sono da alcuna cosa stimolate, ma dal disìo, che, da che le sanno che al mondo è gloria, che è paradiso, e non hanno d’andarvi speranza mai, nè di vederlo, da ciò ricevono angosciosa pena 2; con le quali anime stimolati sono quelli angeli li quali non funno constanti a Dio, e non funno peccanti con Lucifero, sicchè li cieli, come appare nel testo, non li ritiene per meno lucere, e lo inferno non li ritiene, perchè li demonii, che pecconno, n’arebbono alcuno diletto.

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E poichè la sua mano alla mia pose,
   Con lieto volto, ond’io mi confortai,20
   Misemi dentro alle segrete cose. *
Quivi sospiri, pianti ed alti guai
   Risonavan per l’aer senza stelle,
   Perch’io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,25
   Parole di dolore, accenti d’ira,
   Voci alte e fioche, e suon di man con elle,
Facevano un tumulto, il qual s’aggira
   Sempre in quell’aria senza tempo tinta,




V. 16. Qui tocca la disposizione delle anime, lo quali sono dannate e che sono in doglia, martirio e pena. E dice ch’hanno perduto lo bene dello intelletto: per la qual cosa è da sapere che quella anima, che è in privazione di intelletto è tanto a dire come in privazione di Dio, in quello in che Dio si è obietto dello intelletto: e quelli animali che non hanno intelletto, si non possono naturalmente avere perfetta cognizione di Dio, sicome sono le bestie; e quelli animali intellettivi che perdono lo intelletto, diventano come bestie; sicchè non solo lo diavolo il peccato offende per martirio estrinseco al peccatore, ma eziandìo ello lo estranatura col fare divenire di intellettuale, bestia: e però dice: ch’han perduto il ben dell’intelletto.

19. Segue lo poema narrando come sospiri, pianti, guai, overo lamenti risonavano in quello aiere, lo quale era obscuro e tenebroso: e non li era stelle nè altro corpo lucido che lo alluminasse.

24. Perch’io al cominciar. Mostra come n’ebbe pietade.

29. Mostra come d’ogni parte del mondo s’aduna quello tristo coro, specificando come udìa parole di dolore, e accenti d’ira; accento è a dire quasi muggito. E soggiunge ch’alcuni proferìano suo dolore con acute voci, alcuni in fioche, tra le quali sonava sbattimenti di mani, lo quale suono facea uno tumulto, cioè uno aviluppamento di suono o di romore senza tempo. E questo dice elli perchè ogni suono attemperato per ragion di musica rende all’udire alcun diletto, chè il tempo è in musica uno ordine, il quale fa consonare le voci insieme con aria di dolcezza. Or dunque 3 se quel romore è senza tempo, seguesi che è senza ordine, e per consequens senza alcuno diletto. E dà esemplo del detto suono e dice: Come la rena quando aturbo spira.

Aturbo 4 dice Isidoro Etimologiarum XIII, è avolgimento di vento e spezialmente quando s’avolge sopra la rena, che fa in l’aiere romore molto diverso. Ed è appellato aturbo quando avviene in

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   Come la rena quando aturbo spira.530
Ed io, ch’avea d’error la testa cinta,
   Dissi: Maestro, che è quel ch’i’ odo?
   E che gent’è, che par nel duol sì vinta?
Ed egli a me: Questo misero modo
   Tengon l’anime triste di coloro,35
   Che visser senza infamia e senza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
   Degli angeli che non furon ribelli.
   Nè fur fedeli a Dio, ma per sè foro.
Cacciârli i Ciel per non esser men belli:640
   Nè lo profondo inferno gli riceve,
   Che alcuna gloria i rei arebbon d’elli.
Ed io: Maestro, che è tanto greve
   A lor, che lamentar gli fa sì forte?
   Rispose: Dicerolti molto breve.45
Questi non hanno speranza di morte,
   E la lor cieca vita è tanto bassa,


  1. Racconcio il passo col Laur. XL, 1. e col Di-Bagno
  2. Queste due linee sono state a punto racconcie col Codice Riccardiano.
  3. R., e con piccola varietà il Codice Laurenziano, Pluteo XC, 121.
  4. Aturbo, nome del vento che produce il Sifone. Alcuni Codici nel testo e nel Commento scrivono Atturbo.
  5. v. 30. Tutti ingannaronsi. Il Commento rischiara. Stanno col laneo il Landiano e i due Codici interi dell’Università bolognese.
  6. v. 40. Rimetto Cacciârli dove tanti il fugarono; e il Witte sbaglia col Caccianli, perchè già erano cacciati. Arebbon del v. 42 è del Cod. perugino; Così il tanta morte del 57.




mansione; e molte volte sì in terra come in mare ha levato in aiere e persone ed altre cose, e portate molto alte; sì che esemplificando vuole dire Dante: sono suoni di grande spavento e paura 1.

V. 31. Segue lo poema mostrando come ammirava. Ed è da sapere che in tutti i luoghi là dove Dante mostra admirazione, si è dubbio o titolo di questione.

34. Qui risponde Virgilio, e dice che tale condizione hanno le anime di coloro che furono al mondo senza fama e persone di trista vita, alli quali non pur si segue tale pena, ma eziandìo non se li segue lode nè fama alcuna. E soggiunge che con questi cotali sono li angeli, li quali nè fedeli fanno a Dio nè ribelli; e perciò che furono di nessuno valore, nè gloria hanno nè pena, ma lamentansi.

43. Tocca la cagione del suo lamento che è perchè non hanno speranza di morte, cioè che sanno che non denno mai mutare stato, e sanno ch’elli sono a tal condizione e sì bassa che non è altra più cattiva; ed è sì trista ch’ella ha invidia a tutte l’altre sorte, cioè condizioni, simili alla miseria mondana, la qual cosa ella sola non ha invidia, chè tutte l’altre cose sono invidiate ma non essa.

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   Che invidiosi son d’ogni altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa,
   Misericordia e giustizia gli sdegna.50
   Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.
Ed io, che riguardai, vidi un’insegna,
   Che girando correva tanto ratta.
   Che d’ogni posa mi pareva indegna.
E dietro le venia sì lunga tratta55
   Di gente, ch’i’ non avrei mai creduto,
   Che tanta morte n’avesse disfatta.2
Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
   Vidi e conobbi l’ombra di colui2
   Che fece per viltate il gran rifiuto.60


  1. Altri Codici hanno e pagoroso, paguro, e paurosa, e di gran pavento. Io ho corretto col Codice Laurenziano, Pluleo XL. 26.
  2. 2,0 2,1 v 59. Così la Vind., R. e la glossa L'e poi vale eziandìo, e sta bene col riconosciuto. Concordano a ciò BS, BP, BU, BV, il marciano LII, e IX, 339, il Cortonese molto antico e il Di-Bagno



V. 49. Mostra che ’l mondo temporale li dispregia, che non vuole che in esso sia memoria di loro.

50. Gli sdegna. Mostra che similemente lo mondo spirituale tiene contra essi simile norma.

51. Veduto che questi due mondi la dispregiano e pongonli silenzio, vuole Virgilio simile ponere alla presente Comedia silenzio d’essi. Ma a ciò che la cattivitade di quelli non inducesse imperfezione all’ordine mondano, è convenevole che alquanto se ne ragioni, a ciò che si possa cognoscere che tal condizione è, e però dice: ma guarda e passa.

52. Or qui vuole Dante mostrare lo esercizio in che stanno queste cotali anime cattive per opposito a sua disposizione mondana. E dice che ne vide venire drieto a una insegna tanta quantitade che li parve impossibile a sua credenza. E dice che si credea che, dachè il mondo si cominciò, tante persone non fusseno morte tra buone e rie. E dice che andavano sì ratte, cioè sì correnti, affannate, che ogni posamento a quella corsa era indegno; quasi a dire ch’erano in velocissimo moto.

58. Dopo più ch’ello ne conoscette in quella turma, fa menzione d’uno lo quale è notevile al mondo. E nota che qui Dante per benivolenza c’hae a’ mondani, acciò che meglio si sottraggano da’ vizii ed adovrino virtude, dà per esemplo persona notevile, acciò perchè per ignoranzia di non cognoscere la persona esemplificata, fosse ignorato il suo parlare.

59. Costui fu fra Piero Morone, lo quale fue eletto papa, ed ebbe nome papa Celestino. Or la condizione di costui era, che inanzi che ’l fusse papa, ello era frate di grande penitenzia e di stretta vita; fu per li cardinali eletto papa. Questi essendo in tale offizio, esaudiva li poveri cherici, sdegnava le baratterìe e simonìe di corte, non si guadagnava li cardinali per avogarìe, nò per grazie, sì

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Incontanente intesi, e certo fui,
     Che quest’era la setta dei cattivi,
     A Dio spiacenti ed a’ nemici sui.
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
     Erano ignudi e stimolati molto 65
     Da mosconi e da vespe ch’erano ivi.
Elle rigavan lor di sangue il volto,
     Che mischiato di lagrime, a’ lor piedi,
     Da fastidiosi vermi era ricolto.
E poi che a riguardare oltre mi diedi, 70




che elli sen tenevano impacciati; pensonsi di farli opinione che elli non fusse sufficiente a tale offìzio. Ed ogni volta ch’elli erano in concistoro, e fusseno a ragionare d’alcune cose, sì li dicevano: padre santo, tu vedi a che stato è il mondo, tu vedi che tal cosa si conviene fare per mantenere la ragione della Chiesa: la ragione dico le giuste ricchezze mondane acquistate, usurpate e tolte dallo imperio al tempo della sua vacazione: a te bisogna tènere cotal via e cotal modo, e tuttavia mostrando li modi contra Dio e contra ragione. E costui veggendosi in cotale laberinto, pensò di rifiutare: ma la coscienza li rimordea, pensando che lassava la Chiesa senza sposo. Infine veggendo costoro che nol poteano volgere per sue parole, pensonno di volere farli credere che a Dio piacesse lo suo rifiuto. E ingegnonno certi cannoni, li quali rispondeano nella sua camera, e per quelli li parlavano di notte, dicendo com’elli erano angeli da Dio messi; e che nel conspetto di Dio era ch’elli non era sufficiente a tanto offìzio, e però ch’elli dovesse rifiutare. Questo udito per più notti e da diverse ore, come seppono fare quelli, che a ciò continuo pensavano, mise in cuore, credendo sè insufficiente essere e cattivo, di rifiutare; e così fece.

V. 61. Segue lo suo poema narrando com’era la setta de’ cattivi, li quali non solo dispiacciono a Dio, ma alli amici suoi 1. E questo dice perchè comunemente se questi prelati vogliono piacere alli amici suoi, elli convegnono fare di quello che dispiace a Dio, come tòrre la parte de’ poveri e darla alli amici, ma li sopradetti cattivi dispiaceno a Dio e alli amici suoi: imperò che non servono a Dio nè agli amici di lor medesimi.

64. Dice che mai non furono vivi, perchè colui è vivo che lassa drieto a sè buona fama; questi non lassonno, ergo etc. E soggiunge ch’erano stimolati da mosche e da vespe, che li teneano continuo in esercizio, li quali animaletti li penavano, come appare nel testo.

69. Non vuol altro dire che da compagnìa vituperosa.

70. Nota che qui si fa menzione d’uno fiume, lo quale elli appella Achironte, e questo per allegorìa significa la delettazione carnale, la quale è principio a tutti i vizii, sichè convenevole fue a

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     Vidi gente alla riva d' un gran fiume:
     Perch’io dissi: Maestro, or mi concedi,
Ch’io sappia quali sono, e qual costume
     Le fa parer di trapassar sì pronte,
     Com’io discerno per lo fioco lume. 75
Ed egli a me: Le cose ti fien conte,
     Quando noi fermerem li nostri passi
     Sulla trista riviera d’Acheronte.
Allor con gli occhi vergognosi e bassi,
     Temendo no ’l mio dir gli fusse grave, 80
     Infino al fiume di parlar mi trassi.
Ed ecco verso noi venir per nave
     Un vecchio bianco per antico pelo,
     Gridando: Guai a voi anime prave:
Non isperate mai veder lo cielo. 85
     I' vegno per menarvi all’altra riva,
     Nelle tenebre eterne, in caldo e in gelo:
E tu che se’ costì, anima viva,
     Partiti da cotesti che son morti.
     Ma poi ch’ei vide, ch’io non mi partiva, 90
Disse: Per altre vie, per altri porti
     Verrai a piaggia, non qui, per passare:
     Più lieve legno convien che ti porti.




metterla in principio dello Inferno a mostrare che essa è cominciamento ed esordio delli vizii. E mette per simile allegoria uno nocchiero al ditto fiume, ed è appellato Caron, il quale significa la voluntade carnale, come avere cupiditade over concupiscenzia d’ogni delettazione carnale. Or seguendo suo poema dice che vide sulla via del predetto fiume molta gente, per la quale moltitudine elli si mise a dimandare che genti fosseno, e perchè pareano così pronti a volere passare. Or qui muove uno dubio, che dacchè quelle anime sanno ch’elle vanno al luogo di pena e di tristizia, perchè ne mostrano tanto desio? e dopo parole poetiche risponde là dove dice: figliuol mio disse il maestro:2 e dice che non son così pronte, perchè la giustizia di Dio li sprona: sichè la paura della giustizia di Dio se li volge in desiderio, e questo gli aviene perchè non sono in libero arbitrio che conviene pure seguire l'ordine mondano.

76. Segue lo poema, come appare nel testo, e come fino alla riva del fiume non disse più parole.

82. Questo vecchio è Caron preditto, lo quale venìa per levare la malnata masnada.

88. Mostra come Caron lo refiutò, quasi a dire che Dante non era vizioso di delettazione carnale, e che quello non era suo porto.

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E il duca a Lui: Caron, non ti crucciare:
     Vuolsi così colà, dove si puote 95
     Ciò che si vuole, e più non dimandare.
Quinci fur quete le lanose gote
     Al nocchier della livida palude,
     Che intorno agli occhi avea di fiamme rote.
Ma quell’anime ch’eran lasse e nude, 100
     Cangiâr colore e dibattero i denti,
     Ratto che inteser le parole crude.
Bestemmiavano Iddio e i lor parenti,
     L’umana specie, il luogo, il tempo e il seme
     Di lor semenza e di lor nascimenti. 105
Poi si ritrasser tutte quante insieme,
     Forte piangendo, alla riva malvagia,
     Che attende ciascun uom che Dio non teme.
Caron dimonio, con occhi di bragia,


V. 94. Mostra qui come di vertude e grazia del cielo questa andata era concessa, e come li demoni non possano contradire a tal volere, perchè ciò che si vuole si puòe.

100. Mostra lo spaventamento ch’ebbone l’ anime, quando videno tale nocchiero ed inteseno suo sermone; e soggiunge che quelle anime bestemmiavano Dio e suoi padri e sue madri e la sua spezia umana, che vorrebbeno inanzi essere state bestie al mondo.

104. Lo luogo, cioè lo mondo; l’ordine mondano, cioè lo tempo.

Ivi. Cioè li loro figliuoli e descendenti.

106. Dice come si trassero alla riva e per segno di Caron ad uno ad uno entravano nella dolorosa nave, in la quale s’alcuno s’adagiava era battuto col remo da quel nocchiero, lo quale avea occhi di fuoco con grande fiamma incesa attorno; e dà uno esemplo quando saliva in nave, quando dice: come d’autunno. Egli è da sapere che gli è quattro stagioni nell’ anno, cioè primavera, state, autunno e inverno. In la primavera germigliano e infogliansi tutte l’erbe e gli albori, la quale infogliazione provvide la natura a custodia de’ frutti, acciò che non fusseno lesi dal calore del sole: poscia nella state vegnono li predetti frutti e per tutta quella stagione si maturano, e vegnono a sua perfezione; dopo tale perfezione non hanno più luogo le foglie, sichè in la stagione che viene dopo la state elle cadono, e questa è la stagione de lo autunno; poscia viene lo inverno, in lo quale per remota apparizione del sole, la terra non rende agli albori umore, sichè non fanno novitade. Or dice l’esemplo: sicome l’arbore d’autunno si vede cadere ad una ad una le sue spoglie3, fino che ve ne rimane una, così la mala semenza, cioè li mali discesi della stirpe d’Adamo, si gittavano in la nave dolorosa.

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     Loro accennando, tutte le raccoglie; 110
     Batte col remo qualunque s’adagia.
Come d’autunno si levan le foglie
     L’una appresso dell’altra, infìn che ’l ramo
     Vede alla terra tutte le sue spoglie;4
Similemente il mal seme d’Adamo: 115
     Gittansi di quel lito ad una ad una,
     Per cenni, come augel per suo richiamo.
Così sen vanno su per V onda bruna,
     Ed avanti che sian di là discese.
     Anche di qua nova schiera s’aduna. 120
Fìgliuol mio, disse il Maestro cortese,
     Quelli che muoion nell’ira di Dio
     Tutti convegnon qui d’ogni paese:
E pronti sono a trapassar lo rio.
     Che la divina giustizia li sprona 125
     Sì che la tema si volge in disio.
Quinci non passa mai anima buona;
     E però se Caron di te si lagna.
     Ben puoi saper omai che il suo dir suona.
Finito questo, la buia campagna 130


  1. Qui intende gli amici proprii di essi cattivi: e ne spiega la glossa.
  2. Vedi variante curiosa di che è parola a fin del Canto..
  3. Il Cod. Di-Bagno qui ha spoglie chiaro e netto. La Vind. e R. foglie.
  4. V. I 14. sto coll’ Aldo e con Witte: la glossa ha si vede cadere ad una ad una le sue spoglie. Qui al restituito vede e ellissi di rese. La glossa che avrebbe a che appoggiarsi non dà lezione reggibile. Non può cadere ciò ch’è già caduto.
    Se bisogno fosse d’autorità a sostener la scelta mia offrirei i Cod. Marciani IX, 26 e 339, e LVII. il Perugino 208, il Cortonese, il Laur. XL. 7, il BP, il Laudiano, e i due integri dell’Università bolognese. Chi accetta rende in cambio di vede (come il Gregorelli col Cod. marciano LII) troverà intoppo nel si levan. Rendere nulla può quando tutte le foglie sono cadute. Il BS. ha si vede a terra che non muta il concetto.




V. 118. Procede nel poema, e soggiugne che, innanzi che la nave sia all’altra riva, nuova gente s’aduna per passare; la quale fretta mostra la mala disposizione del mondo che è si pronto ai vizii e peccati, che quel nocchiero appena può riparare a fare lo ditto tragetto.

121. È la risposta al dubbio, com è ditto, quando vuole sapere che gente fossono, e perchè tanto voluntarosi si mostravano del passare.

127. Quinci non passa mai anima buona; quasi a dire ch’era senza vizio, com’è ditto.

130. Or è da sapere che, com’è ditto, Dante non era vizioso di tal peccato. E però com’ elli passa tale fiume nol dice, ma mostra poeticamente come fu sorpreso da sonno, sicome appare nel testo.

E qui è finita la somma del terzo capitolo.

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136 INFERNO. — Canto III. Verso 133 a 180

     Tremò sì forte, che dello spavento
     La mente di sudore ancor mi bagna.
La terra lagrimosa diede vento,
     Che balenò una luce vermiglia,
     La qual mi vinse ciascun sentimento: 135
E caddi, come l'uom cui sonno piglia.



Nota. Le parole di richiamo alla Chiosa al v. 70 che sembrano del testo di Dante non vi si trovano e quelle che i mss. lanei hanno a richiamo in capo di linea non sono desse. È noto che Dante scrisse innanzi tutto l' Inferno, e che ne dava fuori brani, i quali poi, come ho detto nella Prefazione, mutava e rimutava nelle vocie ne’ versi onde sono le tante varianti che fanno disperare i filologi.