Commentario rapisardiano/Il carattere di Mario Rapisardi
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IL CARATTERE DI MARIO RAPISARDI
I.
Mario Rapisardi ci teneva a essere stimato come carattere anzitutto e poi come poeta: era questa la sua maggiore ambizione. E forse non fu mai carattere più pertinacemente intiero e inflessibile, se togli Dante e Mazzini.
Già è risaputo che in ogni epoca sorgono provvidenzialmente esseri eletti, privilegiati dalla natura, che hanno la rara virtù di innalzarsi sulla folla dei loro contemporanei, illuminando col potente splendore delle loro opere geniali l’umanità e sospingendola nella via gloriosa dell’avvenire. Che l’opera del genio è sempre, senza dubbio, eminentemente educatrice, derivi essa dalle pazienti indagini della scienza o dagli iridescenti entusiasmi dell’arte. E opera educatrice vuol dire opera morale, cioè sociale.
Ben il Poeta in una mirabile Prelezione, che chiude in brevi linee tutto il suo programma d’insegnamento, ricorda ai giovani come “la nostra storia letteraria ci porge ancor che raramente esempi memorabili di scrittori nei quali si trova un equilibrio e un’armonia perfetta di facoltà, nei quali l’uomo, il cittadino, il pensatore, lo scrittore si fondono in una stupenda unità: sono questi i veri grandi scrittori, i grandi caratteri, le statue di bronzo del nostro panteon letterario„. Chi meglio di lui, vivente esemplare, poteva affermarlo?
Or in tempi di abbiosciamento e di mercimonio, di dedizioni e di raffinatezze, la figura di Mario Rapisardi si erge dritta e solenne in solitaria fierezza; e la sua parola fascinosa risuona fervidamente ammonitrice di carità, di libertà, di giustizia.
Egli, più che maestro, ben possiamo affermare, fu un condottiero di giovani falangi, pur vivendo fuori dell’umano commercio, nella regione luminosa dei sogni. L’animo tutto compreso di un nobilissimo ideale, si beò nella gloria delle forze universe; seppe le grandi lotte, non cessando però mai di combattere le battaglie più sante dello spirito umano, mentre che alle schermaglie della vita cotidiana si trovò sempre inadatto. Si credette un vinto, e superò i suoi tempi con la fermezza incrollabile della sua fede, con la purezza adamantina del suo carattere. E alla guisa che gli antichi profeti, con la forza del sincero entusiasmo che li animava, coraggiosamente elevandosi a giudici dei tiranni, vaticinavano prossima la fine delle loro iniquità e l’avvento del regno di Dio; con pari ardimento egli liberamente denudò e flagellò i vizi dell’età sua, celebrando al tempo stesso in canti immortali la redenzione del mondo nel trionfo dell’amore.
Ma per aver piena conoscenza del temperamento eccezionale di Mario Rapisardi, conviene seguirlo passo passo nella sua vita e, tralasciando di accennare ai piccoli casi della sua fanciullezza, cioè alle sue pratiche chiesastiche, alle letture proibite che dovettero influire sicuramente non poco nello sviluppo e nell’orientamento della sua psiche, cominciare ad interessarci in più particolar modo della sua prima giovinezza, quando, sebbene affetto da un male terribile, egli non si dà per vinto e continua a studiare e a dettare i suoi canti appassionati. Son del ’62 i versi “alla Poesia„ in cui detesta i “gelidi sofi a cui la vita è morte„.
Ebbe tanto ferma la volontà di vivere! Ricorda il “volli„ di Alfieri. Fortissimamente volle, e vinse.
Sappiamo che alla pubblicazione della “Palingenesi„. V. Hugo, spontaneamente [1] lo battezzò un precursore. La sua missione era segnata. E allora si diede più alacremente all’opera, e proseguì nella sicurezza del suo mandato divino. Irruppe con forza, e spaziò per il mondo liberamente l’animo suo ribelle: il tempo fu suo. Concepì e scrisse il “Lucifero„.
Quando, nella primavera del ’76, Don Pedro II, di passaggio per Catania, assistette a una sua lezione (che giusto quel giorno spiegava l’ultimo libro della “Monarchia„ di Dante) egli, a un certo punto, rivolgendosi al monarca “con gesto maestoso e parola vibrante„ [2] disse: “Io non parlo all’imperatore del Brasile, ma a Don Pedro d’Alcantara„. L’imperatore battè le mani. E naturalmente scrosciarono quindi gli applausi da parte del numeroso uditorio.
Né meno rilevante d’importanza significativa fu la prolusione sul “Nuovo concetto scientifico„ dettata il 16 novembre ’79 nella grand’aula dell’Università, per l’inaugurazione dell’anno scolastico, in presenza delle autorità ivi convenute, che dovettero sentire “allibite„ lo spiegamento di audaci teorie, non mai sin allora enunciate da un professore ufficiale.
Da pochi mesi intanto aveva pubblicato l’Ode al Re, l’ode che è peana e insieme ammonimento; e par il grido dell’umana coscienza rinnovata. Notiamo intanto di passaggio le tre date — 1859, 1869, 1879 — che segnano le tre fasi della evoluzione del pensiero rapisardiano: l’ode a S. Agata, l’inno alla Natura, l’ode al Re.
II.
Ed ecco, mentre che altri, per venale ambizione o per circeo maleficio, dà miserando spettacolo di incoerenza e di servilità, egli, sorretto dalla coscienza intemerata, ricredendosi dei giovanili errori, spezzate tutte le pastoie del pensiero, passa risolutamente a bandire il verbo novello, rischiando la propria libertà e il tozzo cotidiano.
E che dire della sua condotta al tempo della non mai abbastanza comentata Polemica? Allora egli, che aveva tutta la gioventù d’Italia con sé, e i migliori uomini lo stimavano e lo sostenevano, si sarebbe di certo potuto render signore della situazione. Ma non era uomo da intrighi e da manovre, come era esperto il suo avversario. E, restandosi chiuso nella gelosa rigidità del suo carattere, interamente assorto nel mondo dei suoi sogni d’arte, incurante delle picciolette gare, fu creduto superbo, inaccessibile; e finì con l’alienarsi l’animo di non pochi giovani interessati da egoistico tornaconto: anzi qualcuno di essi gli si voltò contro, apertamente. Accadde ben tosto che tutti gli strascini della letteratura giornalaia bofonchiarono che il Poeta era spacciato; e, fingendo di ignorare che l’aquila vola in alto incontro al Sole, a dispetto dei gufi e dei barbagianni, si confortarono a vicenda arrabattandosi a tessergli intorno la ragnatela del silenzio.
Ma che? “Voi solo — gli scrive il Graf dopo la lettura del “Giobbe„ — in mezzo a tanta sciatteria e vigliaccheria tornate pur sempre con la mente ai grandi dolori, alle grandi lotte, alle faticose fortune dell’umanità, e tessete il verso di lacrime e di grida di ribellione e di canti di trionfo. Lasciate i rospi diguazzare e gracidare nella pozzanghera: lasciate che sputino la bava ond’hanno pieno il corpo! Il poeta d’Italia siete voi. Anzi, non pure d’Italia, ma un poeta voi siete dell’umanità; e coi dolori e con le speranze della umanità a cui li avete sposati, rimarranno i vostri versi, quando di quelli degli altri sarà spenta perfino la memoria„.
Rapisardi
(13 ottobre 1895) Il tempo dà la giusta ragione.
Non passa molto, e nell’“Atlantide„ Mario Rapisardi risorge armato della magnanima ira di Dante; e dei nemici nel nuovo poema piglia allegra vendetta. Par di sentirlo il titanico martello picchiar sodo sulle dure cervici dei disonesti congiurati.
“Fra i nitidi fulgori della classica beltà — gli scrive in proposito Pietro Ellero — librasi ella sopra un mondo così abietto da non meritare più né lo sdegnoso sarcasmo, né l’urbana ironia, ma da dover essere trattato addirittura come fango; e ciò spiega la poetica arma di combattimento da lei scelta... Il poeta, il vero poeta è il primo personaggio di una nazione, che ha una sovranità propria e che ha tali diritti i quali mal si regolano con le nostre leggi„. E ben il Poeta lo sapeva e lo diceva francamente, che è massimo dovere d’ogni scrittore civile “flagellare i malvagi e smascherare gl’ipocriti„.
Non scandalizzino quindi certe frasi crudeli. Via: in taverna non si cantano omelie, né c’è salsa senza pepe.
Così egli, nauseato dalle turpitudini del secolo, non lasciava di ammonire con prorompente foga:
Grida, o popolo, alfine a la nefasta
Geldra dei prepotenti e dei lenoni
Con la voce di trenta milioni
D’anime: Basta![3]
III.
Nell’ecclissi della coscienza italiana e di ogni umana dignità, a Mario Rapisardi non venne mai meno la fede, che egli seppe mantener salda e inalterata sino all’estremo. Dum memor ipse mei, dutn spiritus hos regit artus, amava ripetere con l’Enea virgiliano. Seguì sempre dritto la sua via. E quanti dolori, quanti spasimi, quante amarezze! “Spero morire in piedi e con la fronte levata„ scrisse un giorno a Lida Cerracchini. E più chiaramente al Graf: “Morirò col grido della battaglia sulle labbra e con la certezza della vittoria nel cuore„. Non vacillò mai; cadde sulla breccia: rara tempra d’eroe. Che non cimitero di rinunzie o mercato di vanità, ma vivaio di aspirazioni e campo aperto di ardimentose battaglie è veramente l'Arte, che è pur l’espressione più bella della vita.
E apostolato fu il suo insegnamento, e la cattedra faro luminoso d’idee. Agli spiriti sfiduciati ei consigliava come corroborante la lettura degli scritti di Mazzini. Austerissimo precettore, più che i diritti ricordava i doveri dell’uomo: giacché nel dovere è implicato l’ordine, la disciplina, la saggezza. Le sue parole erano scintille, che incitavano i giovani a bene operare.
Ma, sempre alieno dalle convenevoli menzogne onde si industriano comunemente le moltitudini! E giunse egli, esempio rarissimo tra gli autori, a rimandar i frontespizi speditigli dal Sandron per controllarli con la sua firma, giustificandosi con queste auree parole: “Il controllo dell’autore m’è parso sempre una pubblica prova di reciproca diffidenza e, come tutto ciò ch’è borghesemente e commercialmente utile, ripugna all’indole mia non so se anarchica o aristocratica„.
Non largheggiava nelle lodi. Nei suoi giudizi nulla potevano le seduzioni dell’amore e dell’amicizia. “Ai dannulla non rispondo„ scriveva nobilmente a un amico. E a un giovine che gli chiedeva un giudizio su un volume di versi, rispose laconicamente con Dante: “Mala via tieni„. Anzi a chi, negli ultimi anni, lo pregava di un autografo, foss’anche un rigo, una parola, mandò in una carta da visita: “Vanitas vanitatum„.
Eppure, esuberante di passionalità, Mario Rapisardi amò e odiò potentemente, e parve eccessivo. Ma, chi ben guardi alla schiettezza dell’animo, il suo smisurato orgoglio è il caratteristico pregio della sua nobile natura. Per altro lo confessò egli stesso: “ma io non ho potuto amar la virtù senza odiare il suo contrario. L’odio com’io l’intendo ha una funzione sociale importante e benefica: la funzione del temporale che purifica l’atmosfera„.
Egli toccò con delicatezza squisita la corda degli affetti gentili, traendone armonie soavissime; e quando ebbe a odiare, marchiò d’infamia senza ritegno tutto quanto è ingiusto, disonesto, volgare. E con piena coscienza. “Idealista intransigente ed impaziente, io, se di molte cose e di molti uomini contemporanei mi rammarico, e ne dico male con la veemenza propria dell’indole mia, spero che ne sarò perdonato in grazia degl’intenti ideali a cui ho sempre mirato con passione sincera e con entusiasmo ardente, non intiepidito né dagli anni né dai malanni!„.
Il suo ideale politico è tutt’uno con il suo ideale religioso. “La mia religione — confidava al Reina — non è soltanto figlia del sentimento, ma è anche frutto di meditazioni e di convinzioni incrollabili; e non cieca ed egoistica aspirazione a una felicità avvenire, ma bisogno operoso di amore e di carità, ma coscienza virile e imperterrita del vero, e coraggio e direi anche forza irresistibile di predicarlo e di attuarlo e di farlo trionfare per il bene e per la felicità possibile del genere umano„.
Così durò sempre, onde pochi anni prima di morire poteva scrivere al Farina: “Né l’odiosa vecchiezza né i malanni e gli odi che mi vanno ancora saettando i farisei di tutte le confessioni mi hanno rammorbidito. L’animo dura tuttavia acerbo... Timido ed umile innanzi all’Ideale, io sono ancora animoso e orgoglioso innanzi ai nani che vogliono parer giganti: la coscienza d’esser dappiù dì parecchi mi sostiene ancora e mi darà, spero, la forza di non cadere in ginocchio innanzi agli idoli venerati dal volgo„.
Perciò Mario Rapisardi volle e potè restar solo, nella sua solitudine selvaggia e far parte per se stesso, sdegnando ingreggiarsi nelle sètte [4].
E tale la sua granitica figura torreggia magnificamente corrusca, come appare nella bellissima ottava dell’Atlantide, ove egli stesso si ritrae:
Quel disdegnoso in su la tolda ritto.
Fosco il crin, fiso il guardo, ampia la fronte,
È il vate etneo, che come spada ha dritto
L’animo, ardente il cor, le rime pronte:
Sta l’Ideal nella sua mente fitto
Qual vessillo di guerra in cima a un monte.
Odio e terror della congrega impura
Che da lui dispregiata in lui congiura.
IV.
Or che importa se questo eroico “soldato della libertà e della giustizia„[5], questo generoso dispensatore di luce ha dovuto aver per sorte — come egli stesso presentì — la dimenticanza sinanco da parte dei propri concittadini? [6] Scriveva amaramente:
Senza pianto una zolla e senza fiori
Terrà chi invan sfidò numi e tiranni.
Del resto, anche il Leopardi ebbe a cantare che “oblio preme colui che all’età propria increbbe„. Eppure la grandezza dell’animo del Rapisardi, meraviglioso navigator dell’Infinito, sa trovar conforto nella purezza e santità delle sue aspirazioni, e, argutamente ammonendo, fa voti che il suo ideale trionfante sopravviva:
Poeta geniale, il poeta dopo Victor Hugo più variamente grandioso della seconda metà del secolo XIX, fantasia vasta oceanica luminosa, animo religiosamente austero, Mario Rapisardi vivrà nella memoria degli uomini finché il sentimento della dignità e della libertà non sarà affatto spento nel mondo.
E giova ricordare, a conchiusione di queste pagine, il seguente sonetto che dimostra splendidamente nella sua suggestiva finitezza artistica l’imperturbabile serenità della coscienza e la fermezza del carattere di lui sin negli anni estremi della sua travagliata esistenza:
Onde Arturo Graf non poteva in forma più concisamente vigorosa, più veridicamente solenne dettare per lui l’iscrizione che si legge nell’atrio dell’Università di Catania:
“Poeta e propugnatore — Mario Rapisardi — accolse nell'animo — espresse nel verso — i teneri e gli eroici affetti — le aspirazioni e i voti — della premente umanità — le angosce dell’inscrutabile — la religione suprema — del Tutto vivente. — Flagellatore imperterrito — di ingiustizia di viltà di menzogna — visse intemerato — morì da forte — esempio rimprovero ammonimento — a contemporanei ed a posteri„.
__________
Note
- ↑ Quando altri a dispetto di ripetute genuflessioni non potè avere da V. Hugo nemmeno un grazie.
- ↑ Questo ebbe a riferirmi in una lettera, dopo la pubblicazione dell’Epistolario, il mio prof. Eugenio Di Mattei, che assistette da studente a quella lezione.
- ↑ Dall'autografo del poemetto L’impenitente.
- ↑ Credo convenevole qui riportare il mio breve chiarimento pubblicato nel Giornale d’Italia di Roma, il 17 febbraio 1919: “Signor Direttore, Nella lettera del gran maestro Nathan a confutazione di un giudizio del sen. Croce, stampata recentemente sul Giornale di Italia, si legge il nome di Mario Rapisardi tra i poeti che furono ascritti alla Massoneria. — Or sia concesso a me, erede legittimo del Rapisardi, affermare pubblicamente che egli, sebbene cantore di Lucifero, non fu mai massone. Del resto, egli stesso ebbe più volte a dichiarare che non era aggregato a nessuna accademia, a nessuna setta, a nessun partito. Tanto, perchè si rilevi l’equivoco. Con perfetta osservanza, obbl.mo Alfio Tomaselli„.
- ↑ Così lo chiamò Emilio Zola. Vedi Onoranze a M. Rapisardi, Catania, Di Mattai, 1899.
- ↑ L’umile pietra sepolcrale nel camposanto di Catania non porta ancora inciso il nome di Mario Rapisardi.
- Testi in cui è citato il testo Lucifero/Epistola
- Testi in cui è citato il testo Atlantide/Canto I
- Testi in cui è citato il testo Africa orrenda/Dopo la sconfitta
- Testi in cui è citato il testo Poemetti (Rapisardi)/Don Josè
- Testi in cui è citato Mario Rapisardi
- Testi in cui è citato Dante Alighieri
- Testi in cui è citato Giuseppe Mazzini
- Testi in cui è citato Vittorio Alfieri
- Testi in cui è citato Victor Hugo
- Testi in cui è citato il testo Monarchia/Libro III
- Testi in cui è citato il testo Giustizia
- Testi in cui è citato il testo Giobbe (Rapisardi)
- Testi in cui è citato Arturo Graf
- Testi in cui è citato il testo Atlantide
- Testi in cui è citato Pietro Ellero
- Testi in cui è citato il testo Eneide (Caro)/Libro quarto
- Testi in cui è citato Publio Virgilio Marone
- Testi in cui è citato Lida Cerracchini
- Testi in cui è citato il testo Divina Commedia/Inferno/Canto XVII
- Testi in cui è citato il testo Lettera a Calcedonio Reina (29 aprile 1887)
- Testi in cui è citato Calcedonio Reina
- Testi in cui è citato il testo Lettera a Salvatore Farina (21 aprile 1906)
- Testi in cui è citato Salvatore Farina
- Testi in cui è citato Giacomo Leopardi
- Testi in cui è citato il testo Canti (Leopardi — Donati)/XXXIV. La ginestra
- Testi in cui è citato Benedetto Croce
- Testi in cui è citato il testo Lucifero
- Testi SAL 75%