Commentario rapisardiano/Mario Rapisardi
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MARIO RAPISARDI
I.
Parlare convenientemente di Mario Rapisardi non è cosa molto facile, trattandosi di una natura complessa d’artista che par tanto semplice nella sua grandezza. Diciamo per prima che l’animo del Rapisardi è tutto riflesso nelle sue opere, alla stessa guisa che nelle sfaccettature di un brillante si riflette purissima la luce del sole.
Or dalle sue opere balza la figura del Poeta, salda e possente: a considerarla attentamente, ha del macigno stagliato dalla formidabile roccia etnea; e le asperità e le disuguaglianze sono condizioni inerenti alla sua natura alpestre.
Cosí si spiega in lui, che aveva piena coscienza di sé, l’atteggiamento di sfida contro le nequizie dei suoi tempi, il supremo disdegno per ogni volgarità, l’ebbrezza quasi ascetica nella solitudine selvaggia. Eccessivo, se vogliamo, nei suoi odi e nei suoi amori; ma rigido nel dovere e devoto ai suoi ideali. Fa pensare a Dante: figura morale singolarmente e austeramente superba, magnificata dalla “buona compagnia che l’uom francheggia sotto l’usbergo del sentirsi pura„.
Più che un uomo, dunque, il Poeta rappresenta una idea.
Con ciò non vogliam dire che Mario Rapisardi s’abbia a riguardare come un essere fuori della natura umana, una purità angelicata, un uomo immune di peccati, tutt’affatto diverso dagli altri uomini. Non idolatria, né feticismo, officio da servi. Noi intendiamo solamente far rilevare che egli incarnava, come altri mai, un ideale di libertà, di giustizia, di amore, tal che la selvatichezza apparente dei modi celava nell’animo di lui uno splendido tesoro di gentilezza e di grazia; che la fierezza del suo ideale “lo faceva rifuggire dalle vie trite e volgari e dalle velleità baldanzose onde venne ad altri facile fama„[1]; che i migliori sentimenti umani, in lui contemperati ed espressi in forme d’arte ammirande, giungono a renderlo un uomo davvero eccezionale.
Nella vita il Rapisardi fu un solitario per inclinazione e per forza maggiore: così fece parte per se stesso, chiudendosi in un eremo spazioso fra l’Etna e il mare. Egli era convinto “che la solitudine e lo starsene in disparte come il Saladino è necessario al pensatore e all’artista„; e teneva che l’artista e l’opera sua fossero compenetrati sì da costituire un tutto organico vivente. Non sentì mai il bisogno di nasconder nulla con orpelli di alcun genere: volle sempre fino all’estremo apparir tale qual era dritto e intiero, con le sue virtù e le sue manchevolezze.
E fu per questa ragione che egli non permise mai si facesse una scelta delle sue poesie con l’intenzione di renderle accette virginibus puerisque, credendo giustamente che così si riuscirebbe “a menomare e a mutilare la sua integrità personale„. Personalità poetica imponente, che splende di luce propria, come stella di prima grandezza nel cielo limpido dell’arte.
E per l’arte Mario Rapisardi animosamente combattè, e vinse morendo.
Non c’è dubbio che il poeta, degnò veramente di questo nome, ha una santa missione da compiere nel mondo: egli non conosce ostacoli, che agevolmente li sormonta; “porta tutte le corone, compresa quella di spine„; e la sua morte è un’apoteosi.
II.
Mario Rapisardi non fu un caposcuola: perciò non ebbe, strettamente parlando, discepoli; e non poteva averne. Egli schiuse nuovi orizzonti; additò nuove vie, ma aspre e difficili; parlò una nuova parola d’amore in tempi di lotte caine, di mercimoni turpi, di abbiezioni brutali.
Non possiamo, per conseguenza, trovare in lui il maestro di poesia, vale a dire il pedante, lo sgobbone; né — come fu detto per il Carducci — il fauno che sbuca dalla cappa del professore; e tanto meno il fanciullino.
Lo spirito del Rapisardi, che viveva in intima comunione con gli spiriti più eccelsi signori dell’arte e del pensiero di tutti i tempi, non sapeva e non poteva adattarsi alle minuzie scolastiche, alle grettezze dottrinali, alle umili contingenze cotidiane. Egli affrontava gli ardui problemi della vita, scrutava le profondità misteriose del dolore infinito, esaltava le bellezze della verità trionfante.
Comprendeva la terra e il cielo. E i fatti e gli avvenimenti più grandiosi della storia sono materia dei suoi canti, e sono rievocate nelle sue meravigliose visioni anche le atletiche figure di Prometeo, di Encelado, di Laocoonte, che, se non realtà storiche, sono magnifiche personificazioni delle eterne e supreme forze della natura, viventi nella luce del mito immortale.
I principi d’arte del Rapisardi, affermatisi meglio negli anni, furono affatto discordi da quelli dei suoi contemporanei. In mezzo al dilagare di torbide correnti artistiche, gonfie di viziose deviazioni e di sensualità raffinate e lussureggianti, egli passò incontaminato. La sua arte è casta e nello stesso tempo piena di umanità e di potenza; nuda, senza infingimenti e senza lenocini. Egli idoleggiava le nitide forme dell’arte classica “la chiara, la sacra arte latina„. Ma le immagini, pure e perfette, che balzavano dal suo cuore commosso, sono animate di vita moderna, gioiscono di fremiti presaghi, folgorano tutta la bellezza intima del nobile artista creatore; e le sue opere hanno tutte incontestabile valore etico ed estetico insieme.
Il culto appassionato e sincero che il Rapisardi ebbe per l’arte fu superato solo dal culto che egli ebbe profondo e senza limite per la natura. Mai egli, neppure tra le più crude sofferenze, osò maledirla come fece il Leopardi: raggiunta la maturità degli anni e acquistata la piena saggezza, riconosce in essa la unica e giusta madre e moderatrice della vita rinnovantesi perennemente nell’amore; e la chiama “santa„, e si rassegna virilmente alle sue leggi, anzi se ne compiace e si esalta. E canta, come nessuno cantò mai, le luminose ascensioni delle sorti umane, “la religione suprema del tutto vivente„. Ben possiamo dir che la sua poesia, intimamente ed eminentemente lirica, è la sincera espressione di una coscienza eroica ritemprata dalla fede nelle eterne energie della vita cosmica.
E i suoi versi riecheggiano le voci recondite e misteriose di tutti gli esseri e di tutte le cose: sono sospiri d’amore e deliri d’ebbrezza, spasimi di angoscia e gridi di rivolta, schiocchi di sdegno e inni di trionfo, così tutti armonizzati e fusi nell’unità ideale, da formare indubitamente una delle più belle melopee moderne.
III.
Eppure tutto questo non poteva essere inteso da quanti furono sviati dietro al malo esempio di una babele di poeti e critici “specializzati„, che con pretensiosa prosopopea nelle gazzette tenevan cattedra e tribuna.
Già è risaputo come Bettinelli e La Harpe giudicarono la trilogia di Dante: l’uno “un libro di erudizione„; “l’altro une rapsodie informe et absurde„; sciorinando a tutto andare tante cose insensate. Non altrimenti alcuni critici odierni sentenziarono sulle opere del Rapisardi. E ne sballarono delle grosse. Ma noi sappiamo che la critica, meglio certa critica (il Rapisardi la definì bene nella nota ottava del c. VI dell’Atlantide) è oramai esercitazione dialettica di novelli sofisti bizantineggianti, che come tanti giocolieri da piazza fanno a loro piacimento apparire agli occhi del pubblico grosso il bianco nero e nero il bianco, il rovescio dritto e dritto il rovescio. Essi esaltano o denigrano un’opera d’arte a seconda della simpatia o antipatia che sentono per questo o per quell’autore, a seconda dell’umor gioviale o malinconico che domina in loro, a seconda di preoccupazioni o interessi di scuola o di partito, non curando se nelle loro argomentazioni si trovano a ogni passo in aperta contraddizione con loro stessi.
Cosí, scarnando e sminuzzando un capolavoro, a furia di sottigliezze e di arzigogoli, lo riducono a un pugno di polvere impalpabile da disperdere ai venti; mentre, all’opposto, una sciatteria, una incongruenza la concretano, la rimpolpano, la agghindano, e te la presentano come un capolavoro. Via, non è davvero questo il compito della critica, la quale deve essere “libera da preconcetti e paziente esploratrice„.
Dura ancora l’eco della triviale gazzarra che fu fatta attorno al Lucifero. Il poema è vuoto, dissero certuni: Lucifero, pur non credendo all’esistenza del suo avversario, lo combatte e finalmente lo spegne: ciò è un non senso. Non sapevano essi, o sapevano benissimo e fingevano di non sapere, che Lucifero e Dio nel poema del Rapisardi sono due simboli, la luce della ragione e il pregiudizio religioso messi a fronte; che la scienza col diuturno e paziente lavoro d’indagini e per via d’innumerevoli sacrifici, giunge a disperder gli errori della superstizione, tiranna delle anime ignare.
Rapisardi a studio rievoca in questo poema il nome dell’antico arcangelo apportatore di luce, giacché Satana è stato, ed è tuttavia per i credenti, il genio del male, il tentatore (opportunamente con tal nome. Satana, simbolo dei naturali istinti della vita comune, compare nel Giobbe); e la vittoria razionalmente non sarebbe stata allora possibile sul “gran tiranno„. Dovette esser questa la ragione principale che fece all’ultimo ravvedere il Carducci (dopo di avergli fatto consumar tanto inchiostro nelle polemiche sataniche) fino a indurlo a chiamare il suo Inno a Satana una “chitarronata„ e cantare in cambio la Chiesa di Polenta.
È da notare che se il Lucifero accese tanti pettegolezzi e tante dispute, il Giobbe, il sereno poema del dubbio e del dolore, e le Poesie religiose, che inneggiano alla fede nella scienza conquistatrice e alla consolante religione della natura, non suscitarono molta eco. Si alzarono clamori alla pubblicazione dell’Atlantide, che fece “levar le berze„ a più d’uno.
Or qualcuno voleva che i due odiati poemi fossero del tutto seppelliti, non già per le “deficienze„ che credevano trovarvi, sì bene per le “rivelazioni„ che di fatto vi si trovano e che realmente sanno di “forte agrume„. Ma la tetragona anima dell’Alighieri ancora ammonisce:
IV.
Per certo di fronte alle geniali creazioni di Mario Rapisardi è bene che la critica senta pienamente la gravità del suo compito. Né diremo che s’arresti trepidante e rispettosa.
“Come! Niente critica? No — insiste Victor Hugo — . Il genio è una entità come la Natura, e come essa vuol esser accettata puramente e semplicemente. Una montagna, o si prende o si lascia. C’è della gente che farebbe la critica all’Imalaja sasso per sasso. Tutto nel genio ha la sua ragion d’essere. È perchè è. La sua ombra è il rovescio della sua luce. 11 suo fuoco è conseguenza della sua fiamma. Il suo precipizio è la condizione della sua altezza„.[2]
E noi non c’indugiamo a rilevar minutamente nell’opera del Rapisardi la bellezza e originalità della ispirazione, i pregi formali e stilistici, la rara maestria delle perfezioni metriche; e nemmeno ci proviamo a giustificare i casuali riscontri con atteggiamenti altrui, le momentanee ecclissi della coscienza, la giovanile esuberanza di ritmi e d’immagini; ma ora vogliamo e dobbiamo tener precipuamente conto delle monumentali linee dell’opera rapisardiana e della sua consistenza sana e compatta che la rende durevole nel tempo.
Opera colossale di pensatore e di veggente. Mal genio di poeta nell’Italia moderna si levò a tanta altezza e universalità di concezione. La vita cosmica vi appar riflessa splendidamente in tutte le sue svariatissime manifestazioni. Poesia filosofica scientifica e, come già in Empedocle e in Lucrezio, religiosa e ora divenuta sociale. È tutto un mondo forgiato nella fantasia di un asceta, tutto plasmato di storia e di leggenda, di eroismo e di brutalità, di forza e di fede, di realtà e di sogno; tutto solenne per oscurità di abissi e luminosità di cieli, risonante di armonie nuove e sublimi. Possente opera di elevazione e di rinnovamento.
Ecco. Nei poemi sembra udir riecheggiare il grandioso coro delle dissonanti voci di tutti i tempi, lungo il faticoso cammino ascensionale dell’umanità; nelle liriche si sentono gli eloquenti palpiti di un cuore che di tutti i cuori ripete le angosce segrete, i nobili ardimenti, le aspirazioni divine. Le traduzioni, stupendo lavoro di addestramento e di preparazione, rivelano intimamente le affinità elettive dell’animo del Rapisardi coi suoi autori preferiti: Catullo, Lucrezio, Shelley. E non tralasciamo le prose (sebbene in minima parte note al pubblico) cioè gli studi e le lezioni[3] — che riescono a commentare dottamente le poesie attestando con più chiarezza la pura e forte tempra di maestro e di educatore in Mario Rapisardi — e non ultimo l’ Epistolario, florido giornale della sua vita interiore, limpido specchio del suo cuor generoso.
V.
Chi potè conoscere Mario Rapisardi da vicino potrebbe riferire qualche aneddoto e qualche motto significativo che rivelano la bontà dell’animo di lui tanto caro agli amici e agli studenti.
Ricordiamo. Una volta, verso il ’97, parecchi scolari stavano riuniti davanti al portone dell’Università con l’intenzione di festeggiare anche essi, come in quel giorno tutti gli altri lavoratori, il primo maggio “la festa universale del lavoro„ marinando, come suol dirsi, la scuola. Ma ecco venire il Rapisardi, e loro tutti dattorno a lui, curiosi di apprendere il suo parere in proposito. “È tanto chiaro — rispose il Maestro, semplicemente: — si festeggia il lavoro, lavorando„. E i giovani tosto si recarono alle lezioni.
Per il Rapisardi, lavoratore assiduo, il lavoro era purtroppo una festa. E il libro delle sue Poesie si chiude con un inno al lavoro. Non stette mai in isciopero la sua mente, nemmeno nelle ore da consacrare al sonno. E che dire della sua fervida attività non mai interrotta al tempo che intraprendeva un’opera di lunga lena? Notevole la prodigiosa celerità con cui produsse l’Atlantide. Certo che nel suo spirito era di lunga mano preparata la materia[4], la quale era venuta elaborandosi negli anni; ma in soli quattro mesi di “lavoro febbrile„ nella geniale ispirazione creatrice egli riuscì a scrivere il poema, e altri otto mesi di “letargo mortale„ durò a rifinirlo: cominciato il 15 dicembre 1890, lo finì il 15 dicembre 1891 “alle ore 12 meridiane„: così è segnato in fondo all’autografo.
Non accenniamo alla lunga paziente ingrata fatica a cui egli volontariamente si sottopose per tradurre le Odi di Orazio, poeta a lui tanto antipatico. Basta leggere la
Rapisardi
(1889)
nota che egli in forma di epitaffio si compiacque di apporre alla fine del manoscritto: “Questo fratesco lavoro — portava a termine — e fratescamente ricopiava — il signor Mario Rapisardi — nell’anno 1884 — infaustissimo della sua vita„.
Nei giorni più tristi della sua vita Mario Rapisardi cercava svago nel lavoro; anzi, col lavoro forzato snervante medicava le ferite del cuore che gli sanguinavano.
Eppure avvenne che nel 1905 volevano costringerlo “al riposo forzato„. Allora sorse viva e unanime protesta in tutta la stampa d’Italia allo strano provvedimento: venne interrogato “ufficiosamente„ il ministro, il quale poi diede ampie assicurazioni.
Or in una mattina di quei giorni di trepida aspettativa io mi recai a visitare il Rapisardi. Lo trovai, con mia sorpresa, intento tranquillamente a pulirsi le scarpe. Egli subito ebbe a indovinare il mio desiderio di notizie; e intanto, senza che io ne facessi accenno, appagò così la mia curiosità, dicendomi: — Come vede, se mi manderanno via, sarò sempre buono a guadagnarmi un tozzo.
E le scarpe, lucidate dal Maestro, brillavano a meraviglia.
VI.
Mario Rapisardi, in fondo, fu sempre lui; così nella vita, come nell’arte: sognatore impenitente, araldo di civiltà.
“Nel Rapisardino c’era già il Rapisardone„ — disse un giorno il Carducci, credendo di fargli un’ingiuria, — e invece diceva una grande verità. E di fatti nel poemetto che il Rapisardi scrisse a quindici anni, Fausta e Crispo, c’è già il poeta delle Ricordanze, del canto di Ebe e del canto di Isolina del poema Lucifero; e in Tenebre e Luce del volumetto Canti stampato nel 1863 c’è nientemeno l’autore della terza parte del Giobbe.
Il piccolo Rapisardi aveva saputo mantenere la promessa. Nè andò per nulla delusa l’aspettazione di coloro che primi estimarono l’altezza del suo ingegno. Victor Hugo nel ’68, appena letta la Palingenesi, gli scriveva: “Vous ètes un précurseur. Vous avez dans les mains deux flambeaux, le flambeau de poesie et le flambeau de vérité. Tous deux éclaireront l’Avenir.„ E Garibaldi, all’apparizione del Lucifero: “Coraggioso! All’avanguardia del progresso noi vi seguiremo, e possa seguirvi la nazione intiera nella grande opera di emancipazione morale da voi eroicamente iniziata„. Francesco De Sanctis, che fece onorifica menzione del Rapisardi nei suoi Nuovi saggi critici, nel ’78 ministro della P. I. notando nel giovine poeta l’auspicato iniziatore di una nuova formazione d’arte, lo premiava conferendogli la nomina di ordinario di letteratura italiana all’Università.
È innegabile che l’arte è la schietta espressione di un temperamento originale; che essa, tutta materiata di umanità, ha una funzione benefica nel mondo, e c’infiora i sentieri della vita. Non esteriorità pomposa e abbagliante, ma intimità gagliarda di sentimento. Nella sua integra coscienza Mario Rapisardi trovò la limpida sorgente delle sue ispirazioni, e cantò con indomabile fervore gli affetti più santi, le aspirazioni supreme.
Guastavano intanto l’aria le mefitiche esalazioni delle accademie, risonavano ancora i campanacci e i belati dell’Arcadia; ed egli che sentiva dentro nel suo spirito il fermento dell’età nova, con giovanile baldanza nella Palingenesi — prima della Breccia di Porta Pia — intonò l’inno della rinascita, cantando “l’apocalisse del pensiero„ preconizzando “Roma, l’eterno santuario del mondo„; e poscia sorse con Lucifero, gittando il primo grido di ribellione nel campo religioso, grido che in seguito doveva ripetere più solenne e vibrato nel campo filosofico politico sociale. Così nacquero Giustizia e Giobbe e Poesie religiose e Atlantide e finalmente i Poemetti, che contengono l’essenza più pura della poesia rapisardiana.
Come ben si vede, vasta orma di sé impresse con le sue opere nell’età che fu sua il Rapisardi. La sincerità fu la sua nota caratteristica; essa mantiene in vita le sue opere e le serba alla gloria; giacché è un fatto indiscutibile che “le idee veramente sentite, comunicandosi agli uomini, diventano stimolo di azioni appassionate e grandi„. Ed egli sognò l’umanità futura redenta nell’amore, libera da ogni giogo, cosciente delle sacre leggi della natura, serena nella gioconda operosità della pace.
Ormai vecchio, il Poeta scorgeva all’orizzonte foschi bagliori sanguinosi, sentiva l’ebbrezza delle prossime battaglie e ringiovaniva pensando all’immancabile trionfo dei suoi ideali nel mondo.
“Già vedo l’iride su le tempeste — scriveva fiducioso negli ultimi anni — , e una bianca immagine che mi sorride:
E Morte sia; ma non mi troverà mai scorato e inerte. Riceverò il suo dardo in pieno petto col grido della battaglia sulle labbra, e con la certezza della vittoria nel cuore„.
E tal moriva, qual visse.
È vero che i tempi ora sono mutati, e con essi molte idee e molti apprezzamenti si sono venuti modificando nel popolo; ma la produzione del Rapisardi non è tutta caduca: è vitale una buonissima parte, la più bella, e il suo sogno d’arte e d’amore non può andare perduto:
Sorretto da questa sicura fede, Mario Rapisardi giunse così a varcare la soglia del secolo XX e potè appena veder compiuta l’edizione definitiva delle sue opere poetiche, viva fonte di bellezza e di forza e sacro alimento dello spirito alle generazioni novelle.
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Note
- ↑ C. Pascal — L’opera poetica di M. Rapisardi, Catania, Battiato, 1913.
- ↑ Victor Hugo — W. Shakspeare, II, 4, 2.
- ↑ Alcuni di essi insieme con pochi versi postumi io diedi a stampare durante gli anni 1924 e 25 in un periodico di Catania, Endimione, e recentemente sono apparsi in un informe e negletto volume pubblicato a Torino.
- ↑ Ne fa fede “Preludio„ in Nuove foglie sparse. Palermo, Pedone Lauriel, 1914.
- Testi in cui è citato il testo Africa orrenda/Espiazione
- Testi in cui è citato il testo Divina Commedia/Paradiso/Canto XVII
- Testi in cui è citato il testo Felicitas
- Testi in cui è citato il testo Epigrammi (Rapisardi)/XIV
- Testi in cui è citato Mario Rapisardi
- Testi in cui è citato Dante Alighieri
- Testi in cui è citato il testo Divina Commedia/Inferno/Canto XXVIII
- Testi in cui è citato Giosuè Carducci
- Testi in cui è citato il testo Pensieri e discorsi/Il fanciullino
- Testi in cui è citato Giacomo Leopardi
- Testi in cui è citato Saverio Bettinelli
- Testi in cui è citato Jean-François de La Harpe
- Testi in cui è citato il testo Divina Commedia
- Testi in cui è citato il testo Atlantide/Canto VI
- Testi in cui è citato il testo Storia della letteratura italiana (De Sanctis)/XIX
- Testi in cui è citato il testo Lucifero
- Testi in cui è citato il testo Giobbe (Rapisardi)
- Testi in cui è citato il testo A Satana
- Testi in cui è citato il testo Rime e ritmi/La chiesa di Polenta
- Testi in cui è citato il testo Le poesie religiose (1895)
- Testi in cui è citato il testo Atlantide
- Testi in cui è citato il testo Divina Commedia/Inferno/Canto XVIII
- Testi in cui è citato Victor Hugo
- Testi in cui è citato Empedocle
- Testi in cui è citato Tito Lucrezio Caro
- Testi in cui è citato Gaio Valerio Catullo
- Testi in cui è citato Mary Shelley
- Testi in cui è citato il testo Le poesie religiose (1895)/Al Lavoro
- Testi in cui è citato il testo Le Odi di Orazio
- Testi in cui è citato il testo Le Ricordanze
- Testi in cui è citato il testo Lucifero/Canto quarto
- Testi in cui è citato il testo Lucifero/Canto settimo
- Testi in cui è citato il testo Giobbe (Rapisardi)/Parte terza
- Testi in cui è citato Giuseppe Garibaldi
- Testi in cui è citato Francesco De Sanctis
- Testi in cui è citato il testo Poemetti (Rapisardi)
- Testi in cui è citato Carlo Pascal
- Testi SAL 75%