Commentario rapisardiano/Per una rivelazione
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PER UNA RIVELAZIONE
Nel n. 294 del Giornale d’Italia, [1] ove si deplora la morte di Lorenzo Stecchetti, al secolo Olindo Guerrini, leggiamo una strabiliante rivelazione del comm. Ricci: Come nacque il Giobbe di Marco Balossardi.
La notizia sensazionale non poteva giungere in miglior punto, giusto che ora siamo in tempi fenomenali e gravidi di sorprese. Il comm. Ricci, rievocando un clamoroso avvenimento che mise sossopra il mondo dei letterati dell’epoca, ci fornisce dati preziosi nell’interesse della Patria e di non poco ammaestramento per la nuova generazione. E per la magnanima azione compiuta, dobbiamo essergli grati, e sarebbe ingiusto addirittura non proporlo al regio governo per un encomio, magari una medaglia, come benemerito della patria in armi [2].
C’informa nientemeno il comm. Ricci della prima origine di un fatto nuovo al mondo: del concepimento dello sviluppo e della proliferazione di un libro che sarà senza dubbio un monumento e un ammonimento nazionale nei secoli. E sopra di ogni cosa ci fa sapere come qualmente durante la stagione estiva in riva all’Adriatico, “in un pomeriggio vogando con la zattera sull'onde leggermente mosse dalla brezza„, in compagnia di L. Stecchetti, avvenne che lampeggiò proprio nella sua mente la geniale e mirifica idea: “facciamolo prima noi, il Giobbe. E lo Stecchetti pronto: Per dio, facciamolo„. E detto fatto, si misero all’opera.
Nè è da trascurarsi il rilievo importante che l’illustre Commendatore fa sinanco della carta su cui lo Stecchetti “scriveva con bel carattere fine, lungo, uguale„ il suo Giobbe: “carta grande e minutamente rigata„. E poi, tanto perchè non sia defraudata a nessuno la parte di gloria nell’opera grande, enumera i versi di ciascuno di loro e le pagine, tanti e non più, con un’esattezza e una serietà ammirevoli.
Le date sono inappuntabili. Tutto egli ricorda. E mi par di vederlo il venerando Commendatore, a dispetto degli anni tanto spiritoso, posare alla fine sodisfatto, con le labbra contratte a un indefinibile sogghigno.
Tuttavia certe, cose è bene che si sappiano, per la moralità e per la giustizia.
Sono cose vecchie, del resto, che hanno tanto di barba. Ma poichè ci si porta a rimestar della melma nauseante, sbracciamoci purè. Il pubblico ci piglia sempre gusto. Si tratta della eterna guerra mossa in tutti i modi contro Mario Rapisardi, con l’intenzione chiara, e onestissima per altro, di levarlo dal novero dei grandi poeti.
La faccenda ricordata dal Ricci rimonta all’estate dell’anno di grazia 1881, cioè al tempo che non era per anche terminata la “terribile„ polemica tra Giosuè Carducci e Mario Rapisardi, nella quale il superbo Vate etneo, come ognun sa, ebbe la peggio e fu lasciato per morto. Ond’è che “giace ancor del colpo che invidia gli diede„ come dice Dante. Non è vero?
Beati, neh, quei tempi della “polemica„! Qualcuno li chiamò “di splendore della nostra letteratura„. Allora si sapeva vivere davvero la vita e si facevano grandi cose, quando editori faccendieri in combutta con ermafroditi viragini butteri giannizzeri e bertoni fucinavano gloriosamente le rinomanze letterarie d’Italia. E i giornali addetti erano quanti gli evangelisti: il Fanfulla domenicale, il Fracassa, la Cronaca Bizantina, il Don Chisciotte, di famosa memoria. Fuori di essi non ci poteva esser salute. E il Gaetano Ardizzoni (seduto), Rapisardi e Francesco Di Bartolo
nel terrazzo a tramontana della casa al Borgo solitario di Catania per patto doveva esser sempre la vittima designata, da cucinarsi in tutte le salse. Non era egli l’orco vorace, lo spauracchio terribile dei chierichini turibolanti al Nume, il diavolo sovvertitore di tutte le chiese?
Dagli, dunque, ora col Giobbe, serena concezione. (È bene avvertire che queste parole di qualifica del Giobbe che apparvero nel Capitan Fracassa, del 28 aprile ’81 non furono mai pronunziate dal Rapisardi, ma furono trovate dalla bizzarria del corrispondente del giornale).
Dagli, dunque, al Rapisardi!
Mi pare che Giordano Bruno in un punto degli Eroici furori accenni a dei “vermi che non san far cosa di buono e son nati solamente per rodere, insporcare e stercorar gli altrui studi e fatiche„.
Ma i due illustri coautori lavoravano intanto di buzzo buono, compresi della loro alta missione, finché venne il gennaio 1882.
Che gazzarra in quel mese fortunoso per le redazioni dei quattro giornali della “ditta bolognese„! Che ciangolata da ciane al mercato! Un delirio orgiastico di demolizione aveva preso le menti di quegli illuminati scrittori. Demolizione, ho detto? Oh no: quegli anonimi scrittori si pigliavano tanta briga semplicemente per ricambiare al Rapisardi il disprezzo di cui egli liberalmente li gratificava.
E maggiormente insolentivano.
“E l’interesse cresceva„ ci assicura il Ricci.
Come il signore Iddio volle, il giorno 28 di quel mese sacro alla storia, giorno di sabato, alle ore... (ma le ore sfuggirono alle cronache) fu dato l’annunzio del grande evento. Era uscito dal guscio il Giobbe balossardiano!
Che cosa è mai codesto Giobbe? Una burla, dice il Ricci, ingenuamente. Lo Stecchetti in un articolo sul n. 2 della Domenica letteraria chiamò la propria opera, pur non rivelandosene autore, “non un libro, ma uno scandalo„; ed era sicuro che di esso dopo un anno non se ne sarebbe parlato più.
Gl’indipendenti (e non i soli “giornali di Catania„, come ha la bontà di affermare il comm. Ricci) lo giudicarono in modo diverso. Il Secolo, per es., lo proclamò “una oscena parodia della leggenda di Giobbe, una serqua di epiteti bassi e triviali e sucidi che non hanno sapore di spirito né di satira„: il Verdinois nel Corriere del Mattino di Napoli un “librettucciaccio„; il Bibliofilo di Bologna “cattivo come satira, sacrilego come arte, e concezione tanto serena da riuscire volgarmente stupida„; il Torrazzo di Cremona “sfogo di una bizza puerile„; il Cesareo nel Piccolo di Napoli “volume di cui nulla è che accenni non che a un poeta, a un artista„; il Preludio di Milano “un minestrone di satira personale e di scimmieggiamento superficiale„ R. Pasqualino Vassallo nel Corr. della sera di Catania “una sudiceria„...
Di minacce, poi, da parte dei catanesi non sappiamo veramente. Anzi par che qui il comm. Ricci voglia scambiare le carte in mano. O che forse Luigi Lodi il “16 aprile, ore 8 p. m.„ non aveva sfidato il Rapisardi con parole rodomontesche, mandandogli i padrini Illica e Barbanti? O che altri aveva imposto al direttore della Stella d'Italia di Bologna la ritrattazione di quanto il giornale aveva stampato in favore del Rapisardi? E che dire delle ingiunzioni fatte in seguito ai giovani perchè non si occupassero del poeta di Catania, come quella del Carducci al Pipitone? E del “suggerimento„ di G. Salvadori, della Cronaca Bizantina, al Cesareo “come si dovesse contenere col Rapisardi„, onde il Cesareo ebbe a rispondergli per le rime nell’Alba di Messina?
Miserie, insomma, e fango.
Ecco a che è ridotta l’arte in mano dei gerofanti novissimi....
Ma via, un sorriso di pietà si conceda agli inveterati denigratori del genio. Che la loro arma è sempre la virtù degl’impotenti; e a lor non è permesso altro che sogghignare ancora, perchè il Rapisardi rispondeva ai loro attacchi coraggiosi “con... altri poemi„.
Purtroppo: egli rispose con un altro poema: l’Atlantide, che fece lor levar le berze; e agli amici, che lo sconsigliavano di pubblicarlo per non aver noie e persecuzioni, poteva con sicura coscienza dire: “Ho creduto e crederò fino all’ultimo istante che flagellare i malvagi e smascherare gl’ipocriti sia opera generosa e dovere massimo di scrittore civile„.
E questo, una buona volta, fia suggel che ogni uomo sganni.
(1916).
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