Concetto storico, civile e morale, della poesia di Virgilio
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Concetto storico, civile e morale, della poesia
di Virgilio.
AL SIG. PROF. GUIDO FALORSI
D’un suo lavoro intorno a Virgilio.
I.
Non prima d’oggi mi giunge il libro di Lei; oggi stesso ne leggo quanto m’impone la dolce necessità di risponderle congratulando. Non c’è pagina dove non siano cose rettamente pensate in forma sua, e col suo proprio sentimento sentite, valenti a educare sentimenti gentili e pensieri fecondi. Avevo cominciato a segnare con crocellina le cose che di maggior lode mi parevano meritevoli; ma le crocelline son troppe già, e mi farebbero comentatore de’ concetti suoi tedioso. Dirò piuttosto le idee destatemi in mente da essi; delle quali talune svolgerà forse meglio, ad altre forse con ragione contradirà, il suo lavoro.
Non potevano i concetti di Platone a Virgilio non essere noti; e se noti, in gran parte accetti dicerto. Se Orazio, andando in villa, amava stipare Platona Menandro; or pensiamo Virgilio, che aveva udito un seguace d’Epicuro, ma certamente non era epicureo alla maniera d’Orazio. Quand’anco le tante tradizioni del mondo civile che Roma allora in sè confondeva, tributo di tanti paesi e di tanti secoli alla vincitrice superba che doveva esserne vinta e punita, rendessero possibile il predomino, d’una religione, nonchè d’una setta: la mente e l’anima di Virgilio non si poteva a una setta aggregare, ma l’istinto della eletta sua natura da sè Io portava a trascegliere e appropriarsi le cose che a sè paressero meglio confacenti. Dico paressero, giacchè il lume della rivelazione non lo aiutava direttamente, ma la rara indole e il culto del buono lo rendevano degno di grazia speciale e di ispirazioni quasi vaticinanti. È un’ispirazione che dipinge il lavoro intimo della sua mente la locuzione ch’egli usa parlando delle api venturae hyemis memores1; perchè le memorie sono in vero presaghe, e il più lontano passato porta in sè il più lontano avvenire. A lui meglio ancora s’appropria il suo verso Quique pii vates et Phebo digna loculi2; e nel quarto delle Georgiche invocando il nume d’Apollo, e’ non ripete un nome vano, ma si sente che spera in una divinità con fiducia umilmente affettuosa.
Del resto, anco spiriti men alti non davano agli insegnamenti d’Epicuro un’intenzione tutta animalesca; e potrebbesi giurare che il Greco intendesse il piacere in senso men vile che il Bentham l’utilità. In quanto il bene è la più cara gioia dell’anima, in quanto egli è bello, e il bello non può non essere dilettoso, principio e cagion di tutta gioia3, Virgilio poteva consentire a Epicuro. E quegli atomi stessi, che Lucrezio vede fluttuare nel vuoto come un mare d’uncini aggrappantisi a caso e formanti l’ordine dell’universo, altri Epicurei li potevano intendere come qualcosa di simile ai vortici cartesiani, come i moti d’un etere, mezzo tra lo spirito e la materia, anzi come le forze d’attrazione e d’affinità, che i Fisici ragionanti non possono non discernere dalla materia agitata. Certo è che in Virgilio e’ non sono rampini nè graffi, ma semi de’ primi elementi, e dallo svolgersi di quelli concrescono tutti i principii delle cose4. Ognun vede come l’idea d’esordio sia meno grossolana che quella di materia; e ancor meno materiale il concetto di germe. Questa parola che è nel sesto delle Egloghe, nel sesto dell’Eneide non a caso ritorna; e di tutti i viventi si dice: Igneus est ollis vigor et coelestis origo Seminibus. Ovidio stesso in forma men sapiente e meno elegante: Non bene junctarum discordia semina rerum5. Ma questo delle origini primordiali era pensiero che al poeta esaltava e affaticava la mente. Oltre ai due luoghi accennati, nelle Georgiche6 prega che le muse, sua dolcezza suprema, lo accolgano, e gli mostrino le vie del cielo e le stelle, e le arcane corrispondenze che corrono tra i moti degli astri e i terrestri rivolgimenti. E il poeta che canta alla mensa ospitale della regina infelice, canta il giro degli astri, e donde "le specie degli uomini e degli animali, donde le pioggie e la fiamma, donde la misura de’ tempi7.
II.
Il panteismo moderno, che toglie al ragionamento solidità e lo aggira in un vano aereo, e con la fumosità della materia spegne fino i bagliori della fantasia, e chiude le altezze dell’infinito per travolgerci negli abissi dell’indefinito, non poteva essere il panteismo di tale poeta. A lui tutto è pieno dì Giove, ma Giove è il principio, egli ha in cura le cose e le opere della mente8. Anco gli animali hanno haustus aethereo, segnatamente que’ che dimostrano più intelligenza, hanno parte della mente divina9; ma parte è qui da intendere come in Orazio l’amico è parte dell’anima10, come in Properzio Non son qual fui, perì di noi gran parte11: le cose attingono alcun che degli attributi divini; Dio non è una cosa, le cose. Deum ire12 è idea di moto, e discerne il movente dagli enti che ricevono l’impressione. C’è uno spirito che intrinsecamente alimenta le cose13: una mente che, infusa alle membra, dà vita alla intera mole, si mesce al gran corpo, non si confonde con esso. Ciascun ente è detto tibi tenues nascentem arcessere vitas14; sin l’anima delle bestie è un che più sottile della materia; ma in quella dell’uomo è da riconoscere Aethereum sensum atque aurai simplicis ignem15. Abbiam qui la parola che in accezione contraria a composto e a corporeo presceglie la più spirituale e più religiosa filosofia. Onde il cristiano poeta: Sustanzia e accidente, e lor costume. Tutti conflati insieme per tal modo Che ciò ch’io dico è un semplice lume. La forma universal di onesto nodo Credo ch’io vidi... Un punto solo16.... e in altro rispetto la medesima immagine: Da quel punto Dipende il cielo a tutta la natura17.... dentro a quel punto A cui tutti li tempi son presenti18.
Ritornando a Virgilio, il panteismo esposto da lui fa che le parti corporee si risolvano, ma tornarsi l’anima alle stelle, Secondo la sentenzia di Platone19; e quel che Dante traduce tornarsi, nel latino rendersi, riferirsi, viva volare sideris in numerum20. Numerato, per rimanere distinto, ogni cosa. Ho detto che tale è il Panteismo esposto da lui, quidam dixere; ma a me non pare illecito il credere che più alto ancora volasse l’ispirata sua mente, e che almeno col desiderio si creasse qualcosa ancora più semplice e puro.
Ella ben nota di quanto sapienti bellezze sia in lui fecondo il far la natura quasi persona conscia a se stessa di sè: e di qui vengono quelle tante locuzioni che nelle Georgiche segnatamente, ma in tutta più o meno la sua dicitura, infondono sentimento e ragione alle cose; locuzioni le quali sono una creazione continua, tanto più originalmente potente quanto più schiettamente modesta. Un esempio tra mille ne sia il come da lui la fognatura è dipinta: Inter enim labenlur aquae, tenuisque subibit Halitus, atque animos toltent sala21; intorno alla quale figura un poeta tedesco ordisce una laboriosa personificazione del germe assomigliato a bambino fasciato, in un minuzioso lunghissimo componimento.
III.
Per quel ch’è degli Dei, tutta la mitologia greca e italica, com’Ella avvertiva, è un simbolo di fede contrario al Panteismo. Gli Dei d’Omero più passionati negli appetiti e negl’impeti, ma nella ferocia sovente bestiale più galantuomini; parecchi tra gli Dei di Virgilio, più astuti con frode, se così posso dire, più diplomatici, acciocché siano degni colleghi d’Augusto: non tutti però. Giove anco nell’Eneide è re da Statuto, ma con più dignità ad ora ad ora: senonchè questa è del poema la parte più debole; appunto perchè il coetaneo d’Ottaviano doveva pagare il fio del suo tempo tristo e delle soverchie sue lodi. Ma altrove già dissi ch’io non apporrei a Virgilio la colpa dal Rosmini appostagli in un’opera sua giovanile22, del negare la giustizia superna e quel che a lei deve la libertà umana, ne’ versi Atque metus omnes et inexorabile fatum Subjecit pedibus strepitumque Acherontis avari23; a’ quali versi vien subito dopo: Fortunatus et ille Deos qui novit agrestes. Con che mi pare abbia a intendersi che la coscienza umana non deve essere al bene sospinta e rattenuta dal male per timor della pena; che religione senza un senso d’affetto e di gratitudine intelligente davvero religione non è. L’inesorabile fato mi pare abbia un senso notabile, illustrante il consiglio che Eleno sacerdote dà con tutta istanza all’amico: si qua est Heleno prudentia, vati Si qua fides, animum si veris implet Apollo, Unum illud tibi, nate Dea, pr aeque omnibus unum, Praecipiam et repetens iterumque iterumque monebo, Iunonis magnae primum prece numen adora, Iunoni cane vota libent24. A questo consuona il placabilis ara Dianae25, che rammenta il propitiabile della Volgata, e quel dell’inno: Noi l’imploriam. Placabile Spirto discendi ancora, A’ tuoi cultor' propizio, Propizio a chi l’ignora26. Consuona eziandio il consiglio della madre faciles venerare Napeas, Namque dabunt veniam votis irasque remittent27. E con materna provvidenza giunge: Sed modus orandi qui sit, prius ordine reddam: che fa sentire con più gratitudine la cura che nel Sermone del Monte prende l’Amico nostro dell’insegnarci a pregare.
Santo è altra parola che il Cristianesimo si è appropriata, e al solito, sublimando, purificata. E quanto ci corra dal Lucreziano corpore sancto28 di Citerèa al virgiliano Sancta ad vos anima, atque istius inscia culpae Descendam29, lo sentono e professori e scolari che abbiano anima non triviale. Quest’addio di Turno alla vita è più degna cosa che il verso ripetuto di lui medesimo e della vergine intemerata, Vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras30. Questo mi rammenta l’addio d’un’altra infelice alla vita: Et nunc magna mei sub terras ibit imago31. Qui l’anima sciolta dal corpo non appare che come fantasma; ma, d’Anchise parlando, distinnuesi animaeque umbraeque paternae32 (9); e il plurale, come nel nome di Manes, pare che accenni le umane potenze nello spirito unificate. In altro rispetto, della moglie che, fatta deità, gli apparisce: Infelix simulacrum atque ipsius umbra Creusae Visa mihi ante oculus, et nota maior imago33 (10). Immagini che rasentano e simboleggiano il vero: ma in tutte Virgilio si tiene più alto del Lirico epicureo: Scit Genius, natale comes qui temperai astrum, Naturae deus humanae, mortalis in unum Quodque caput, vultu mutabilis albus an ater34, dove, per altro, un genio e posto reggitore d’ogni astro, come nell’Allighieri: Fece li cieli, e che lor chi conduce35. - Lo moto e la virtù de’ santi giri.... Da’ beati motor’convien che speri36. Più spirituale in Virgilio sempre la vita: Dum memor ipse mei, dum Spiritus hos reget artus37, meglio ancora che in Dante Se lungamente L’anima conduca Le membra tue38. E Dante stesso in altro senso: Che fece me a me uscir di mente39; ma ben più nobile è il dare la coscienza di se medesimo per conducitrice alla vita. Del resto, sempre il corpo animato e lo spirito animante distinti: Quae luctantem animam nexosque resolveret artus40; e non solamente distinti, ma la facoltà interiore impaccio all’altra e pericolo: Quantum non noxia corpora tardanti Terrenique hebetant artus moribundaque membra41. Qui non solamente la salma terrena è contrapposta alla celeste origine, e rintuzza l’igneo vigore, ma ne’ corpi è un fomite nocente che tarda lo spinto ne’ suoi moti, gli è quello che il linguaggio cristiano dice con altra immagine scandalo. E le moribonde membra non è posto a caso; significa più che mortali; vale che dai primordii della vita terrena incornicia l’avviamento alla morte, che tutta questa prova è una più o men dolorosa agonia. Ma la vita seconda è vita di purificazione, ove le anime son dalla pena esercitate, e quisque suos patimur manes, ciascuno soffre dell’aver malamente esercitate le proprie potenze (per ritornare alla sopraccennata interpretazione di manes), o non pienamente esercitate.
Virgilio pertanto, anzichè soffocare nella massa del tutto la coscienza degli spiriti, nella contemplazione del tutto unite insieme e distinte moltiplica le coscienze. E quindi le personificazioni che, avvivatrice e sempre risorgente bellezza, sono ne’ menomi suoi traslati compiute, come lavoro di cesello, e moventisi quasi enti vivi. Niso, per salvare il guerriero diletto, grida ai nemici: «Me, me! son io qui, io che lo feci: volgete in me il ferro; mio è tutto l’inganno: questi nulla osò nè potè; testimone questo cielo e le conscie stelle»42. Degli umani errori e dolori alle stelle egli dà coscienza; e la ripensare quello del cantico: Le stelle, tenendosi nell’ordine e nel corso loro, contro Sisara combattettero43. L’esule, ringraziando dell’ospitale accoglienza, invoca sulla regina infelice degni premii dagli Dei, dalla giustizia degli uomini, dall’anima di lei stessa conscia a sè de’ suoi retti intendimenti44. Il vecchio Alète, nell’udire la profferta dì Niso e d’Eurialo al cimento di morte, esclama: «Dei della patria, sotto la cui difesa ella è sempre, no, voi non volete spegnere la gente de’ Teucri, se giovani avete formati di tale coraggio, anime tanto fedeli». E pon loro la mano sua sulle spalle, e per mano li prende, e sulle gote ha le lagrime. Vultum lacrymis atque ora rigabat. Lagrime di tenerezza e di gratitudine e di venerazione alla prode pietà di que’ giovanetti discendono dalle gote sin là onde col respiro gli escono le parole45. E intenerito soggiunge: «quali, o prodi, per tal valore, quali premii stimerò io si possano rendere a voi? I premii più belli daranno in prima gli dèi, e gli stessi atti vostri».
IV.
Eurialo mi rammenta sua madre, e le preghiere che volge il figliuolo per essa andando alla battaglia e alla morte; ghiere che Omero non potevano esprimere nè immaginare di tanta pietà. E così Andromaca è in Omero più moglie e matrona che madre, accorata e per le sventure di tutti i suoi cari e per il minacciante pericolo del marito rimastole a far vece di tutti i suoi cari46; in Virgilio all’amara memoria della patria distrutta e degli uccisi parenti aggiungesi la ricurdanza del morto marito più prode di tutti, e del figliuoletto nella orribile rovina caduto47; qui la sposa e vedova, la madre orbata, la regina due volte esule e serva forzata, avvilita; e dice parole di dignità che umana poesia non può trovare di più elette, nè cuore materno di più schiette e più commoventi. Nulla in Omero che valga l’addio d’Evandro a Pallante48, e la ricordanza ch’e’ la della moglie sul cadavere del figliuolo49, e i rimorsi e la confessione di Mezenzio sopra la spoglia di Lauso, suo morto, che della pietà di se come di velo sacro ricopre tutta la vita del padre tiranno 50.
La poesia di Virgilio è tutta un cantico che risuona la pietà degli affetti domestici. Nelle Georgiche, dopo intuonato, felice l’agricoltore se sapesse conoscere i beni della propria condizione, dopo rammentate le armi discordi (e ci ritornerà poi più sotto, accennando alla discordia che nelle ambiziose città rompe la fede tra fratelli e fratelli), commenda la quiete sicura, e la vita che non sa fare inganno, e le bellezze della terra e del cielo; e da ultimo la gioventù paziente del lavoro, usa al poco, le cerimonie degli dei, i padri santi51; cioè a dire e i vecchi venerandi e la memoria religiosamente custodita de’ cari antenati.
L’altezza del senso religioso, Virgilio la fa più sentire negli uomini verso gli Dei che negli Dei verso gli uomini: ma le affezioni umane, in quanto son vincoli di sociale consorzio, vengono agli Dei stessi dall’anima di Virgilio comunicate. Sin nelle ire di Giunone par di sentire, più che l’orgoglio offeso del nume, il dolore della moglie negletta, più la compassione alla donna misera fondatrice della presente Cartagine e dal fratello tradita, che l’odio al fondatore di Roma futura52. La pietà del figliuolo riconduce Venere innanzi a Vulcano a colloquio coniugale, con verecondia accennato; e Vulcano si desta al lavoro, della fucina nell’ora che la madre di famiglia desta la fiamma sopita, e che, prevenendo coll’opera il dì, esercita le sue fanti, per conservare casto il letto maritale e allevare i suoi figliuoletti53.
Le cure che Cirene d’Aristeo54, corrispondono a quelle che Venere prende d’Enea55: e al sì poetico apparire di questa in sul primo a consolargli la ansietà dell’esilio, corrisponde l’apparizione accennata di Creusa, beata più che donna, al marito56, apparizione tanto più bella che l’addio d’Euridice a Orfeo, fra le tenebre della seconda morte57. Quindi la tutela che di Camilla assume una divinità, succedendo all’uffizio dell’esule padre58; e così com’ella volo bambina sulle acque del fiume, il trasportarne per aria la vergine spoglia al patrio sepolcro; quindi la tenerezza accorata di Giuturna che piange, come già morto, l’ancor combattente generoso fratello59. Quindi creata da Cibele delle piante a lei sacre una famiglia di ninfe sorelle60; fatto palpitare d’affetti il duro legno, dategli memorie di devozione e linguaggio, tramutata dai monte ai mare la vita, la distruzione causa al rinnovellamento, le creazioni della natura intorniate dall’arte, diventare opera trascendente i limiti della natura.
V.
Se questo è de’ tronchi degli alberi, consideriamo come dovesse il poeta vedere il transito delle anime umane oltre alle tenebre della vita; e come la religione del talamo e la religione del sepolcro facessero tutt’una fede nel suo pensiero. Il suo eroe ha titolo di pio e di padre, come Achille quel di Pelide e di piè veloce: pio agli Dei, al padre, alla patria, agli afflitti, ai nemici. E sul prode Lauso, al vederlo impallidire di morte, e’ s’intenerisce e gli tende la destra, e l’immagine del suo proprio figliuolo gli stringe l’anima di compassione; e vorrebbe con la sua pietà rendergli onore degno d’indole così generosa; e gli lascia le sue armi, e gli concede il riposo del patrio sepolcro, si qua est ea cura61; come alla propria nutrice Gaeta, innalza sepolcro che ne perpetuasse tra le genti d’Italia la fama, si qua est ea gloria62, parole che mestissimamente suonano disinganno di tutte le mortali onoranze.
Mezenzio ferito supplica al vincitore per si qua est victis venia hostibus, oro, Corpus humo patiare tegi, e gli conceda avere col figlio il consorzio del sepolcro63: Turno, ferito, supplica al vincitore, miseri te si qua parentis Tangere cura poteste oro, abbia compassione alla vecchiezza di Dauno, e gli renda o corpus spoliatum lumine, o lui vivo e già spento a ogni consolazione64. E già il vincitore s’impietosisce e rimane esitante; allorchè gli balenano allo sguardo le borchie della tracolla che Turno trasse trofeo dall’ucciso giovanetto Pallante; e il moto d’una pietà più intima, e il debito della gratitudine e dell’amicizia, lo spinge, pensando la desolazione d’Evandro, a accuorare con la morte del figlio prode la vecchiezza di Dauno. Turno scongiurava Enea per la memoria del suo padre stesso, fuit et tibi talis Anchises genitor; e queste parole fanno più sentir la bellezza di quelle che dice, commemorando il suo Astianatte, l’infelicissima madre, abbracciando Ascanio, e porgendogli le memorie ultime di dolore e d’amore: così gli occhi, così le mani, aveva egli il viso così65. E qui pure, come nella recata preghiera di Turno, un dì quegli scorci di lingua parlata, O mihi sola mei super Astyanactis imago; scorci, che tanto ne ha di bisogno L’affettò, e li compie di sè.
Turno, per il vecchio padre, si umilia a pregare il nemico, pregarlo con dignità: nec deprecor.... Utere sorte tua. Enea, vedendo che il padre non vuol sopravvivere alla sua patria nè sopportare l’esilio, vuole anch’egli morire e avventarsi tra l’armi nemiche; ma sulla soglia la moglie si getta a’ suoi ginocchi, e tende al padre il piccolo Julo; e già poco innanzi la madre dea lo rattiene dallo sfogare in Elena la vendetta, con tutto che non sia impresa memoranda il punire una femmina, lo rattiene coll’immagine del padre e della consorte e del figlio, attorniati da spade e da fiamme66. Un segno celeste, un fuoco dell’alto, vince le resistenze d’Anchise, che adora quel cenno: «patrii Dei, salvate la mia famiglia, salvate il nipote». E il guerriero lo porta sulle sue spalle: comune il pericolo, uno a tutti e comune lo scampo. Il padre sugli omeri, il figliuoletto per mano, dietro a loro la moglie; ma, lei smarrita, e’ pone in sicuro e raccomanda ai compagni dell’esilio i pegni cari, e riprende le armi, e rientra nell’incendio e nella strage, e riempie del suo grido le vie fumanti e i palagi disertati dalla nemica rapina. Volendo, rotta la ragione de’ tempi, congiungere insieme la fondazione della grandezza cartaginese e della romana, e porre nel suo poema le radici dell’odio secolare tra Africa e Italia (che aveva radici storiche anch’esso, come il favoleggiato d’Asia e di Grecia), non si poteva far luogo all’amore d’Enea con maggiore riverenza agli affetti domestici, facendo sacra e poco men che divina l’immagine della madre di Julo. E, d’altra parte, se sopra i misfatti di Mezenzio non poteva poesia di Pagano versare maggiore abbondanza di quasi espiatrice commiserazione, non poteva il fallo della regina fenicia essere meno da pagana poesia lusingato nè da compassione umana più piamente compianto.
Eleno chiama felice Anchise, felice nell’esilio calamitoso, mercè d’un figlio di tanta pietà67; e questa pietà spira, come da campo fiorente e fruttifero, da tutto il poema. Enea non fa proposito alcuno senza il consiglio del senno paterno: da lui l’andare e lo stare: e anche quando gli Dei in visione parlano al figlio, il figlio, appena desto e levate al cielo le mani e celebrato il sacrifizio sul focolare domestico, corre al padre; e il padre riconosce il suo sbaglio, con bell’esempio di docile autorità. Il padre è che ordina la partenza, et cuncti dicto paremus ovantes. Il dolore della morte di lui non si saprebbe esprimere con più potente semplicità: nè Eleno vaticinante, allorchè m’annunziava dolori tanto terribili, questo dolore predisse a me. E non solamente allorchè l’incendio nocque alla flotta68 ch’era omai la patria degli esuli (e la nave capitana aveva per arme alla prora i leoni di Frigia e il monte Ida, memoria gratissima a’ profughi)69, non allora solamente il padre apparisce a Enea in visione, ma spesse altre volte, e lo invita che venga a raccogliere dall’Eliso i destini della gente italiana, illustres animas nostrumque in nomen ituras, dove il nome si sente com’aura a cui tener dietro nella via dell’onore; e sentesi come il poema nel suo concetto comprenda non Roma soltanto ma Italia tutta70; anzi, più che le Italiche, le umane sorti. Invocando la Sibilla a sua guida, Enea le parla d’Anchise, natique patrisque, Alma, precor, miserere: e la Sibilla mi rammenta il vaticinio dell’egloga che certamente il poeta intendeva non potersi tutto applicare al bambino di Pollione71, egli che in tanti luoghi dimostra di tutta comprendere l’umana famiglia ne’ suoi dolorosi affetti e ne’ desiderii generosi. Più che della storia romana, il libro sesto è pieno della umana moralità e della vita futura. E non a caso dalle sedi beate il cuore d’un padre conduole ai dolori di madre che dopo molti secoli nascerà per piange il figliuolo suo giovane morto: Tu Marcellus eris. La madre, al sentire que’ versi, svenne; nè tale è il solito effetto delle lusinghe poetiche: e se questa è lusinga, non so quante volte fosse con più coscienza adulato umano dolore.
Innanzi ili visitare l’Eliso, Enea seppellisce con solennità di riti religiosi l’amico72; dalla quiete dell’Eliso ritornando ai tumulti della vita, egli innalza un monumento alla nutrice sua morta73. La regina infelice, nel preparare a sè stessa la morte, inganna la pietà della vecchia che fu nutrice al marito74, di cui sì caro le costa avere scordato per poco l’amore, di cui diceva: prima vorrei che mi si apra la terra e che il Padre onnipossente con la sua folgore mi sospinga tra le ombre, che io sciolga le tue leggi, o Pudore. Quegli che primo a sè mi congiunse, ne portò l’amor mio; l’abbia egli, e lo serbi con se nel sepolcro. A Camilla, che non ha madre, il padre profugo nelle solitudini si fa nutrice, la campa non sola una volta da morte, e consacra a Diana in voto la sua forte e avvenente verginità75. Lo scudiero d’Anchise è dato ajo a Julo il nipote76; Acete, il vecchio ajo di Pallante, e già scudiero d’Evandro, accompagna, abbattuto di dolore quasi più che paterno, le esequie del prode misero giovanetto77.
VI.
Anco gli affetti fraterni nell’Eneide, più che nell’Iliade, si sentono. L’affetto d’Anna, l’unanime sorella, fomenta nella regina la passione ch’essa tentava reprimere in sè78. Di questo dimentica nell’ebbrezza del suo dolore, la sventurata, pregando Anna che vada da ultimo a chiedere per lei pietà, se ne mostra, per più proprio strazio, gelosa: «a te sola quel perfido avere riguardo, a te perfino affidare tutti i suoi segreti; sola sapevi il come e il quando parlare al cuore di lui». Ma da ultimo (come suole chi ha cosa da rimproverare a se stesso, anche buono che sia), versa sulla sorella la colpa propria: «tu vinta dalle mie lagrime, tu prima, o sorella, facesti pesare su me questi mali; tu mi esponesti vittima al mio nemico». Senonchè, moribonda, sentirà l’agonia conturbata e consolata dalle querele della infelice sorella; sentirà la sua voce di mezzo alla folla piangente, la vedrà salire i gradini del rogo, e abbracciarla, e tergere con la sua veste il sangue sgorgante dalla ferita; e nel sollevare gli occhi gravi, erranti, cercando la luce del cielo, darà con un gemito alla sorella e alla luce l’estremo saluto.
Il cervo ferito da Ascanio è cagione al tumulto che contro gli stranieri profughi insorge ne’campi; il cervo diletto a Silvia sorella79. La saetta che ferisce un de’ nove fratelli, bellissimi tutti, che aveva all’arcade Gidippo generati la fida unica moglie, rompe il pattuito cimento di Turno con Enea, e ricomincia la mischia80. Alle porte della città assediata da Turno stanno a diritta e a sinistra due guerrieri fratelli, quasi due torri, come due querele sulle rive del Po e lungo l’Adige ameno: ucciso un de’ quali, l’altro, turbato dal dolore e dall’ira, serra di forza le porte, e altri de’ suoi chiude fuori, e Turno rimane, ospite tremendo, seminatore di morte81. Tra le brevi prove che dà della sua adolescente prodezza Pallante, è la morte di due gemelli simillima proles, Indiscreta suis gratusque parentibus error82: e qui soggiungesi concetto più ingegnoso che non s’addica a epopea, non della greca bellezza schiettamente severa: sed nunc dura dedit vobis discrimina Pallas, che all’un de’ gemelli il capo è reciso, dell’altro la destra monca; e qui abbiamo una bellezza non greca, ma pura tuttavia e di quello spirito virgiliano che infonde fin nelle parti corporee coscienza d’affetto: Te decisa suum, Laride, dextera quaerit, Semianimesque micant digiti ferrumque retractant.
Non a caso qui dice che dalla spada d’Evandro è tronco il capo a un de’ gemelli; perchè dalla legge del metro, e dagli istinti del senso armonico sono, più che costretti, ispirati i grandi scrittori e i dicitori potenti; e l’affetto, per istinto inconsapevole, dona la potenza del numero, ancor meglio che agli educati dall’arte, ai più semplici dicitori. Nominando qui Evandro, il poeta reca l’onore del figliuolo agli esempi e ammaestramenti paterni; comenta, come s’addice a poeta vero, con una parola il detto d’esso Pallante ai compagni che sgomentati fuggivano: «per il nome d’Evandro duce, per le battaglie fortemente già vinte, non fidate nella fuga, scongiuro. Col ferro è da aprirsi per forza la via tra’ nemici, là dove quel nodo di combattenti è più stretto. Colà chiama e voi e il duce Pallante imperiosa la nobile patria». Egli sè intitola duce, ma il padre prima di sè. Il padre, però, lo agguaglia a se stesso, là dove a Enea dice di dargli a compagno il figliuolo sua speranza e consolazione, che apprenda da tale maestro a sopportare la grave opera della milizia, a vedere i suoi fatti, e da’ primi anni ammirarlo83; perchè l’ammirazione giusta è valente educatrice dell’anima. E soggiunge di dargli dugento robusti giovani, cavalieri scelti, e Pallante in suo proprio nome altrettanti. È moto gentile di tenerezza paterna, nel fare offerta di presenti amorevoli o caritatevoli a qualsia opera degna, volere che il figliuolo, ancorchè non conscio di tutto il bene che fa, v’abbia parte come di suo; e ciò non per fomentare la vanità di lui o blandire la propria, ma perch’è una maniera d’educare e d’amare anche questa. Nell’abbraeciare il figliuolo morto, suo tardo conforto e unico, dacchè più non vive la moglie santa, felice dell’essere morta, e non serbata a questo dolore84, e’ vorrebbe esser caduto sotto le armi nemiche, e che fosse per lui, non per Pallante, quella funebre pompa: ma d’Enea non si duole, nè della contratta alleanza si pente. «A questo era la vecchiezza mia destinata. Che se morte immatura attendeva il figliuolo mio, giova ch’egli, dopo vinto un gran numero di nemici, a stabilire nel Lazio la gente de’ Teucri, cadesse». E il duce de’ Teucri, piangendo sopra il cadavere del giovanetto, si duole di non lo poter ricondurre vincitore all’amplesso del padre, del non aver potuto adempire le promesse a lui fatte; e rammenta con quasi rimorso l’addio del vecchio, che trepidante lo ammoniva de’ pericoli da affrontarsi guerreggiando con uomini forti. «Infelice, vedrai la fine crudele del tuo figliuolo: questi i nostri ritorni e gli aspettati trionfi, la mia fede questa! Ma almeno, o Evandro, nonio vedrai colpito da ferite ignominiose; nè a lui, scampato, imprecherai tu, padre, la morte. Ahi quanto grande sostegno l’Italia perde! et quantum tu perdis, Iule!» Quest’accenno civile all’Italia è pieno di dignità, quest’accenno domestico al figliuolo proprio è pieno d’amore; e, serbato qui all’ultimo, fa sentire vieppiù sincera la riverenza e la gratitudine al collegato, più intima la condoglianza all’amico.
VII.
Questo verso del libro undecimo acquista maggior luce e bellezza se si raccosti al luogo del libro primo, laddove Enea, confortato dalle accoglienze ospitali, invia dalla reggia alle navi Acate l’amico fedele, che gii conduca il figliuolo di fretta: neque enim palrius consistere mentem Passus amor, rapidum ad naves praemittit Achatem.... Omnis in Ascanio cari stat cura parentis. Ma, invece d’Ascanio figliuol di Creusa, Venere manda alla regina il figliuol suo Cupidine, acciocchè, «quand’ella lo accoglie lietissima in grembo tra le mense regali e le tazze, quando l’abbraccia e gli dà dolci baci, Cupidine le ispiri occulto fallace ardente veleno». Ho già notato che in Virgilio gli Dei proteggono gli uomini con arti di malizia bugiarda più che in Omero: ma, conceduto cotesto, e riguardato l’incarnarsi della passione come una personificazione allegorica simile a quelle della Fama85 e d’Aletto86, della Discordia87 e dell’Invidia e del Sonno88, questa d’Amore nasconde sotto il suo velo una terribile verità: cioè che il cuore ne’ suoi traviamenti è talvolta sedotto sin dalle affezioni innocenti. Non solamente l’ammirazione dell’eroe e la pietà dell’esule aprono le vie dall’amore nell’anima della regina infelice89, ma sin la tenerezza del figliuoletto dispone lei a sentire desiderabili d’altra sorta tenerezze; e il poeta lo dice poi: Nunc gremio Ascanium genitoris imagine capta, Detinet, infandum si fallere possit amorem; e lo dice da ultimo nelle supplichevoli sue doglianze ella stessa: «se almeno i’ avessi, innanzi la tua fuga, potuto avere una prole di te, se vedere un Enea pargoletto scherzare nella mia reggia, se cogliere in esso l’immagine tua, mi parrebbe di non essere al tutto ingannata e deserta».
Abbiam visto il luogo che tiene nell’incendio della patria questo fanciullo, che non poteva esser parte d’un’epopea se non quanto porgeva il destro a mostrare quant’hanno gli affetti domestici di soave e di sacro. E il poeta conduce anche questa orditura del suo lavoro con arte delicatissima, che solo l’affetto dell’anima gli poteva insegnare. La madre, nel dileguarsi com’aura leggiera o come visione volante nel sonno, addio, dice all’esule, et nati serva commimis amorem90; più semplice e però più bello di quel ch’è sì bello in Properzio: Nunc libi commendo, communia pignora, natos; Haec cura et cineri spirai inusta meo91. Nel raccomandargli il figliuolo, Creusa è madre e moglie presaga de’ futuri pericoli del marito e de’ destini di Iulo, che sono i destini d’Alba e di Roma. Lo rivediamo ne’giuochi celebrati, come rito religioso e civile e guerriero, al sepolcro dell’avo, e guidare la schiera adolescente de’ cavalieri; e anche qui un cenno alle domestiche memorie degli esuli tutti e di tutta la nazione: Quos omnis euntes Trinacriae mirata fremii Trojaeque Juventus.... Excipiunt plausu pavidos, gaudentque ruentes Dardanidae, veterumque agnoscunt ora parentum92.
All’annunzio de’ legni che ardono, primo Ascanio interrompe gli equestri esercizii e accorre al pericolo. Quando, approdati in Italia, consumata ogni vivanda93, per ben satollarsi danno di morso ai pani che sull’erba distesi facevano vece di mensa, Ascanio alludens esclama: Anco le mense si mangiano; e il padre, conoscendo adempita la minaccia scherzevole di Celeno (rivolto in fausto l’augurio sinistro, come il cuore dettava al poeta, che fa più miti le Arpie delle Dee94), il padre grida: Salve, o terra, a me serbata da’ fati; e voi salvete, o di Troja fidi Penati. Quest’è la mia patria. E Anchise gli aveva anch’egli predetto così: Hoc erat illa fames; haec nos suprema manebat Exitiis positura modum. E invita i compagni a far libagione sacra, e invocare Anchise il padre; e si cinge di verde corona, e invoca il Genio del luogo, e la Terra, e la Notte e i suoi segni lucenti, e Giove Ideo, e Cibele madre, e Diana, nel cielo e ne’ regni sotterranei potente. Ascanio, correndo in caccia, è cagione involontaria che si rattizzi la guerra95; poi nell’assediata città, solo, pare che rappresenti il padre lontano; e non potendo con altro, dà pegno del proprio valore (non tenue pegno) la gratitudine ch’è dimostra ai due giovani prodi, che si offrono a ricondurgli il padre e a stornare col proprio il comune pericolo96. Bello il chiamare venerando un giovanetto coetaneo; perchè nel consacrarsi piamente al pericolo è una forza che ispira venerazione. Bello il cingerlo della sua propria spada, e promettere a Eurialo raccomandante la madre, che questa a lui sarà madre, non altra da Creusa se non solo di nome: revocate paventem, Reddite conspectum: nihil ilio triste recepto. E le parole multa patri portanda dabat mandata ricordano le bellissime del vivente degno ammirator di Virgilio: Le donne accorate, tornanti all’addìo, A preghi, a’ consigli, che il pianto troncò97. Accorgimento di sapiente modestia è il fare che Ascanio, data prova di destrezza animosa nel colpo diretto contro il vantatore nemico, sia da’ suoi quasi di forza sottratto al cimento: Ascanium prohibent, ipsi in certamina rursus Succedunt, animasque in aperta pericula mittunt98. Siccome, vagheggiando con ammirazione riconoscente e con presaga compassione la prodezza d’Eurialo, ad Ascanio animum patriae strinaxit pietatis imago; così, vedendo impallidire la faccia di Pallante che muore, a Enea mentem patriae strinocit pietatis imago99: ripetute non a caso le stesse parole, con ripetizione più possente che le consuete d’Omero. Poi ritroviamo Ascanio trepidante tra i giovani accorsi intorno al padre ferito, che sta acerba fremens.... nixus in hastam.... lacrymis immobilis100: poi, quando il padre, riavutosi, ritorna alla mischia, Ascanium fusis circum complectitur armis, Summaque per galeam delibans oscula, fatur.
Sanno di vanto le parole del padre che seguono disce, puer, virtutem ex me; come quelle altre a un morente Ae~ neae magni dextra cadis, e di Camilla a un altro morente, nomen tamen haùd leve patrum Manious hoc- referes, telo cecidisse Camillae101. Ma, più gentile che tutte le donne d’Omero, Camilla risplende della sua purità, circondata dalle elette compagne vergini, suo decoro, ministre valenti di pace e di guerra. Cassandra, anch’essa immagine pura, che con le mani avvinte e i capelli sciolti è tratta dal tempio di Mi- nerva, e tenta indarno sottrarla a servitù Corebo, lo sposo infelice, che. per amore, ai funesti di lei vaticinii non diede retta102. Lavinia è immagine pura, e nella timida luce del suo pudore appare più bella di quel che parrebbe a descri- verne le grazie a parte a parte; e, parlando col silenzio al cuore nostro, così come al cuore di Turno, dimostra come prevalga al dramma in ciò l’epopea, che può far tacere i suoi personaggi, e nondimeno addentrare la nostra nell’anima loro103.
Turno è in pochi versi ritratto: «invia suoi gentili a re Latino, ordina preparinsi le armi, si difenda l’Italia, respingasi da’ confini il nemico; lui solo essere assai contro e Teucri e Latini. Ciò detto, e invocati con prece gli Dei, a gara i Rutuli si esortano alle armi: altri è mosso dalla bella persona e dalla giovanezza prestante, altri dal regio sangue degli avi, altri dai chiari fatti che il suo braccio operò»104. Re Latino a rompere il patto di nozze stretto con Turno è condotto dalle antiche tradizioni che vaticinavano alla sua figliuola straniero marito, condotto non da ambizione o da terrore, ma da un timore di religiosa pietà. E nel senso quasi che noi ora diciamo timore di Dio, altro dalla nota sentenza Primus in orbe Deos fecit timor, è da intendere, a proposito degli augurii che facevano pensoso il padre, laurus erat... Sacra co mani, multosque metu servata per annos. Da ultimo, attonito e oppresso dalla rovina de’ suoi, incolpa il re sè medesimo105; e allora forse gii ritornano all’anima le parole della moglie appassionata in favore di Turno, che sin dal primo diceva: «a un esule si dà Lavinia dunque sposa? e tu, padre, non hai pietà nè e della figliuola nè di te nè della madre misera, che, al primo vento che favorevole spiri, il perfido rapitore lascierà abbandonata navigando nell’alto106?» Ma piene di disperato affetto le parole che Amata, già presso a morte, dice al non più suo genero pronto al morire: ardentem generum moritura tenebat. «Turno, per queste lagrime, per (se ti è punto a cuore) l’onore d’Amata, tu speranza unica, tu riposo della vecchiezza mia misera; il decoro di Latino e il suo regno sta in te; a te la nostra famiglia ruinante s’appoggia: di quest’una cosa ti prego, resta dal venire alle mani: la sorte che te aspetta in cotesto cimento, aspetta, o Turno, anche me107».
VIII.
Il ratto d’Elena rammentato da Amata a Latino, collegando l’Eneide all’Iliade, conduce a ripensare con che differente intelletto di moralità riguardassero le cose del cuore il greco e il latino poeta. Elena a Virgilio è nefas108, più forte parola di monstrum, che Orazio di Cleopatra dice109; parola la quale dimostra che Virgilio a inconcessos hymenaoos110 altresì dava un grave significato. E dar lo doveva, egli che, commiserando la colpa di Didone e la piaga e il furore, pur con tanti rimorsi e con tante angosce la punisce, per non aver lei conservati i veli della sua vedovanza111. Qui riviene alla mente la lode che nelle Georgiche è data sull’ultimo alla vita de’ campi: dulces pendent circum oscula nati; Casta pudicitiam servat domus112; e poi soggiungesi: «questa vita coltivarono gli antichi Sabini; così appunto la forte Etruria crebbe, e Roma si fece la bellissima delle terrene cose» Rerum pulcherrima illustra e fa parere più accoratamente bello e più schiettamente sublime Sunt lacrymae rerum et mentem mortalia tangunt113.
Ma Elena e Didone mi chiamano a due passi del poema, de’ quali non è vano cercare l’intendimento. I presenti, di cui nell’Eneide è più volte cenno, son pegni di religione domestica e patria, segni di stima e amicizia, ricordanze d’affetto generoso e di consolato dolore. A un vincitore ne’ giuochi è data una tazza con figure in rilievo, che Cisseo di Tracia aveva ad Anchise il padre offerta in memoria preziosa d’affetto114: Anchise, nel dipartirsi da Evandro, gli dà un bel turcasso e freccie di Licia, e una clamide con tessuti d’oro, e due freni d’oro, che il giovane Pallante userà cavalcando allato al figlio d’Anchise, chlamyde et pulcris conspectus in armis115. Andromaca, nelle dipartenze da Enea, reca ad Ascanio vesti distinte d’aureo ricamo, e una clamide frigia, nec cedit honori116 (locuzione che rammenta il senso di orrevole, usato dagli antichi Toscani, e ai montanini in quel di Pistoia tuttavia vivo); e gli dice: «prendi, figliuolo, anco queste memorie delle mie mani, e che a lungo ti sian testimoni dell’amore d’Andromaca, la moglie d’Ettore: ricevi i doni estremi de’ tuoi». Per primo saggio d’ospitale accoglienza, Didone manda alle navi d’Enea vesti di tinta superba lavorate con arte, grandi argenti per le mense, e cesellate in oro le forti imprese de’ padri117. Ilioneo reca, in nome d’Enea, a re Latino «in presenti piccoli avanzi dell’antica fortuna, salvati dalla patria già in fiamme; l’oro dal quale un dì il padre faceva libagione agli altari, lo scettro e la sacra tiara che Priamo portava, quando per consuetudine rendeva giustizia ai popoli convocati, e vesti, lavoro d’iliache donne118». Enea stesso (e quest’è il luogo che fermò il mio pensiero), per primo segno di gratitudine alla regina, fa da’ legni venire presenti sottratti alle iliache rovine, pallam gemmis auroque rigentem Et circumtextum croceo velamen acantho Ornatus Argivae Helenae119. Perchè mai portare con sè le memorie di donna che Enea riguardava come la Furia crudele e di Troia e di Grecia120? Non tanto perchè nell’eccidio estremo non v’era agio a discernere; non tanto perchè la preziosità delle vesti era stimata eredità delle case più ricche (e fin nella Grecia moderna, una famiglia agiata di Cipro, fuggendo dalla scimitarra ottomanna, portava in Italia camicie ricamate con tant’oro da averne campamento per tempo assai alla povertà intemerata); quanto perchè la bellezza dell’arte anco nelle opere femminili accresceva pregio alla comune e quasi sacra consuetudine del lavoro, che fa l’anima sana e riempie la vita. E forse che, alludendo agli abbigliamenti della donna venuta di Grecia, intendesse il poeta alla finezza dell’arte ellenica rendere onore; egli che, aspirando alle delizie campestri, non nomina nella seconda delle Georgiche nè la dolce Partenopei121 nè i luoghi ameni rammentati tra le lodi d’Italia122, ma desidera le fresche valli dell’Emo e il Taigeto echeggiante alle vergini di Laconia esultanti nel tripudio de’ canti.
L’altro luogo del quale chiedevo a me la ragione, è laddove, a celebrare le esequie di Pallante sì che ne riceva consolazione leggiera ma debita il misero padre, Enea mette lucri due vesti di porpora fregiate d’oro, e d’una di queste copre mestamente a onoranza ultima il giovanetto, e cinge d’un velo la chioma che tra poco arderà; e molte aggiunge in lungo ordine spoglie della vinta battaglia, e arme e cavalli. Quelle due vesti dice il poeta che «un tempo Didone infelice gli aveva fatte con le sue mani, lieta del lavoro, e distinte le tele con oro di fino ricamo123». Laeta laborum, gentile e mesta parola, che fa contrapposto e consonanza con quelle in cui la madre d’Eurialo, vedendo infitto a una lancia il capo caro, dall’alto delle muragli parla: «Così a me ritorni? E tu eri il tardo conforto degli anni ultimi miei! e potesti lasciarmi sola, o crudele; nè, mandato a tanto pericolo, potè dirti le ultime parole la misera madre... Nè io, madre, accompagnai le tue esequie, nè ti chiusi gli occhi, nè ti lavai le ferite, coprendoti con la veste che notte e dì m’affrettavo a tesserti, et tela curas solabar aniles124». Ricordiamoci che Enea, nell’ubbidire al cenno e di Giove e del padre, e al proprio destino che lo moveva alla volta d’Italia, nel distaccarsi da Carme, sede non accomodata a suo figlio, duramente combatte con la pietà e con l’amore. Fas obstat, placidasque viri deus obstruit aures125. Non è freddezza nè sconoscenza la calma apparentemente serena che lo circonda a guisa di quella nube che agli occhi altrui lo ascondeva entrante nella ignota città coli’ amico126. Magno persentit pectore curas; Mens immota manet, lacrymae volvuntur inanes. L’efficacia non pareggiabile del verbo latino dipinge il sentimento che gli penetra e occupa tutto il cuore, e quasi lo passa da parte a parte, e egli con la ragione misura quel sentimento, com’uomo che, esperto de’ gravi cimenti, conosce interamente il pericolo, e ciò non ostante lo affronta. Ecco perchè, dipartendosi dalla misera amante e tuttavia riamata, l’eroe (vir ha qui pieno il suo proprio significato) si fa quasi un debito di portare seco nel nuovo esilio da una patria del cuore qualche memoria d’affetto e di gratitudine; ecco illustrata dalla pietà verso il giovane morto la pietà ch’e’dimostra a Bidone moritura allorquando le dice: nè a me sarà grave ricordarmi d’Elisa per sin ch’io abbia memoria di me. E forse, pensando al rogo ove tra poco sarà consumata la bella spoglia di Pallante127, forse vedendo da’ legni suoi arsi in Sicilia volare le faville tra il fumo128, fors’anco allorchè le fiamme vincitrici s’apprendevano ai tetti della città di Latino129, gli sarà ritornata innanzi l’immagine non solamente delle ceneri d’Ilio e della estrema fiamma de’ suoi130, ma l’infausto spettacolo che, veleggiando, dall’alto della poppa gli avranno offerto le mura di Cartagine fescamente illuminate dalle fiamme d’Elisa infelice: duri magno sed amore dolores Polluto.... Triste per augurium Teucrorum pectora ducunt131.
IX.
Quelle che impreziosivano e i doni dell’amicizia e della ospitalità, e gli arnesi e gli arredi usati a necessità e abbellimento della domestica vita, erano le memorie de’ buoni antenati. Ne’ doni offerti alla regina abbiam visti rappresentarsi Fortia facta patrum, series longissima rerum, Per tot ducta viros antiquae ab origine gentis132. Cosi le pubbliche si contessevano alle rimembranze domestiche; onde s’intende come casa valesse patria e a’ Greci e a’Latini: e già patria col suono risale a’ padri. Le ricordanze de’ cari morti erano parte viva così della privata come della pubblica vita: e i cittadini intendevano di difendere questa e quella combattendo per le are e pe’ focolari. La venerazione e la gratitudine tacevano de’ parenti defunti un che di divino133; e l’amore confermava la fede nella immortalità; e l’istinto della immortalità nelle menti offuscate dalla superstizione moltiplicava il numero degli Dei, consolando quel che badi terribile l’immagine della morte, mantenendo i sepolti in consorzio co’ viventi incessante, facendoli custodi presenti della casa da essi abitata. Nel verso feror exsul in altum Cum sociis natoque, Penatibus, et magnis Dis134, al figliuolo congiungonsi gli antenati, distinguonsi i Penati e gli Dei: ma il figliuolo stesso, per far più sacre le sue promesse ai due giovani prodi, giura per magnos, Nise, Penates, Assaracique Larem et canae penetralia Vestae135; ove pare che Penati comprendano tutte le memorie dall’antichità fatte grandi; il Lare, quelle che concernono il fondatore della casa, il Signore, giacche domus Assaraci è altrove detta tutta quanta la gente romana, che farà serva la patria d’Achille e d’Agamennone, e in Argo dominerà136. Vesta, i cui penetrali rimandano col suono a’ Penati, Vesta è la religiosa santificazione de’ riti insieme e domestici e pubblici: onde nelle Georgiche Di patrii indigetes, et Romule, Vestaque mater, Quae Tuscum Tiberim et romana palatia servas137. In virtù di tale santificazione la casa d’Enea abiterà i ’li iimortale altura del Campidoglio, e il padre romano s’avrà l’impero, usandosi qui non a caso il nome di padre138. Egli è che porta Ilio in Italia e i vinti Penati139; e qui intendasi (come nella locuzione dai grammatici distinta col nome di non so quale figura, maculis insignis et albo) intendasi porta Ilio co’ Penati, cioè che in essi e per essi è trapiantata a fruttificare in terra italiana la patria. Vinti li dice Giunone; ma’ il poeta e il destino della storia li fa vincitori. E tutto il poema è un cantico che ispira ai vinti speranza, spira la riverenza che è debita ai vinti e a tutti que’ che patiscono.
X.
Il verso, diventato proverbio anco a chi non lesse Virgilio e non sa di latino, Non ignara mali, miseris succurrere disco, insegnandoci come sia ignorante della vita colui che non ha provato il dolore, come non basti compiangere i mali altrui, ma bisogna soccorrere ad essi, come del farsi degni di soccorrerli bisogna apprendere l’arte, e tale esercizio sia scuola lunga; questo verso ritrae l’anima del poeta, e ne svela e compendia le arcane esperienze. Quand’egli scrive, Tempus erat quo prima quies mortalibus aegris Incipit, et dono Divùm gratissima serpit140, ci si sente più che un affetto di riconoscenza ai benefizi del cielo, quale nel verso Aerii mellis coelestia dona141; si sente, e par di vedere, come chi scrisse abbia per lunghe ore della notte invocato come un dono celeste il riposo del sonno nelle infermità del petto affannoso, nelle umiliazioni della dignitosa povertà e del consorzio con grandi più munifici che riverenti, negli appassionati desiderii dell’anima affettuosa. Le locuzioni potenti solvi in somnos, pectore noctem Accipere142, e le ha trovate pur troppo ne’ tedii delle vigilie sue lunghe; nel proprio cuore ha trovata, giovane ancora, quell’altra amores Aut metuet dulces aut experietur amaros143, che esprime con brivido la terribilità delle dolcezze agognate; locuzione più lagrimosa di quella, ch’è pur sì bella Dum curae ambiguae, dum spes incerta futuri144. Non che egli abbia sentite in sè stesso quelle altre furie che rincontransi alle fauci del suo inferno co’ ferrei talami delle Eumenidi, le Cure punitrici, e la Povertà turpe, e la Paura e le triste Gioie dell’anima, mala mentis gaudia145, a che corrisponde nel Manzoni Del delitto la gioia crudel146; senonchè il virgiliano comprende ogni rea compiacenza nel male, dal primo lubrico gusto sino alla forsennata ultima ebbrietà. Ma quanto di morte Virgilio dovesse assaggiar nella vita, lo grida con gemito ineffabile la domanda che Enea fa al padre circa le anime che, sciolte da’ nodi terreni, son destinate a ritornare in altri corpi e patirne i ceppi: quae lucis miserìs tam dira cupido?147. Nessuna parola nè Dante nè lo Shakespeare trovarono pregna di tanto dolore. E pur nel libro medesimo, condannando coloro che con le proprie mani, per odio della luce, fecero getto dell’anima (che rammenta il deporre l’anima nel Vangelo e il riprenderla), soggiunge quam vellent . . .. Nunc et pavperiem et duros perferre labores! Il travaglio, cioè la fatica con dolore, Virgilio dà per legge al vivere insieme e al far migliore la vita: labor omnia vincit Improbus, et duris urgens in rebus egestas148. Ed è proverbiale anche questo. Ma non tanto osservato, e più osservabile forse, quell’altro mestissimo: Aurora interea miseris mortalibus almam Extulerat lucem, referens opera atque labores149; la miseria e la luce, la vita e la morte, l’operare e il patire, misterioso contrapposto, anzi misteriosa armonia. Rammenta del Salmo «è sorto il sole, e le Aere s’accolsero, e si riporranno ne’ loro covili: uscirà l’uomo a sue opre e al lavoro suo infino a sera. Quanto magnifiche si son dimostrate, o Signore, le opere vostre! Avete in sapienza fatto ogni cosa150». E segue dicendo del mare, ampio al corso de’legni, soggiorno a piccoli e grandi animali, e alla balena draco quem formasti ad illudendum ei, a che risponde il virgiliano Et quae marmoreo fert monstra sub aequore pontus151. Ma quanto più consolanti i concetti, che del Mantovano, del poeta di Giuda: «Manderete lo spirito vostro, e saranno creati; e rinnoverete la faccia della terra».
XI.
Coloro che non intendono (e pare che, per la condizione della presente loro civiltà immatura, non possano intendere) come una specie d’originalità inevitabile faccia differente la poesia di Virgilio da quella d’Omero, e come questa necessità derivata dall’assunto dell’Eneide dovesse esserne insieme la difficoltà e la bellezza; costoro non pensano che nel poema greco, come in tutte più o meno le epopee, vengono alle prese due genti che fanno sforzi per distruggersi e umiliarsi; ma nel poema da dirsi italico meglio che romano o latino, un avanzo di gente vinta, portando seco i germi della civiltà e le memorie della religione, arriva in terra incognita a lei ma famosa e potente, per aumentarne la potenza e la fama, per comunicare il diritto proprio senza violare l’altrui, e in certe cose sottomettersi per più ragguagliarsi, e così vincere esemplarmente una vittoria singolare.
Che Virgilio abbia altamente sentito ciò, lo dimostra l’evidenza con ch’egli lo fa sentire; lo dicono i patti in cui s’accordano alla fine gli Dei, ne’ quali le storiche potenze de’ popoli qui vengono simboleggiate: «I nativi del Lazio non muteranno l’antico nome, non si chiameranno Teucri nè diverranno Trojani: un Lazio ci sia, ci siano i re Albani per secoli, e possente d’italico valore la progenie di Roma .... Gli Ausonii riterranno la lingua patria e le leggi: commisti a così grande corpo, i Teucri sottostaranno: il linguaggio e i riti de’ sacrifizii vi aggiungerò (dice il Dio), e farò tutti d’unanime labbro Latini152. Non so tradurre l’uno ore se non col labii unius153 della Bibbia; e qui labbro val cuore; e però dico: unanime; perchè la lingua è l’alito dell’anima, il respiro armonizzato in affetto, il suono formato in idea; e popolo che ripete i suoni medesimi con sensi discordanti, non ha (lo intendano gl’Italiani odierni) la vera unità della lingua. Con sapienza di potente parola nel Salmo linguam nostram magnificabimus, labia nostra a nobis sunt: quis noster Dominus est?154 dicono gli empi contro Dio e contro gli uomini, spacciandosi creatori di sè medesimi per arrogarsi l’arbitrio del premere i deboli e far gemere i poveri. Ma nunc exsurgam, dicit Dominus .... In circuita, impii ambulant, cioè che il costoro progresso è un avvolgersi in giro, un ritornare sui passi fatti, un confondersi e impedirsi a vicenda.
Ritornando ora alla congiunzione delle due genti, che era veramente progresso, gli altri patti verranno per accordo e per opera delle due genti; ma questa della religione e della lingua una (dice il Nume divino) io farò. E notiamo anco il valore della locuzione commiati corpore tanto, che ci dichiara come la somigliante nel libro sesto Mens agitai molem et magno se corpore miscet, debbasi intendere non di confuso mescolamento ma di congiunzione ordinata, e però ben distinta, onde non sia panteismo. Nè cosa materiale è qui il corpo dell’universo, come materiale non è nel corpo sodate di cui qui si parla, e neanco nelle parole di re Latino: loto certatum est corpore regni155.
XII.
La tradizione iliaca è il terreno su cui l’edilizio virgiliano si fonda; e giova che il terreno sia il luogo aperto, luminoso e alto156, e di dove si mostrino uomini e cose che, a vederle, esaltino l’anima del nuovo poeta. Dallo stesso terreno e’ toglie pietre e legni e altre materie con cui fabbricare; ma nuovo è il disegno dell’intero, nuovo il congegno nelle parti: e anco nel prendere dall’antico edifizio qualche avanzo elegante o qualche concetto di forma, egli sa appropriarselo meglio che con opera di muratore o di scarpellino, lo sa, a dir cosi, digerire. Troppo più indigeste, e con men arte commesse, le materie e le forme che dalla mitologia e dalla storia, dalla Bibbia e da’ precedenti poeti Dante piglia, in apparenza più nuovo di Virgilio, ma meno originale in verità; perchè nel non la ostentare consiste la miglior parte della originalità, come della virtù e della forza, della grazia e del pudore. Una somiglianza amerei che si scoprisse nella educazione poetica di questi due ingegni, intima somiglianza e che li onorerebbe entrambi altamente. A me pare che il vaticinio della Sibilla meditato nell’egloga quarta sia stato l’avviamento morale ancor più che poetico a comporre il sesto dell’Eneide e a farsi degno di tanto; e i versi ben meglio che omerici ne’ quali è dipinto il malessere della donna nel farsi paziente della ispirazione divina157, mi par che ritraggano quel che il poeta dovette, per domare e foggiare sè stesso alla propria ispirazione, più o meno consciamente patire. Per quel ch’è di Dante, nella sua Vita Nuova si rivela egli stesso; e subito dopo la morte di Beatrice e’ concepisce il poema sacro, e, lei pur vivente, gli volano simili visioni per l’anima, risplendenti di lieta luce e tremenda. Siccome nello spirito di Virgilio, per opera de’ tempi e per proprio interiore lavoro, si venne facendo una trasformazione degli antichi simboli e delle tradizioni; così d’alcuni concetti di Virgilio e di più o men vecchie tradizioni si fece nella mente di Dante, per suo merito, e per la forza de’ tempi, e in virtù della verità cristiana.
Rammenterò per modo d’esempio quel che dice Virgilio delle anime trasmigranti in nuove vite corporee dopo secoli d’espiazione. Immemores supera ut convexa revisant, Rursus et incipìant in corpora velie reverti. Dante, in versi men belli ma con intendimento più alto, dice come l’anima separata, insinchè non si sente monda dalle colpe nella vita terrena commesse, desidera, sì, la beatitudine, ma pur si rassegna volentieri alla pena, e della perfetta sua purificazione le è prova il voler uscirne e sentirsi già pronta a salire: Della mondizia ti sol voler fa prora: Che, tutta libera, a mutar convento L’alma sorprende, e di voler lo giova. Prima, vuol, ben: ma non lascia il talento Che divina giustizia, contro voglia, Come fu al peccar, pone al tormento158. E altrove assomiglia il desiderio della paziente anima che il patire finisca, e la volontà che il patire non cessi infinchè giustizia non s’adempia, lo assomiglia alla passione di Gesù Cristo che, sentendo la terribilità del dolore, voleva il dolore159. Non immemori di tutta la vita passata fa Dante le anime purificate, come Virgilio fa le anime trasmigranti, ma immemori della colpa, e nella memoria consolate del bene in vita fatto e del bene per grazia ottenuto. Concetto più conforme alla dignità dello spirito; e lo rende più poetico ancora l’esultare che alla liberazione di ciascun’anima fa tutto il monte, quasi palpitando di gioia, e il gridare nel canto che fanno tutti gli spiriti pii gloria a Dio160. Consuona così l’inno angelico al salmo: «nell’uscita d’Israele d’Egitto, della famiglia di Giacobbe dal popolo barbaro i monti esultarono come arieti, come agnelli esultarono i poggi»161. Che aveste voi da esultare, o monti, e voi, poggi? Al cospetto del Signore si commosse la terra, al cospetto del Dio d’Israele.
Importa discernere nella poesia quel ch’è opera della riflessione e lavoro dell’arte deliberato, e quello che nell’anima del poeta si fa per il consentimento co’ suoi coetanei, per l’effetto de’ privati e de’ pubblici avvenimenti, per la progressione de’ tempi; acciocchè non sia a’ singoli ingegni attribuito, oltre a quanto conviene, pregio e merito; nè demerito e difetto imputato. Cotesto discernimento dovrebbesi non solamente ne’ giudizii critici e nelle storie letterarie osservare, ma nelle cose morali e civili eziandio, e forse più: osservato, farebbe della censura letteraria e sociale un’opera di sapienza e di probità, guiderebbe le menti e gli animi, gli ispirerebbe. Applicando questa norma ai lavori dell’arte, e a Virgilio; vedrebbesi come anco alle cose imitate egli aggiunga pensatamente di suo, per l’intrinseca necessità del soggetto, non per ismania d’apparire; vedrebbesi come quel ch’egli aggiunge, non sia appiccicato di fuori, ma formi col tutto una vita; come il fare di lui sia d’artista vero, non simile alla maniera de’ romanzieri e de’ drammaturghi moderni, che rinzeppano invenzioni di natura diversa per comporre quel ch’essi chiamano un intreccio, a pascolo di passione animale o di sterile curiosità. Riguardando poi la medesima norma nel suo aspetto ben più rilevante, dovrebbesi considerare e in Virgilio e ne’ grandi artisti suoi pari, e nella coscienza e nella mente de’ popoli, la successione e trasformazione più o meno manifestamente graduata delle tradizioni religiose e sociali, de’ simboli e delle fantasie, delle immagini rappresentate nel linguaggio per mezzo di uguali e differenti locuzioni e vocaboli; considerare come i medesimi concetti si siano via via venuti dividendo o congiungendo, restrigendo o ampliando, ingrossando o affinando, deprimendo o sublimando co’ tempi. E quando dico, trasformazione più o meno manifestamente graduata, non intendo di que’ materiali passaggi per cui certuni che intitolano sè scienziati si vantano di scoprire e brancicare gli anelli i quali congiungono i corpi inorganici cogli organici, la pianta colla bestia, e coll’uomo la bestia; se ne vantano facendo gratuitamente agli uomini dono della bestialità, aiutandosi a forza di fantasticherie, di romanzi prosaici, di congetture asseveranti con franchezza stupenda cose accadute migliaia di secoli fa, di profezie che dovranno avverarsi dopo migliaia di secoli. Intendo di quelle graduazioni che sono a noi comprovate dalla deduzione raziocinante, fondata sopra le leggi dell’umana natura qual’è, sopra le osservazioni del presente universo, sopra i documenti storici, sopra i monumenti o attestati da autorità irrefragabili, o sulla terra visibili tuttavia. Questa graduazione ch’io dico, prova il contrario di quel che si sforzano a sognare costoro, impotenti, nonchè de’ raziocini i, de’ sogni; prova che ne’ più prossimi e piani passaggi da concetto a concetto e da consuetudine a consuetudine ha luogo la virtù dello spirito trascendente l’inorganica natura, e l’organica; lo spirito che non va come rettile nè come quadrumano, ma vola e respira più libero in un etere non valicabile ad altro che alle sue penne.
XIII.
Se certa maniera di scienza e di letteratura e quella civiltà che più chiacchiera di progresso, tende a farsi quadrupede, non è da imputarlo allo spirito; e lo spirito umano non gliela può dar vinta neanche volendo. Di cotesta tendenza quadrupede dà se.uno anche la critica letteraria; e io debbo recarne un esempio appunto a proposito del nostro poeta. Un erudito in Italia (dico in Italia) ci fu che sul serio si divertì a numerare quante volte Virgilio fosse dagli scrittori dell’europea decadenza citato. E noi, da certa gente accusati di troppa credulità, pienamente crederemo che il dotto uomo non abbia sbagliati i suoi conti; che, aiutato dalla pazienza ammirata e benefica de’ professori e degli scolari tedeschi, e’ non abbia omesso nè codice nè citazione niuna. Ma non era egli servigio più benefico agl’Italiani e più degno di loro il ragionare un po’ sopra queste addizioni, tedesche o nostrali che fossero, por mente non alla somma delle citazioni ma al loro valore, cioè riconoscere quali i luoghi di Virgilio più sovente, commemorati dagli uomini del medio evo, se concernessero cose morali o sociali, se e quanto testificassero in loro il sentimento del vero e del bello o sempre desto o pronto a risvegliarsi, riconoscere dove e quando? Certamente che questo degli autori sepolti nelle tenebre della barbarie o potenti a vincerle o a diradarle, potrebb’essere computo d’intenzione nobilissima e d’alta moralità: e servirebbe anche questo a provare come lo spirito umano non sia ne’ suoi andamenti quadrupede, vivaddio. Fatto è che Virgilio, la cui memoria, come d’illustre poeta, durò fino all’estremo decadere di Roma, per insino al riaversi della civiltà e delle lettere, rimase più noto di tutti; e lo stesso favoleggiare che fecesi intorno ad esso, è della sua autorità documento.
Il benefizio che rendono ai popoli spogliati dell’antica grandezza i loro visibili monumenti, lo comunicarono all’Italia e a tutte le genti della civiltà latina i versi di questo poeta; anzi lo resero viemaggiore, inquantochè i monumenti, fuor del luogo in cui sono, non possono ispirare se non se per una languida aura di rama, ma il libro parla dovunque è intesa la lingua, e anco a chi non sa leggere suonano le parole di quello, ripetute a mo’ di proverbio o d’adagio, quasi esse stesse persona viva. E la parola dal senso penetra all’anima, e vi rimane documento perenne insin che la memoria ne basti: prova anche questa di quanto lo spirito superi la materia in potenza. Per meglio imprimere nello menti de’ posteri la propria parola quasi sacro sigillo, Virgilio delle bellezze di natura e d’arte studiò, sin che visse, a imprimere l’anima propria. E già innanzi che il segreto della fotografia fosse dalla scienza scoperto, l’anima umana, e nel poeta e nel fanciulletto e ne’ dotti e nell’umile popolo, riceveva, così preparata da Dio, più o meno nettamente per la luce dell’alto, e serbava in sè stessa, le immagini delle cose. Virgilio fu osservatore più coscienziato e più acuto che molti degli scienziati superbi, i quali non vogliono nelle cose vedere se non quello che han già nella lorc celloria pregiudicato. Virgilio con un verso, con una parola, delinea il vero de’ luoghi, il bello delle particolarità, lo delinea non come chi va lucidando o copiando, ma come chi nel ritrarre ravviva e ricrea. In un bel passo del suo libretto, Ella ci fa in nuovo modo sentire, perchè l’ha provato costì sopralluogo, come gli spirasse poesia dal paese ove corre il Galeso162: ma tutti gli accenni al Timavo e al Norico, al Benaco e all’Adige e al Mella, all’Italia del centro e del mezzodì163, mostrano come il suo sguardo fosse verace, e come la parola ubbidisse allo sguardo, meglio che in Dante sovente non faccia, con franca docilità, con fedele eleganza. Per informare di verità esatta il suo metro, che in lui è non pur poetica ma razionale misura, e’ visitò . religioso pellegrino dell’arte, le coste d’Epiro e di Grecia; quasi presago della morte che acerba, ma forse invocata, lo coglierebbe nel dì d’una grande vittoria della civiltà sopra la tirannide asiatica; e nei luoghi resi dolorosamente celebri dalla battaglia d’Azio, forse desiderando sognò una concordia di popoli dalle vittorie placati e rinfrancati dalla sventura164, quale appunto nel nuovo regno d’Enea la ritrae il suo poema. Egli che dalla forte Etruria165 vantava l’origine, nona caso ebbe nè lungo un fiume toscano nè lungo un fiume latino la culla: e la giacitura di Mantova166, ancora più che il giovanile soggiorno in Milano, lo preparò a essere anello intellettuale tra l’italica stirpe e la gallica: nè a caso in terre della Gallia cisalpina nacquero due degli ingegni dalla sua musa più vitalmente nutriti, Alessandro Manzoni e Giuseppe Parini.
Giova ripetere che nella poesia di Virgilio è da riconoscere non tanto la minuta impotente rappresentazione de’ luoghi e la minuta impotente imitazione degli artisti che a lui precedettero, quanto lo spirito degli oggetti contemplati e degli esempi ammirati da esso. Così il fiore sentesi meglio in poche gocciole d’essenza stillata dalle sue foglie, che non nelle foglie stesse aride in un erbario sepolte: così la figliuola, o non men bella o più bella che la madre, nel viso e negli atti parte le è somigliante, ma ha pur suoi proprii lineamenti e maniere, e volger d’occhi e suono di voce; ed è sua la freschezza giovanile e la grazia della verginale innocenza. Ma, appunto come la cura continua affettuosa nel raccogliere docilmente le parole e gli esempi de’ genitori è condizione perchè possa il figliuolo educare se stesso, nè senza tale docilità giungerebbe a agguagliarli, nonchè superarli; l’educazione dell’artista e dello scienziato è nella cura del conoscere e porre tutte a profitto le tradizioni di coloro che son come i padri della intellettuale famiglia. Senza ben conoscere non si può bene scegliere. E, appunto perchè dotto, Virgilio è scrittore così eletto; appunto perchè attinse al meglio dei molti, gli toccò in premio esser unico. Chi più sa intimamente nel latino, e più penetra nelle radici e vane’ fiori e ne’ rami il valore e l’essenza della parola, riconosce con più ammirazione come Virgilio, forse più che Varrone, possa intitolarsi dottissimo della sua lingua; e come a tale dottrina, accompagnata cogli altri pregi dell’anima sua, debbansì gli ardimenti sicuri e schivi d’ogni vanto di singolarità, quella perspicuità trasparente, quella ponderata snellezza, quella semplicità meditata. In Ennio così come nella lingua viva del popolo, nel greco più fino così come forse nel prisco italico, egli studiava la lingua della quale era destinato a farsi per secoli in tutte le scuole della terra maestro; la lingua di cui doveva un povero prete dalmata valersi per comunicare la parola ispirata del Verbo a tutta la terra. E, vedendo sin dalla prima egloga già maturamente formato lo stile che ammirasi nel libro duodecimo del poema, se ne induce che non poteva la scuola di Milano da sè dargli a un tratto quella tanta perizia, e che ad acquistarla lo aveva già preparato il dialetto ch’egli fanciullo sentì da sua madre.
XIV.
Che tanto e’ profittasse di Lucrezio quant’Ella crede, io per vero non saprei credere; per questa tra le altre ragioni, che a molto profittare richiedesi affetto, nè quel gentiluomo è tale che il buon Virgilio potesse amarlo Alla sua vereconda modestia doveva far urto quella millanteria d’empietà, la qual sente del miles gloriosus, quel disdegno quasi convulso dimostrante lo sforzo dell’anima che si dibatte per sottrarsi al vero e a sè stessa. Il gentiluomo grida vittoria, ma la grida ansante, come chi tuttavia pugna, e ostenta coraggio per darsi coraggio. Quel canto è ad ora ad ora rantolo più che anelito. Delle tradizioni religiose e sociali e della forte lingua redata da’ padri suoi e’ si giova per combattere que’ sentimenti che operarono la romana grandezza; così come il Voltaire e il Rousseau oppugnavano il cristianesimo servendosi delle dottrine e de’ sentimenti dal cristianesimo diffusi nel mondo, ne’ quali era l’anima loro cresciuta, come cresce nell’aria vitale la pianta, nè si può respirare fuori di quella, per quanto si dica o si faccia. L’inuguaglianza della maniera lucreziana dimostra come gli elementi poetici fossero a lui cosa estrinseca, e a digerirli in sè gli mancasse la forza. Dalle fioriture rettoriche e quasi scolaresche si passa d’un subito a aridità disamene, tanto che meno squallido è il dire di parecchi prosatori trattanti la pura scienza. Giusta punizione dell’aver lui osato fare scienza la sua ignoranza pedante, e avviluppare la leggerezza sua vuota nel pallio della filosofica gravità. Non neghiamo bellezze a’ suoi versi; come non son da negare, anzi da additare con animo consolato, negli uomini men savii e men buoni i propositi savi e buoni, e intendimenti e atti, talvolta di virtù generosa. E Virgilio avrà di tali bellezze approfittato certamente, appurandole però, e di sè stesso nobilitandole. Si paragoni un de’ tratti più pareggiabili, la pittura di Marte e di Venere, dove il grosso Dio coll’omerira sua persona ci si presenta sdraiato supino, mirare’ di sotto in su la bellezza divina, pascendo d’amore gli avidi sguardi; e la pittura di Venere con Vulcano, dove il senso della stessa voluttà è più possente perchè, più pudico, e sin le gioie del legittimo amore interroraponsi per dar luogo alla veglia faticosa in servigio di lei, sempre amata di fido amore167. Le tre parole formae conscia conjux, son tali che tutto Lucrezio non ha le pari; e l’Iliade se ne fregerebbe; perchè ritraggono meglio che non farebbero molte pagine di romanzo la coscienza che ha del potere proprio sull’uomo la donna, e la compiacenza di potere tanto, e il gioirne modestamente ogni volta come di nuova scoperta, insperata, e, nel sentimento di questo gioire, accrescere all’uomo l’amore, sentire almeno un principio d’amore ella stessa.
Alla delicatezza de’ numeri virgiliani e all’intima varietà loro nell’apparente uguaglianza, non sono da comparare le scabrezze e le negligenze del verso lucreziano, altra cosa dall’abbondante omerica piena, e anco dalle non inartifiziose spontaneità di Catullo. Continue le prove di quel che dico; ma rammenterò per esempio due versi soli: Irritata canum quum primum ihagna Molossum Mollia ricta fremunt duros nudantia dentes. Lasciando stare che questi due versi e i troppi che seguono di quelle bestie, non agguagliano a gran pezza il valore delle tre parole odora canum vis168; non badando al puerile contrapposto di molle e di duro, e ponendo qui mente soltanto a’ numeri non pare che abbiano del soave nè del robusto que’ due genitivi plurali così collocati; e i cinque neutri plurali desinenti in lettera che non esprime il ringhiare de’ cani, sono più che insoavi, perchè rammentano il vezzo, perpetuo nel poeta, dell’ammontare epiteti l’un de’ quali scema all’altro vigore, e paiono così ammontati o perchè la legge del verso a lui pesa, o perch’e’ non sente quando abbia detto abbastanza. E siccome e’ ripete le altrui idee esagerando per debolezza di mente: così ripete amplificando l’idea medesima in altri vocaboli; e, per più disgrazia, prepone i più efficaci ai da meno: onde pare ch’e’ non curi il valore della parola, senza accorgersi annacqui liquore generoso, confonda senza accorgersi il piombo e l’oro. A lui ignota la parsimonia, pregio quasi costante del dire virgiliano, e sua cura, come d’uomo che ama raccogliere in poco di spazio valore molto, che sente in coscienza il prezzo della parola e del tempo, e ha rimorso di perderlo. Questo dicono i versi: ma fugge intanto, fugge il tempo irreparabile, mentre che l’affetto delle singole cose ci piglia e trasporta169. Circumvectamur, voce che è insieme sentenza e immagine, norma del vero e del bene e del bello: perchè sta in questo l’amabilità della grazia e l’efficacia della forza, l’ispirazione della virtù e la maturità dell’ingegno: sapere a tempo procedere, fermarsi a tempo.
N. Tommaseo.
Note
- ↑ G. 4.
- ↑ E. 6.
- ↑ D. I. I.
- ↑ B. 6.
- ↑ Met. 1.
- ↑ G. 2.
- ↑ E. 1.
- ↑ B. 3.
- ↑ G. 4.
- ↑ Ode a Mecenate.
- ↑ Trad. del Foscolo: Non sum qui fueram, periit pars maxima nostri.
- ↑ G. 4.
- ↑ E. 6.
- ↑ G. 4
- ↑ E. 6.
- ↑ Dant. Par. 33.
- ↑ Ibid. Par. 28.
- ↑ Ibib. Par. 17.
- ↑ Ibid. Par. 4.
- ↑ G. 1.
- ↑ G. 2.
- ↑ Della Speranza.
- ↑ G. 2.
- ↑ E. 3.
- ↑ E. 7.
- ↑ Manzoni.
- ↑ G. 4.
- ↑ I. 1.
- ↑ E. 12.
- ↑ E. 11 e 12.
- ↑ E. 4.
- ↑ E. 5.
- ↑ E. 2
- ↑ Or. Ep. 2, 2.
- ↑ Inf. 7.
- ↑ Par. 2.
- ↑ E 4.
- ↑ Inf. 10.
- ↑ Purg. 8.
- ↑ E. 4.
- ↑ E. 6.
- ↑ E. 9.
- ↑ Cantico di Debora.
- ↑ E. 1.
- ↑ E. 9. Vultus ora non è pleonasmo per fare l’esametro; e Dante forse lo sentiva, scrivendo, Inf. 23: Ma voi chi siete, a cui tanto distilla, Quant’i’ veggio, dolor già per le guance? E Purg. 17: Con quell’acque Giù per le gote, che ’l dolor distilla Quando per gran dispetto in altrui nacque
- ↑ Il. 6.
- ↑ E. 3.
- ↑ E. 9.
- ↑ E. 11.
- ↑ E. 10.
- ↑ G. 2.
- ↑ E. 1.
- ↑ E. 8. Quanto più bello che nel Petrarca: Levata era a filarla vecchierella Discinta e scalza, e desto avea ’l carbone: Sopitos suscitat ignes... parvos educere natos.
- ↑ Q. 4.
- ↑ E. 1, 2,8, 10.
- ↑ E. 2.
- ↑ G. 4.
- ↑ E. 11.
- ↑ E. 12.
- ↑ E. 9.
- ↑ E. 10.
- ↑ E. 7.
- ↑ E. 10.
- ↑ E. 12.
- ↑ E. 3.
- ↑ E. 2.
- ↑ E. 3.
- ↑ E. 5.
- ↑ E. 10.
- ↑ E. 6. Qui muneant itala de gente nepotes.. . Et te tua fata docebo.
- ↑ B. 4.
- ↑ E. 6.
- ↑ E. 7.
- ↑ E. 4.
- ↑ E. 11.
- ↑ E. 9.
- ↑ E. 11.
- ↑ E. 4.
- ↑ E. 7.
- ↑ E. 12.
- ↑ E. 9.
- ↑ E. 10.
- ↑ E. 8.
- ↑ E. 11.
- ↑ E. 4.
- ↑ E. 7.
- ↑ E. 8.
- ↑ Ov., Met.
- ↑ E. 4. Quam forti pectore et armis!... Heu quibus ille jactatus fatis?
- ↑ E. 2.
- ↑ El. di Cornelia.
- ↑ E. 5.
- ↑ E. 7.
- ↑ E. 3.
- ↑ E. 7.
- ↑ E. 9.
- ↑ Manz., Coro dell’Adelchi.
- ↑ E. 9.
- ↑ E. 10.
- ↑ E. 12.
- ↑ E. 11.
- ↑ E. 2.
- ↑ E. 12.
- ↑ E. 7.
- ↑ E. 11 e 13.
- ↑ E. 7.
- ↑ E. 12.
- ↑ E. 2
- ↑ Od., lib. I.
- ↑ E. 1.
- ↑ E 4 Conjugem vocat; hoc praetexit nomine culpam. - Vulnus alit – Traxitque per ossa furorem. - Non servata fides cineris promissa.
- ↑ G. 2.
- ↑ E. 1. Il rerum pulcherrima era nella mente di Dante, allorchè scriveva: se i Barbari,.... Veggendo Roma e l’ardua su’ opra, Stupefaciensi quando Laterano Alle cose mortali andò di sopra. - Ma se stupefacevansi, segno che non erano stupidi già.
- ↑ E. 5.
- ↑ E. 8.
- ↑ E. 3.
- ↑ E. 1.
- ↑ E. 7.
- ↑ E. 1.
- ↑ E. 2.
- ↑ G. 4.
- ↑ G. 2.
- ↑ E. 11.
- ↑ E. 9.
- ↑ E. 4.
- ↑ E. 1.
- ↑ E. 4. Quanto a dicitura, più languido, ma pur bello, e a me tra’ più belli del Tasso: Tra le care memorie ed onorate Mi sarai nelle gioie e negli affanni.
- ↑ E. 5
- ↑ E. 12.
- ↑ E. 2.
- ↑ E. 5.
- ↑ E. 1.
- ↑ E. 5.
- ↑ E. 3.
- ↑ E. 9.
- ↑ E. 1.
- ↑ G. 1.
- ↑ E. 9.
- ↑ E. 1.
- ↑ E. 2.
- ↑ G. 4.
- ↑ E. 4.
- ↑ G. 3.
- ↑ E. 8.
- ↑ E. 6.
- ↑ Inno La Passione.
- ↑ E. 6.
- ↑ E. 1.
- ↑ E. 11.
- ↑ G. 103.
- ↑ E. 6.
- ↑ E. 12.
- ↑ Genesi.
- ↑ Salm., 1.
- ↑ E., 11.
- ↑ Dante, Inf. 4.
- ↑ E. 6.
- ↑ Purg. 21.
- ↑ Purg. 22.
- ↑ Purg. 20.
- ↑ Sal. 113.
- ↑ G. 4.
- ↑ B. 1, 7, 9, 10; G. in tutti e quattro; E. 3, 5 e negli altri tutti.
- ↑ E. 3.
- ↑ G. 2: E. 10.
- ↑ B. I . 7, 9; E. IO.
- ↑ E. 8.
- ↑ E. 4.
- ↑ G. 3.
- Testi in cui è citato Guido Falorsi
- Testi in cui è citato Platone
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