Conchiglie/L'educazione di Rosina

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L’educazione di Rosina

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Neera - Conchiglie (1905)
L’educazione di Rosina
La prima lettera d’amore

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L’educazione

di Rosina.

Alla Signora Ernesta Monticelli Presidente la benefica Istituzione «Fanciulle smarrite».


Signora, le chiedo scusa se vengo a disturbarla nelle molteplici sue occupazioni col racconto di un caso particolare, ma lei ha tanto altruismo nel cuore da potervi far stare questo ed altro ancora.

Alberto Sormani (lo ha conosciuto signora?) quando voleva scrivere una novella e gli mancava il soggetto [p. 192 modifica] andava sempre a pescarlo nelle sue reminiscenze. Tutto gli serviva: memorie d’infanzia, aneddoti di collegio, prime impressioni, ogni cosa nella sua fantasia e sotto la sua penna prendeva consistenza di racconto. Ed a me pure, ricordandomi di questo metodo, era venuto in mente di tessere un romanzo intorno alla psiche abbastanza complicata di una certa ragazza di mia conoscenza, ma...

Basta, non le voglio ridire tutte le ragioni che mi fecero abbandonare l’idea del romanzo; prima perchè dovrei contrariare non poco le sue illusioni ottimiste sulla particolare ventura di chi scrive romanzi, mostrarle quale ricerca affannosa di pensiero, quale attività di [p. 193 modifica] immaginazione, quale impiego di forza nervosa, quale battaglia colla forma, quale somma di lavoro infine assiduo, penetrante, logorante, occorre per condurre a termine le trecento pagine che il grosso pubblico non degna nemmeno di uno sguardo, che il piccolo pubblico accoglie indifferente e che S. M. la critica azzanna e spazza via con un colpo di coda. E poi... Come vede, la faccenda anderebbe per le lunghe.

Dunque, signora, invece di scrivere un romanzo ho pensato di narrarle la storiella tale e quale, trasformando ciò che doveva essere un libro disgraziato in una azione forse meritoria, o quanto meno utile, o alla peggio andare animata da [p. 194 modifica] buone intenzioni come ella vedrà in seguito.

La Rosina in questione era una ragazza che presi una volta al mio servizio, non senza qualche strappo alla regola lasciatami da mio padre la quale diceva: Non si devono prendere in casa se non persone di chiara origine e di specchiata onestà. Ma mio padre, pover’uomo, visse nel secolo passato e certe idee che allora sembravano giuste non lo sono più al giorno d’oggi; tant’è vero che accettai la Rosina piovutami non ho mai saputo bene di dove (chi sa se lo sapeva nemmeno lei) in uno splendido mattino di maggio, ammantata in una casacca di panno color nocciuola e facendo passare da una mano [p. 195 modifica] all’altra un parasole col manico d’argento.

— Mi prenda, buona signora. Non ho più nè padre nè madre, fa una carità. La servirò come un cane fedele.

E mentre io guardavo titubante la casacca di panno color nocciuola, ella subito si slacciò con molta disinvoltura mostrandomi che sotto non aveva altro...

— Vede quanto son povera!

Torcendo gli occhi per discrezione venni allora ad arrestare lo sguardo sul manico d’argento dell’ombrello; ed ella, con maggior disinvoltura se possibile:

— È argento fino. Chi più spende meno spende. Almeno mi durerà un pezzo. [p. 196 modifica]

Questa volta allibii e mi ricordo benissimo che risposi con un fil di voce:

— Credo... mi dispiace... ma mi sembra proprio che non fai... no, non fai per me.

— Pensa forse che l’abbia rubato? — chiese la ragazza fissandomi in volto due pupille nere che in quel momento apparivano piene di sincerità.

— No, no... oh! non è questo. Ma capisco dal tutto insieme che non sei adatta per la mia casa. Noi siamo alla buona...

Si buttò in ginocchio con lagrime e giuramenti di conformarsi in tutto e per tutto a’ miei voleri! Doveva vestirsi di sacco? e si sarebbe vestita. Era quel manico che mi dava ombra?... Ma lei era disposta a bruciarlo, a [p. 197 modifica] gettarlo dalla finestra; anzi, me lo offerse in dono. Ma che non la respingessi per carità, altrimenti non rispondeva delle sue azioni.

Che fare, mio Dio! Non siamo noi a questo mondo per aiutarci l’un l’altro e sorreggerci a vicenda? Chi sa che cosa avrebbe fatto quella ragazza abbandonata a se stessa, consigliata dalla miseria, spinta dalla disperazione! Certo qualunque cosa fosse accaduta la colpa era mia. E di chi dunque di grazia? Non ero io che possedendo una casa pulita ed una tavola più o meno, mettiamo anche meno solamente, ma infine apparecchiata tutti i giorni, avevo l’obbligo di accoglierla e di nutrirla? Che diamine, non siamo tutti fratelli? [p. 198 modifica]

Mortificata dunque per quei pochi istanti di esitazione mi affrettai a dirle che poteva rimanere. Al suono di queste parole, come fossero il tocco di un tamburello magico, Rosina mi fece una profonda riverenza e girando su se stessa rapidamente descrisse quattro o cinque piroette in tondo. È allegra questa ragazza — pensai.

Ella si ingolfò poi in un lungo ed arruffato discorso per provarmi che era sola al mondo, che nessuno l’amava, che aveva tanta voglia di far bene ma che la sfortuna la perseguitava sempre. Concluse col ritornello che era da parte mia una carità fiorita.

E vada per la carità. Io mi accorsi veramente a poco [p. 199 modifica] a poco ch’ella era vana, volubile, bugiarda; ma naturalmente ne attribuii la causa alla sua fanciullezza orfana, al bisogno di guadagnarsi la vita; dico bene? E la ammonii con indulgenza, cercando di suscitare in lei il principio della dignità e della responsabilità. Non era digiuna affatto di qualche buon avviamento poichè prima di me, altre persone l’avevano raccolta; ed aveva frequentato le scuole; sapeva cucire discretamente. Alla mia domanda perchè non era rimasta fissa in uno di quei posti dove pure doveva confessare di essersi trovata con piacere, rispondeva alzando le spalle, o ridendo, o accennando la propria giovinezza.

— Quanti anni hai? — le chiesi un giorno. [p. 200 modifica]

— Ventiquattro.

Giovinezza sì ma non verde. L’ora del giudizio era già dunque suonata e se Rosina non la sentiva ancora vuol dire che fosse un po’ sorda. Anche non c’era pericolo che si potesse ottenere da lei il più piccolo miglioramento. Sotto il suo governo i bicchieri non risciacquati e le calze di polvere sulle gambe dei tavoli stavano per diventare una istituzione. Il tempo ch’ella impiegava alla mattina a farsi i ricci era evidentemente sottratto alle faccende domestiche. Ma con quale diritto me ne sarei lagnata? Tenere una persona di servizio perchè ci serva è una idea borghese, un calcolo da egoista. Me lo ripetevo costantemente trotterellando [p. 201 modifica] dietro a lei con un cencio in mano.

Tutto camminava dunque mel migliore dei mondi. È ben vero che siccome Rosina era un po’ pallidetta ed ansava a fare le scale, io la obbligavo a prendere il lattato di ferro e non permettevo che scendesse senza una forte ragione i novantacinque scalini che ci dividevano dalla strada; viceversa quando io uscivo ella affrettavasi ad abbandonare la sua cucina (è per questo che l’arrosto sapeva così spesso di bruciato) e correva a tener compagnia a un sottotenente che abitava parecchi scalini più in alto dei nostri novantacinque. Ma questo incidente non lo seppi che più tardi e Rosina lo giustificò dicendo [p. 202 modifica] che per guarire dall’anemia le avevano consigliato la ginnastica militare.

Che è, che non è, Rosina mi appare dinanzi un bel giorno con tanto di gota enfiata.

— È un dente — disse lei. Se è un dente — dico io — bisogna farlo curare. Sì, no, oggi, domani, finalmente la decisione è presa. Arriccia i capelli, annoda un foulard celeste intorno alla gota enfiata, si dà una spruzzatina di cipria generale e via. Aspetta, aspetta, aspetta, erano le due quando era partita, alle cinque non era ancora ritornata. Diamine, che se li sia fatti curare tutti e trentadue! — Alle sei e un quarta rientra, vispa, rosea, con gli occhi lucenti e con un garofano in petto. [p. 203 modifica]

— Ma che cosa hai fatto?

— Me lo son fatto levare.

— Il dente?

— Il dente.

— E niente altro?

Mi guardò dal sotto in su, quasi compassionevolmente, si fregò in fretta le mani l’una contro l’altra, e spingendole innanzi, e rovesciando indietro il capo uscì fuori in una di quelle sue risate che mi scombussolavano. Già... un po’ vedere, un po’ esplorare, e un po’ decidersi; e poi quel momento terribile: crac... Forse un po’ di paura, uno svenimento... Tuttavia quattro ore e un quarto per levare un dente.

Nessun sospetto però. Io ero ben lontana dal vero. Infervorata nella educazione di Rosina sopportavo i suoi [p. 204 modifica] scatti, le sue leggerezze, le sue trascuranze con quella benedetta fede che muove, dicono, le montagne e può parimenti inchiodare nella immobilità il più abile cervello. Non intendo alludere al mio, ma è certo che la disinvoltura di quella ragazza mi paralizzava. Solamente qualche mese dopo, capogiri, nausee, appetiti singolari, un mutamento di fisionomia, e subite stanchezze, e digestioni laboriose mi impensierirono seriamente.

— Rosina?

— Signora.

— Che hai?

— Non lo so.

Passa un altro mese.

— Rosina?

— Signora.

— Tu ingrossi. [p. 205 modifica]

— Le pare?

Improvvisamente una sera, mentre stava per coricarsi, le arrivai alle spalle cheta cheta.

— Rosina confessa! Oramai non vi è più dubbio.

— Eh! già.

— Ma sciagurata, puoi rispondere con tanta indifferenza? e non arrossisci? e non ti vergogni?

Fece per piangere un po’, ma sbattè solamente le palpebre.

— E come fu?

— Fu quel giorno del dente.

— Il dentista?

— Sì, lui. Ah! gli uomini sono privi di delicatezza.

Ecco una di quelle parole che mi allocchivano. Rosina ne aveva delle più impensate, Privi di delicatezza! via, è [p. 206 modifica] bellina; molto più che ricordavo perfettamente la sua attitudine spavalda nel giorno famoso del dente levato, il passo svelto, l’occhio luminoso, il garofano in petto erto e rosseggiante qual bandiera spiegata a significare che il padrone è in villa.

Dovetti decidermi a mandarla via. I vicini e gli amici di casa erano meravigliati che non lo avessi fatto prima, ma io m’ero ficcata in mente di poterla ridurre al giudizio, mentre, ironia del caso, era proprio stato il dente del giudizio che...

Non la lasciai partire senza qualche ammonimento a riflettere, a farsi più seria, più conscia della sua condizione, de’ suoi doveri, dell’avvenire che si preparava [p. 207 modifica] (a quel modo) tristissimo. Ella rise, pianse, giurò, maledi, volle baciarmi ad ogni costo le mani e mi confidò la sua intenzione di farsi monaca.

A questo punto, egregia signora, Ella desidererà giustamente sapere perchè le scrivo queste cose. Egli è che ho letto attentamente il programma della benefica istizione a cui Ella presiede e prevedendo che un momento o l’altro le potrebbe capitare innanzi, mi permetto di raccomandarle la Rosina. Sarà circa un anno che abbandonò la mia casa e la vidi appunto ieri tutta in ghingheri ma di nuovo colla gota enfiata...

Scusi, signora, e mi conceda l’occasione per offrirle tutti i miei rispetti.