Corto viaggio sentimentale e altri racconti inediti/Corto viaggio sentimentale/VI

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Venezia-Pianeta Marte

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VI

VENEZIA - PIANETA MARTE


Il signor Aghios era oramai piú tranquillo. Solo gli bruciava lo stomaco per il tanto vino bevuto. La sua coscienza era oramai tranquilla come se egli già avesse dato il denaro. In sostanza egli l’aveva già dato, perché avrebbe patrocinato con la moglie la parte del Bacis. Ora toccava alla moglie di comportarsi bene anche lei.

Ma non subito s’addormentò. È una cosa impossibile per un essere previdente di addormentarsi in un treno che s’accinge a correre. Per essere piú sicuro il signor Aghios s’aggrappò al suo giaciglio, ma ciò implicò uno sforzo e non è una cosa facile di addormentarsi nell’atto di fare uno sforzo. Poi finalmente il treno si mosse. Assunse un passo piuttosto lento e pesante. Il rumore maggiore fu dato dapprima dalla propagazione del moto dalla cima alla coda del grande convoglio, perché fra i singoli vagoni fu uno sbattersi inquietante, tanto che il signor Aghios si rizzò per star a sentire. Per quietarlo il Bacis, senza levare la mano dal volto, mormorò: «Ciò avviene perché questo treno manca del freno Westinghouse».

Non occorreva la parola rassicuratrice, perché oramai il treno s’era avviato ed aveva assunto un passo tranquillo. Molto tranquillo. Il signor Aghios poté abbandonare ogni sforzo e abbandonarsi sul suo giaciglio. In un treno che procedeva con quel passo si avrebbe certamente dormito tranquilli. La musica che proveniva da quel movimento era [p. 104 modifica]fortemente ritmica e non violenta come da un treno celere: Una vera ninna-nanna. E lungamente il signor Aghios seguí quel suono o meglio da quel suono fu inseguito nella pace che precede il sonno. Esistono dei sonni di tutte le gradazioni e il suo grado piú basso è quando i sensi non si sono ancora staccati dalla realtà. Il signor Aghios traverso le ciglia sentiva l’esistenza di quella fioca luce nella vettura e anche quel corpo del Bacis dagli occhi coperti dalla mano, giacente a meno di un metro di distanza dal proprio. E il sonno da lui cominciò quando quella musica là fuori cominciò a significare qualche cosa. Diceva: «Tutto va bene, tutto va bene». E il signor Aghios non si sentiva d’intervenire per far terminare la monotona ripetizione. Era tanto bello di addormentarsi al suono di una missiva tanto bella e tanto vera. Tutto andava bene infatti. Il Bacis gli voleva bene, avendo subito voluto rassicurarlo su quei suoni scomposti provenuti dal primo sobbalzo del treno. Tutto andava bene e si poteva finire.

Ma ancora una volta il suo sonno fu interrotto. L’arrivo a Mestre somigliò alla fine del mondo. Pareva come se una macchina potente si fosse messa a movere della ferramenta accatastata. L’Aghios spaventato si rizzò. Arrivò a vedere il Bacis tranquillo e immoto, la mano sempre sulla faccia, eppoi, tranquillizzato, lasciò ricadere la testa pesante sul guanciale mormorando: «Manca il freno Westinghouse».

Quando sognò il signor Aghios? Certo non subito dopo abbandonato Mestre. Presso Gorizia, quando alle quattro della mattina, il signor Aghios si destò, la distanza è lunga e il sogno sarebbe stato dimenticato come ogni altro sogno che certamente allieta anche il sonno piú profondo. È piuttosto da supporsi che il sogno si sia prodotto in qualche stazione poco prima di Gorizia, quando il sonno fu meno profondo e qualche cellula desta poté sorvegliare e ritenere il sogno.

Chissà poi se il sogno fu proprio quello che il signor Aghios ricordò. Quando ci si desta da un sogno, subito interviene la mente analizzatrice per connetterlo e completarlo. È come se volesse fare una lettera da un dispaccio. Il sogno è come una sequela di lampi e per farne un’avventura bisogna che il [p. 105 modifica]lampo divenga luce permanente e sia ricostituito anche quando non si vide, perché non illuminato. Insomma il ricordo del sogno non è mai il sogno stesso. È come una polvere che si scioglie.

Insomma il signor Aghios era avviato verso il pianeta Marte, sdraiato su un carrello che si moveva traverso lo spazio come sulle rotaie. Egli vi era sdraiato bocconi e invece di pavimento il carrello aveva delle assi su cui, dolorante, poggiava il suo corpo. Una delle assi passava sul suo petto e rendeva piú pesante la tasca che vi era. Sotto a lui c’era lo spazio infinito e al di sopra anche. La terra non si vedeva piú e Marte non ancora, né si vide mai.

Il signor Aghios si sentiva molto libero, molto piú che in piazza S. Marco e anche troppo. Si guardava d’intorno e non vedeva altro che spazio luminoso. Dove esercitare la sua libertà se non v’era nulla che fosse schiavo? E a chi dire la propria libertà? Per sentirla bisognava pur poter vantarsene. Anche nel sogno il signor Aghios era riflessivo. Pensò: “Io non sono solo, perché c’è la mia libertà con me. La mia sola noia è quella tasca di petto che duole”.

Ma piú che si procedeva nello spazio, piú solo il signor Aghios si sentiva. Giacché andava al pianeta Marte egli pensò, per il sentimento d’onnipotenza che il sognatore sente, ch’egli avrebbe potuto foggiare quel pianeta a sua volontà. Previde quel pianeta. Ebbene, egli lo avrebbe popolato di gente che avrebbe intesa la sua lingua, mentre egli non avrebbe intesa la loro. Cosí egli avrebbe comunicata loro la propria libertà e indipendenza, mentre loro non avrebbero potuto incatenarlo con le proprie storie, che certo non mancavano loro.

Una voce proveniente dalla stazione di partenza già tanto lontana domandò: «Mi vuoi con te?». Doveva essere la moglie. Ma il signor Aghios voleva la libertà; finse di non aver sentito e anzi aderí ancora meglio al suo carrello per celarsi1. Cosí proseguí a grande velocità, che non si percepiva causa [p. 106 modifica]la mancanza di cose e di aria e, correndo, pensò: “Voglio che mio figlio non rimanga solo”.

Poi la voce fioca, lontana di Bacis gli domandò: «Mi vuole con lei?».

Aghios pensò che l’intervento di Bacis l’avrebbe privato di ogni libertà. Appassionato com’era, con lui non si poteva parlare d’altro che dei fatti suoi. Gli aveva già pagato la gita in gondola ed era ridicolo volesse ora fare un simile viaggio a spese sue. Andare al pianeta Marte per parlare di Torlano? Non ne valeva la pena. Il signor Aghios si strinse meglio al carrello per continuare a celarsi.

Una voce dolce, musicale, ma vicinissima domandò: «Io sono pronta alla partenza, se mi vuoi».

In sogno una parola e il suo suono dipinge intera la persona che la emette. Era Anna, la fanciulla bionda, alta, dalle linee dolci, salvo le mani abituate al grande lavoro. Quell’Anna che s’era lasciata ingannare dalla sincerità della carne.

Il cuore paterno dell’Aghios si commosse fino alle sue piú intime fibre. Egli la voleva con sé per allontanarla da Berta e da Giovanni che la umiliavano e anche dal Bacis del quale non c’era da fidarsi, il traditore che l’aveva ingannata con la sincerità della carne.

E subito essa fu con lui sul carrello, sotto a lui, coperta da quegli stracci che l’adornavano, ma che ricavavano ogni loro bellezza dal suo corpo morbido, giovanile, non ancora sformato dall’incipiente maternità. I capelli biondi svolazzavano nell’aria, che per essi c’era, sotto a loro. Ora non avrebbe piú dovuto esserci del dolore alla tasca del petto. Ma un greve peso v’era tuttavia. Anna probabilmente vi si era afferrata per sentirsi sicura.

E si procedette cosí, senza parole, mentre il signor Aghios pensò: “È la mia figliuola. Le insegnerò a non fidarsi piú di alcuna sincerità”.

Ora il motore del carrello doveva fare un chiasso indiavolato. Tutto lo spazio ne era pieno. E l’Aghios si domandò: “Ma perché la mia figliuola ha da giacere cosí sotto a me? [p. 107 modifica]È il sesso? Io non la voglio”. E urlò: «Io sono il padre, il buon padre virtuoso».

Subito Anna fu seduta lontano da lui, ad un angolo del carrello, in grande pericolo di scivolarne nell’orrendo spazio e l’Aghios gridò: «Ritorna, ritorna, si vede che su quest’ordigno non si può stare altrimenti». E Anna obbediente ritornò a lui come prima, meglio di prima. E lo spazio era infinito e perciò quella posizione doveva durare eterna.

Uno schianto! Si era arrivati al pianeta?

Infatti il treno, fermandosi, sembrava volesse distruggere se stesso. Il signor Aghios saltò in piedi. Soffocava, ma arrivava a ravvisarsi. Fra quel carrello e questo treno c’era una confusione da cui era impossibile estricarsi. E la stessa confusione c’era fra la gioia che aveva provato poco prima e la vergogna che ora lo pervadeva. Ma la bontà del signor Aghios era infinita anche verso se stesso. Pensò: “Io non ci ho colpa”. E subito sorrise.

Egli aperse una finestra e l’aria si fece respirabile. Vide la campagna vuota: Una luce immota brillava dalla casa di un contadino. Tuttavia abbattuto dal grande sonno, la stanchezza del doppio viaggio, il signor Aghios ebbe ancora il tempo di guardare il giaciglio vuoto del Bacis, eppoi anche il posto ove era giaciuta la sua valigetta. Il Bacis se ne era andato discretamente, senza destarlo. Dovevano aver già passato Gorizia.

Senza convinzione, con la testa sul cuscino, l’Aghios pensò: “Peccato! Se ci fosse stato gli avrei dato subito le diecimila lire (non quindici)”. Sorrise! Era bello di non poter pagare. Rimorsi non ebbe. La sua avventura, la piú forte che avesse avuta durante la vita, non usciva dalla vita del suo pensiero solitario e perciò non aveva importanza. Tuttavia se il Bacis fosse venuto da lui a Trieste, egli, d’accordo con la moglie, avrebbe tentato di aiutarlo in piena virtú.

E s’addormentò profondamente dopo di aver tratto sotto la propria testa anche il cuscino del Bacis. Si sentiva perfettamente bene. Il vino era stato smaltito nella corsa traverso gli spazi siderei e non lo turbava piú.

Note

  1. Nel ms. segue: «Avrò dimenticato qualche incarico di mia moglie».