Corto viaggio sentimentale e altri racconti inediti/Un contratto

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Un contratto

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Il mio ozio Appendice prima
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UN CONTRATTO

N
on ho mai capito bene come io sia arrivato alla mia inerzia attuale, io che durante la guerra ero considerato in città come un uomo molto operoso. C’è mio nipote Carlo che consultai anche su questo punto che pure anch’esso riflette sulla mia salute, e mi disse che facevo bene di stare tranquillo e che avrei ripreso il mio lavoro alla prossima guerra mondiale.

Quel biricchino ne indovina parecchie in quel suo gergo triestino e argentino. È vero la mia attività era stata quella della guerra e venuta la pace, non sapevo piú movermi. Proprio come un molino a vento quando l’aria non si move.

Cerco di ricordare: Magari mi fossi fermato prima, ma io non m’ero accorto dell’immenso rivolgimento. Per le vie acclamavo alle truppe italiane e sapevo che la mia città finalmente usciva da una specie di medioevo. Poi andavo al mio ufficio e trattavo gli affari come se fuori ci fossero ancora le truppe austriache e l’inedia austriaca. E ricordo ancora: Quando le comunicazioni con l’Italia si ristabilirono io ne approfittai per scrivere una bella lettera al vecchio Olivi che aveva passata la guerra a Pisa. Era una lettera proprio innocente perché dalla stessa traspariva la mia convinzione che le cose a guerra finita sarebbero continuate come se la guerra fosse continuata. Gli scrivevo che il destino aveva voluto ciò che il mio povero padre aveva escluso cioè che divenissi il padrone dei miei affari. Gli esponevo la florida posizione a cui avevo portato la casa nostra, i tanti affari che avevo fatti e gli presentavo anche un computo dei denari guadagnati. Tutto ciò con grande serenità e senza vanteria. Non occorrevano parole: Bastavano i fatti per farlo schiattare dalla bile. Infatti schiattò. Quando pochi giorni dopo appresi ch’era morto pensai che non avesse saputo sopportare la mia lettera. Invece era morto di grippe. Nella lettera seccamente io gli avevo propo[p. 387 modifica]sto di lasciar continuare le cose come il destino le aveva poste, forse dimenticando un po’ le ultime disposizioni di mio padre, che a quest’ora si erano fatte molto antiche. Sollecitavo l’ulteriore collaborazione sua e di suo figlio ma intendevo di restare io il padrone e che gli avrei lasciato la necessaria libertà per riannodare gli antichi suoi affarucci mentre io avrei atteso ad affari maggiori nei quali volevo avere l’assoluta libertà anch’io. Anche la direzione degl’impiegati sarebbe spettata a lui. Io ne ero alquanto stanco per quanto durante la guerra avessi tenuti ben pochi impiegati.

Non ne sono sicuro ma è possibile che sarebbe stata una fortuna per me di essere subito avvisato della morte del vecchio Olivi mentre io ne seppi soltanto 8 giorni dopo avvenuta. Non tenni conto delle date e forse sarebbe stato opportuno ch’egli morisse qualche giorno prima.

Insomma l’affare disastroso in cui mi precipitai dipese certamente dalla mancanza di sensibilità mia, credevo cioè che continuasse la guerra mentre sapevo che era scoppiata la pace. Ma m’affrettavo anche di mettermi in un affare importante perché al suo arrivo l’Olivi trovasse un motivo di piú per ammirarmi. Se avessi saputo della sua morte anch’io mi sarei tenuto piú tranquillo.

Arrivarono dunque a Trieste una quantità di vagoni di sapone dalla Sicilia. Durante tutta la guerra il sapone a Trieste era stato il desiderio di tutti e specialmente di chi con esso voleva fare fortuna. Io me ne impadronii con avidità e pagando per cassa pronta. Come ero uso di fare durante la guerra ebbi meno premura di venderlo. Poi, come mi vi accinsi, scopersi che a Trieste non sentivano il bisogno del sapone. Pareva vi si fossero disabituati. Poi avvenne di peggio: Ricevetti da tutta l’Italia altre offerte di sapone e a miglior prezzo di quello che avevo pagato io. Allora mi agitai e compresi che era avvenuto anche per il sapone il fatto nuovo, la pace. Ma mi parve che per il sapone ci fosse ancora una salvezza. Infatti il mio si trovava già a Trieste mentre l’altro era piú lontano. Avviai senz’altro il mio sapone a Vienna per arrivare primo e ne tentai la vendita. Neppure adesso so esatta[p. 388 modifica]mente perché il mio sapone fu intanto sequestrato. C’erano due ragioni, pare, per togliergli la libera viabilità: il bisogno urgente che la gente ne aveva eppoi il fatto che il sapone non bene corrispondeva nella sua contenenza a certe leggi austriache di cui anch’io sapevo qualche cosa. Poi incominciarono delle trattative che durarono qualche mese. Infine ebbi il mio sapone libero ma intanto il mondo aveva avuto il tempo di rifornirsi del materiale dal consumo tanto lento ed io dovetti venderlo sotto prezzo ed in corone austriache che mi pervennero solo quando non c’era piú il tempo di cambiarle. Valevano pressocché nulla. Quest’ultimo affare mi portò via quasi tutto il beneficio da me realizzato con tanta fortunata intraprendenza durante la guerra. Fu duro rassegnarvisi e tanto piú in quanto il giovine Olivi che nel frattempo era arrivato ancora vestito da sottotenente non sapeva guardare i miei bilanci passati con benefici importanti ch’erano stati tutti assorbiti da quell’ultimo disgraziatissimo affare senza ridere. Dimostrava anche un grande disprezzo per gli affari di guerra e un giorno asserí ch’era troppo naturale che in tempo di pace fosse subito distrutto chi s’era abituato a lavorare in tempo di guerra. Mormorò anche: «Già se io avessi potuto comandare avrei fatto fucilare tutti quelli che durante la guerra commerciarono». Poi si ravvisò e, senza ridere, aggiunse: «Meno lei... naturalmente».

Il timido giovinotto durante la guerra s’era fatto molto ardito. Ne ebbi paura dapprima. Come avrebbe atteso ai miei affari un uomo ch’era tanto fortemente intinto di bolscevismo? Ad ogni tratto sputava delle sentenze contro i ricchi. Lui e suo padre erano corsi in Italia coi loro titoli austriaci sotto il braccio. Senza pensarci altro egli era andato in trincea e quando finalmente gli riuscí di distruggere le trincee nemiche apprese che nello stesso tempo aveva distrutto anche la propria sostanza. Ciò lo amareggiò profondamente.

«E vostro padre?» arrischiai io. «Lui, poi, era un uomo d’affari. Non come io che sono un commerciante di guerra né voi che siete un uomo d’arme.» [p. 389 modifica]

«Non ci pensò» sospirò l’Olivi. «Durante la guerra non fece altro che aspettare le mie notizie. Poverino!»

Trionfalmente esclamai: «Anch’io aspettavo le notizie da Firenze eppure seppi anche attendere ai miei affari. Sta bene che causa quei maledetti saponi la mia sostanza non fu aumentata. Ma almeno non la lasciai distruggere».

Con vera amarezza l’Olivi disse: «Sui membri della sua famiglia nessuno tirava mentre io mi trovavo in trincea». Pareva rimpiangesse che mia figlia non si fosse trovata in trincea.

Ad onta del suo bolscevismo l’Olivi fu negli affari esattamente quello ch’era stato suo padre, accorto, attento e duro. Gl’impiegati erano stati viziati da me che non ero bolscevico. Lui li rimise all’ordine. Li obbligò a tenere esattamente l’orario e, quando poté, ridusse le loro paghe.

Presto m’accorsi che con lui non dovevo parlare ma che di lui potevo fidarmi. Dava lui l’esempio di un’attività indefessa. Tanto che io cominciai a prendermela molto comoda. Dapprima, un certo giorno di cui mi ricordo ad onta che in esso non fosse successo proprio niente altro che un movimento nel mio animo pensai: “M’innalzo ancora se regno senza governare”. L’Olivi per qualche tempo mi sottoponeva per la firma qualche lettera importante. Io firmavo dopo un’esitazione con una smorfia che voleva dire: È quasi bene. Se volessi rifarla, la farei ancora meglio, ma per non sottopormi a tanta fatica, con un sospiro firmavo.

L’unico affare cui l’Olivi rifiutò l’attenzione dovuta fu quello del sapone. Le corone non arrivavano mai ed io un giorno esclamai: «Ma insomma, non si potrebbero costringere quei viennesi di fare il loro dovere: Non abbiamo vinto noi la guerra?». Egli rise di cuore, tanto di cuore ch’io compresi che fra quelli che avevano vinto la guerra io non c’ero e arrossii.

Io sono molto sensibile a tali rimproveri. Non dissi nulla perché m’occorse del tempo per fare il conto che allo scoppio della guerra io avevo avuto 57 anni. Il giorno appresso gli domandai: «Lei crede che se alla guerra mi fossi presentato [p. 390 modifica]quale volontario m’avrebbero accettato quale generale? Perché credo che fra i fanti non m’avrebbero ammesso».

Egli rise: «Certo di generali ne abbiamo avuti di tutte le qualità».

Era meno cattivo. Meno cattivo di me perché io durante la notte avevo preparato tutte le parole che dovevo dirgli. E soggiunsi per nulla commosso dalla sua bonarietà: «Non mi sarebbe bastata neppure la carica di sottotenente perché anche per quella carica occorrono buone gambe: Per avanzare e anche per scappare».

Egli non sentí la botta. Si fece triste. Pensava ad una ritirata.

Anche lui era un uomo lento. Il giorno appresso mi disse: «Quelli che nulla sanno della guerra credono che il buon ufficiale si veda nell’organizzazione dell’attacco. Io credo di essere stato utile alla mia patria, utile nel senso di aver diffuso la mia fiducia a molti, durante la ritirata.»

«È questione di gambe» dissi io implacabile. E allora egli si arrabbiò. Ma non contro di me. L’aveva con altri. Comandanti varii che s’erano avvantaggiati dei suoi meriti. Eppoi l’aveva con gente anche piú lontana, coi morti cioè. Quelli erano gli eroi e si proclamavano tali tanto volentieri perché costavano poco, una tomba e qualche scritta. I vivi che avevano fatto tanto venivano negletti e se volevano vivere dovevano andar a lavorare per il signor Zeno Cosini.

Non sentii subito la botta e soltanto il giorno appresso gli dissi: «Sarebbe bella che toccasse proprio al povero Zeno Cosini di pagare gli eroi che seppero sopravvivere». Egli rise con disprezzo. Io alzai la voce: «Lei ha combattuto per molti altri. In questa stessa contrada può trovare chi le deve quanto me».

Ero tuttavia timido quando sapevo alzare la voce. Ma mi seccava di farlo. In fondo era vero che lui aveva combattuto mentre io avevo fatto affari. Ma il peggio venne poi. A forza di governare e non regnare io presto non seppi piú nulla dei miei affari. Quando per caso mi avveniva di dare qualche consiglio venivo subito deriso. Veniva il mio consiglio da altre epoche. Citavo degli uffici cui bisognava ricorrere e che non [p. 391 modifica]esistevano piú e l’Olivi mi diceva: «Ma lei crede di essere ancora contemporaneo di Alberto l’Orso». O suggerivo una cosa che sotto l’antico regime si poteva fare e allora l’Olivi mi raccontava che nel 1914 i serbi avevano ucciso un arciduca e che ne erano seguite tante storie che il mio consiglio non si poteva piú applicare.

Io cominciavo sinceramente ad annoiarmi in quell’ufficio. Talvolta mi prendevo delle vacanze. Per amore al buon ordine la sera prima avvisavo l’Olivi che il giorno seguente non sarei venuto in ufficio. L’Olivi mi diceva: «S’accomodi, ma s’accomodi». E rideva. Voleva significare il suo contento di vedermi meno frequentemente.

Già allora io cominciai a dover esercitare uno sforzo per recarmi all’ufficio. Vi andavo sempre nella speranza di cogliere l’Olivi in fallo. Speravo non vedesse bene qualche lettera o l’interpretasse male ed ero pronto a dimostrargli la necessità della mia presenza. Mai mi concesse tale gusto. Anzi una volta in cui io credetti di coglierlo in fallo, mi disse: «Ma lei non sa leggere una lettera?». E mi dava la prova che mi sbagliavo. Ed è vero che molti mesi dopo che una tale discussione era avvenuta m’accorsi una volta di aver avuto ragione ma che intimidito dalla sua sicurezza non ero stato capace di conservare la mia opinione.

E cosí fra le dispute in cui avevo torto e quelle in cui contro ogni giustizia il torto mi veniva addossato, io finii con l’avere in quell’ufficio non l’aspetto di chi regna ma piuttosto di un ingombro cui nessuno bada. Gl’impiegati non mi mancavano di rispetto ma neppure quando l’Olivi momentaneamente s’assentava mi domandavano istruzioni. Io fingevo di non accorgermi che in quel momento d’istruzioni ci sarebbe stato bisogno perché io sapevo che qualunque istruzione avessi data si sarebbe finito col provarmi che m’ero sbagliato. Stavo quieto quieto ben contento che nessuno mi domandasse nulla.

Ma poi un bel giorno fui aggredito. Quella bestia di mio genero (poverino, mi dispiace di dirlo cosí ora, ora ch’è morto non vorrei fargli di torto) fu incaricato dall’Olivi di trattare con me per un nuovo contratto con lui. Gli affari andavano [p. 392 modifica]male. Bisognava riorganizzare la ditta, trovarle nuovo lavoro. Perciò l’Olivi s’apprestava a studii, lavori e viaggi e intendeva dedicare la sua vita al suo compito. Bisognava però retribuirlo in tutt’altra misura. Egli esigeva un onorario un po’ piú alto di quello che percepiva allora e inoltre il 50% dei benefici.

Mio genero mi guardava con quella sua faccia pallida, grassa un po’ informe (mai intesi come poté piacere a mia figlia) e mi domandava scusa di aver accettato lui l’incarico di apportarmi una simile missiva. L’aveva fatto a fin di bene; era meglio l’avesse lui che un altro.

Io ero indignato. Vedevo davanti a me tutta la storia delle mie relazioni col padre e figlio Olivi. Tanti anni si era restati alle condizioni stabilite da mio padre. Se si cambiavano ecco ch’io sarei stato libero di allontanare dall’ufficio l’Olivi e mettermi io a capo della mia ditta. Ma giusto ora avevo qualche esitazione. Era tanto lontano quel giorno in cui liberato da ogni catena della guerra m’ero gettato impetuosamente negli affari! Con astuzia diabolica l’Olivi era riuscito a convincere tutti della mia insufficienza. Aveva convinto anche me. Io mi vedevo assediato da persone che m’avrebbero chieste delle istruzioni di cui non potevo che dire: Rivolgetevi all’Olivi!

Ma non era vero che mio genero Valentino avesse fatto bene d’incaricarsi lui di quella missiva. Prima di tutto io sapevo ch’egli stimava moltissimo l’Olivi e pochissimo me. Lui era procuratore di un grande istituto d’assicurazioni e aveva tentato con me di stabilire una polizza generale per tutti i nostri trasporti. S’accorse a un dato punto che con me esitante (mal diretto dall’Olivi stesso) non sarebbe venuto a capo di nulla e finí col rivolgersi all’Olivi con cui in due e due quattro la polizza generale fu firmata e — a dire il vero — a condizioni per noi piú vantaggiose di quelle ch’io mai mi sarei sognato di raggiungere. Valentino si scusava poi con me dicendo: «Ma tu non m’avevi spiegato questo o quell’altro...». È certo invece ch’egli concesse all’Olivi delle condizioni migliori di quelle che aveva offerto a me e finí — ciò ch’era peggio di tutto — col concepire una grande stima per l’Olivi.

Perciò aveva fatto male d’incaricarsi lui di quella missiva. [p. 393 modifica]Io per il momento respinsi ogni proposta e pregai Valentino di dire all’Olivi di ritenersi licenziato e che avrei provveduto a rimpiazzarlo se non avessi finito col mettermi semplicemente io al suo posto.

Valentino come tanti altri uomini d’affari credeva che le cose si possono discutere a questo mondo. Come poteva farlo lui che non sapeva che intanto in quel momento a me importava piuttosto di ergermi dinanzi a lui che fare il mio interesse con l’Olivi: E si mise a parlare dei lunghi anni di servizio dell’Olivi e della sua grande pratica. Aveva una voce sgradevole il povero Valentino. Quel suo grande naso partecipava a creare il suono della sua voce. E non era mica una voce forte (già, che cosa era forte in Valentino?) per cui la noia di starlo a sentire era accompagnata dallo sforzo di tendere l’orecchio. Ed io tendevo l’orecchio con lo sforzo necessario eppoi chiudevo l’orecchio per non sentire quelle parole di cui non m’importava affatto. Parlava del mio interesse il povero Valentino mentre si trattava ora di tutt’altra cosa.

Finalmente finí. Si levò per raggiungere gli altri e prima di andarsene domandò scusa di avermi seccato. Io allora mi feci affettuoso ricordandomi che se c’era qualcuno da rimproverare era l’Olivi e non Valentino e gli sorrisi, lo ringraziai, l’accompagnai fino alla porta. Cosí egli non poté affatto accorgersi che dal mio animo sorgeva una rampogna ch’io spesso sento: “Come son buono! Come son buono!”. E continuo ad essere buono contro ogni migliore convincimento. Che il povero morto mi perdoni ma in quel momento anzicché sorridergli come feci avrei voluto accelerare la sua uscita con un calcio.

Andai da un avvocato, l’avvocato Bitonti, figlio dell’avvocato di mio padre, vecchio come me, piú cadente di me, magro e la piccola faccia incorniciata da una barba bianca, ma l’occhio vivo e sereno. Curioso come certe persone quando studiano un affare non vedono altro che quello. Tutta la propria persona scompare e insieme a quella anche quella dell’interlocutore e resta l’affare. Egli non conosceva quell’affare che per quello che gliene dicevo io che al solo affare non sa[p. 394 modifica]pevo pensare. Sarebbe stato perciò perduto insieme a me. Ma s’attenne all’affare non inteso, non saputo, male presentato. Mi disse: «Tu dici che in guerra hai saputo dirigere da solo i tuoi affari. Devi vedere se sapresti dirigerli da solo anche in tempo di pace. Tu dici che in ufficio hai almeno l’importanza dell’Olivi. Studia anche se la stessa importanza la conserveresti senza l’Olivi. Ma io credo che non devi rimpiazzare subito l’Olivi con qualcun altro. Devi assumere tu la direzione della ditta e in un secondo tempo cercare chi ti possa aiutare o sostituire».

Andai via odiandolo ma non facendoglielo vedere. Per fortuna! Perché dopo qualche tempo al grammofono vidi pieno di compassione per me stesso, la compassione piú viva che esista che io, povero vecchio, non avevo aperte che due vie: Mettermi a lavorare col dubbio di non saperlo fare o arrendermi all’Olivi.

E fu allora che mi rivolsi per consiglio ad Augusta. Non speravo mica ch’ella avrebbe saputo dirigermi. Ma era utile chiarire la proprie idee dicendogliele. Dapprima la trovai ancora inferiore di quanto avessi temuto. Diceva: «Ma non sei tu il padrone? Come può osare questo? Come può osare?». Se mi fossi messo a studiare come l’Olivi avesse osato tanto avrei impiegato bene il mio tempo. Fui un po’ impaziente e per il momento ritornai al grammofono.

Non ne avrei piú parlato con l’Augusta se il giorno appresso essa, dopo pranzato, quando restammo soli, non m’avesse domandato: «Ebbene! Che hai deciso?»

Le spiegai che io trovavo abbastanza giusto di concedere all’Olivi il 50% del beneficio. Ciò in quell’epoca non era mica la grande cosa perché non si trattava piú degli utili prebellici o di quelli che avevo saputo realizzare io durante la guerra. Ora veramente urgeva che l’Olivi ed io dedicassimo ogni nostro potere alla ricostruzione della casa su altre basi. Ma se io dovevo collaborarvi perché non avrei ottenuto anch’io un onorario uguale a quello dell’Olivi?

Mi era facile risolvermi a spiegare tutto ad Augusta. Quella bestia dell’Olivi rivolgendosi a Valentino che raccontava tutto [p. 395 modifica]a sua moglie la quale con la propria madre non aveva segreti m’aveva già esposto ad una sincerità assoluta.

Augusta mi consigliò di domandare l’onorario doppio di quello percepito dall’Olivi. Io assentii gravemente ma subito pensai che all’Olivi non avrei domandato tanto.

E feci uno sforzo disperato per allontanare dalla discussione Valentino. Trattai direttamente con l’Olivi.

Non mi parve mica imbarazzato. Trattava quell’affare con la stessa disinvoltura con cui avrebbe ceduto o rifiutato di cedere una partita di merce. Ed invece io non sapevo arrivare ad una disinvoltura simile. Sorridevo, pensavo, discutevo, ma sicuramente si vedeva ch’ero come un cane che quando avvicina un nemico s’irrigidisce cacciando la coda fra le gambe. E mi mancava il fiato sentendo l’importanza del momento. In quel momento vedendolo tanto sicuramente disinvolto in un affare simile e sentendo me infelice e malsicuro intuii la superiorità sua e decisi di conservarlo nei miei affari a tutti i costi.

Proposi che a me fosse assegnato un onorario uguale al suo e si dividesse poi il beneficio oppure che si trascurasse di fissare un onorario qualunque sia a me che a lui e si procedesse alla divisione dell’utile. A me pareva di aver fatta una proposta sola ma non all’Olivi. Prima mi raccontò ch’egli stava per ammogliarsi e che se avesse accettato la mia proposta poteva vedere dal bilancio precedente che i denari non gli sarebbero bastati per vivere onorevolmente con la sua famiglia: Egli abbisognava proprio della sua paga intera e della metà dell’utile non attenuato da una mia paga.

«Ma» dissi io «se il mio lavoro non ha da essere retribuito io neppure lavorerò. Verrò qui solamente di tempo in tempo come sorvegliante ma non toccherò una penna.»

Ipocritamente l’Olivi disse: «Mi dispiace di dover rinunziare alla sua collaborazione ma non si può fare altrimenti».

Ipocrite erano le parole non l’atteggiamento deciso che proprio significava: La collaborazione che tu mi offri non vale un soldo.

Ci fu da me ancora una piccola resistenza. Gravemente do[p. 396 modifica]mandai: «Fino a quando lei mi lascia il tempo per darle una risposta?».

Mi spiegò ch’erano già trascorsi otto giorni dacché la sua prima proposta era partita. Egli, volentieri, avrebbe atteso anche fino al bilancio che dovevasi chiudere alla fine del mese secondo il contratto vecchio, ma non poteva perché le persone con le quali trattava l’obbligavano ad una pronta risposta. La risposta io la dovevo dare l’indomani mattina. Egli voleva trattare con me francamente. Aveva consegnato a mio genero Valentino la lettera delle persone che volevano assumerlo alle condizioni stesse ch’egli da me domandava e mio genero me l’avrebbe fatta vedere quella sera stessa.

Per due ragioni io diedi un balzo: Apprendevo che l’Olivi se non andava d’accordo con me s’apprestava a farmi la concorrenza eppoi (ciò che mi doleva di piú) di nuovo un membro della mia famiglia veniva ammesso a queste discussioni che – a quest’ora lo s’intendeva all’evidenza – non potevano terminare per me che con una sconfitta.

Balbettai: «Ma perché occorreva di mettere fra di noi degli estranei?».

«Degli estranei?» rise lui. «Non è suo genero?»

Mi ravvisai e mormorai: «È vero». Ecco un’altra cosa che non si poteva discutere. Era da perdere i sensi. Con l’Olivi soggiacevo sempre.

Non osai piú discutere ma ancora una volta, l’ultima, mi eressi come consigliava Augusta – la sola – da padrone. «Ebbene, sia! Domani mattina le darò la mia risposta.»

E il curioso è che subito abbandonai l’ufficio per la prima volta nell’ora stessa in cui si apriva la posta. In quella stagione e a quell’ora si sarebbe stati meglio nell’ufficio caldo che all’aperto sotto ad una nuvolaglia pregna di neve. Agivo da padrone, cioè da padrone di me stesso, ma non da padrone di quell’ufficio ove il vero padrone, l’Olivi, restava a lavorare, a lavorare al caldo, mentre io dovevo correre in cerca di altro ricetto.

M’arrampicai a piedi fino alla mia villa. Non era il caso di celare ad Augusta la mia sconfitta dal momento che Valenti[p. 397 modifica]no ne avrebbe saputo. E gliela raccontai subito. Per liberarmi subito da tanto peso strappai Augusta alle sue faccende domestiche e al suo bagno. Le confessai ch’era vero ch’io piú non sapevo lavorare. Era forse l’età: Non avevo allora che 63 anni ma poteva trattarsi di un invecchiamento precoce. Noto come una coincidenza curiosa ch’era la prima volta che in casa si evocava quella malattia. E quando essa colse Valentino ebbi per un momento un rimorso come se gliel’avessi appioppata io.

E parlando della mia irrimediabile vecchiaia mi vennero le lacrime agli occhi. Augusta si mise a consolarmi commossa pronta a piangere con me. Essa ci tiene molto ai denari perché ne consuma molti, saggiamente nel senso che non guarda alla spesa quando si tratta di aumentare la propria comodità. Ma non credo che s’informasse tanto del danno finanziario che dal nuovo contratto doveva derivarmi. Supponeva fosse piccolo e voleva trarne una nuova ragione per consolarmi.

Infatti era piccolo. Poteva diventare maggiore se ci fossero state delle perdite perché allora oltre alle perdite avrei dovuto anche sopportare la spesa dell’onorario dell’Olivi visto che nel nuovo contratto l’Olivi veniva esonerato da perdite perché riteneva che colui che rappresentava il lavoro nell’associazione non poteva vedersi sminuita la retribuzione. Era insomma quello che si dice un contratto ben fatto... dal punto di vista dell’Olivi. Posso anche dire subito che se il nuovo contratto fortemente avvantaggiò l’Olivi non posso dire adesso dopo sette anni di prove di essere stato molto danneggiato altrimenti che nella salute come dirò. Certi anni i bilanci furono splendidi e la maggiore difficoltà fu di ingannare l’agente delle imposte. Altri anni furono poco lauti, ma di perdite non ce ne furono giammai. In fondo l’Olivi trattava i miei affari come faceva suo padre solo che è retribuito meglio del vecchio, un vero segno dei tempi.

Io, quel primo giorno dopo di aver sofferto il freddo e lo sconforto della mattina restai in casa. Non avevo ancora il progetto di non rivedere piú il mio ufficio. Credevo di essere là a riflettere come per salvaguardare la mia dignità avrei [p. 398 modifica]ricevuto Valentino che alla sera certamente sarebbe venuto da me. Invece non ci pensai affatto. Io non so dirigere la mia attenzione dove voglio. Essa è veramente indipendente da me. Ricordo che tutto il giorno nelle ore in cui restai solo rimasi fisso a guardare se alla mattina non avrei dovuto subito accettare la proposta dell’Olivi oppure se forse non avrei fatto meglio di mandarlo a quel paese e di assumere la direzione dei miei affari. Ed è proprio vero ch’io piú intensamente rivolgo il mio pensiero al passato come per correggerlo – anzi un evidente tentativo di falsarlo – piuttosto che all’avvenire su cui il pensiero non sa come adagiarsi non vedendone chiaro il piano che non è ancora formato.

E cosí quando finalmente capitò il povero Valentino io non seppi far altro che subito allontanarlo (io quando guardo una montagna aspetto sempre che si converta in vulcano) dichiarandogli che io poco prima avevo visto l’Olivi e che m’ero messo d’accordo con lui. Valentino parve dubbioso e confuso. Mi guardava fiso indagando con quel suo occhio che – purtroppo per lui — non conosceva la serietà. Poi disse anche il suo dubbio: Aveva visto l’Olivi alle sei di quello stesso pomeriggio ed ora si era alle otto. Non vedeva dunque dove io avessi potuto vedere l’Olivi e discutere con lui di un affare di simile importanza.

A me spiace molto di dire delle bugie e di esservi costretto era un nuovo motivo per me di rancore per il povero Valentino. E veramente vi ero costretto dal momento che avevo detto la prima bugia. Ma perché Valentino era tanto insistente: Piú tardi — quando morí — compresi e scusai. Egli era fatto cosí e non sapeva abbandonare un affare che quando l’aveva compreso a fondo ciò che domandava uno spazio di tempo non tanto piccolo perché egli pensava lentamente e con grande esattezza.

Gli spiegai che m’ero imbattuto nell’Olivi per caso sulla via e che in due parole fummo d’accordo. L’affare non aveva una grande importanza. Cortesemente gli dissi anche la meschina cifra di utile che avevamo raggiunta l’anno precedente. Dunque l’affare per me non aveva importanza ma non [p. 399 modifica]ne aveva neppure per l’Olivi ch’era tanto piú povero di me.

Fin qui avevo saputo domare la voce turbolenta che dall’imo delle mie viscere mi urlava: «Come sei buono, come sei buono!». Ma pare che attraverso alla mia bocca quel suono sia finito pure per coll’essere percepito dal povero Valentino. Aveva però abusato della mia bontà. S’era messo a provarmi che l’affare aveva una grande importanza perché poteva avvenire che un anno dell’esercizio desse per risultato una forte perdita e allora essa sarebbe stata resa piú sensibile dall’esborso del salario all’Olivi.

Ma che c’entrava questo? Perché tutt’ad un tratto, ora che aveva sentito che l’affare era stato concluso e per quanto non si credesse, citava gli argomenti che militavano contro la sua conclusione? Forse per intendere meglio l’affare? Io non so neppure come il mio suono d’impazienza e d’ira sia potuto essere stato percepito da lui perché io non dissi altre parole pacate: Conoscevo la mia ditta e i miei affari e perciò potevo escludere che ne derivasse una perdita trattati come erano da un uomo prudente come l’Olivi. Ma la mia impazienza irosa dovette trapelare chiara ed offensiva perché tutt’ad un tratto la faccia del povero Valentino di solito immobilizzata, assorta nell’attenzione intensa del buon impiegato, si agitò, si sbiancò ed egli andò deciso alla porta. Era tanto offeso che pareva volesse negligere ogni buona forma e uscire senza una parola. Alla soglia si fermò e con la voce malferma ad onta che fosse sempre appoggiata al naso, mi disse: «Già, è certo che io in cotesto affare non c’entro. Parlavo solo perché l’Olivi me ne aveva pregato, eppoi anche nel tuo interesse».

Io sempre sdraiato nella mia poltrona lo guardavo stupito cercando di trovare fra le parole che gli avevo detto quale avesse potuto ferirlo. Ma non la trovai anche perché egli mi confuse esagerando nelle buone forme e mi disse ancora che ci saremmo rivisti a cena per parlare di tutt’altre cose e mai piú di quell’affare. Mai piú? Non era un eccesso di dire cosí? Erano troppe le cose cui in un solo istante dovevo pensare e perciò la parola offensiva che doveva essermi uscita di bocca [p. 400 modifica]non la trovai piú. Doveva essere stato ferito piú dal suono che dal senso delle parole.

Poi seguirono delle ore di un affanno strano. Dovevo prima di tutto avvisare Augusta di non dire a Valentino ch’io da molte ore non m’ero mosso di casa perché egli altrimenti avrebbe saputo ch’io quella sera non avrei potuto aver visto l’Olivi. Ma come fare: Augusta si trovava certamente nel salone con Valentino ed Antonia. Poi io dovevo quella stessa sera trovare l’Olivi e subito mettermi d’accordo con lui prima ch’egli rivedesse Valentino. Cosí, in piena angoscia, pronto per uscire con indosso il cappello ed il cappotto d’inverno nella casa come al solito per volere di Augusta surriscaldata, rimasi per qualche minuto alla porta del mio studio irresoluto se correre nel salone a chiamare Augusta o andare al Tergesteo ove sapevo di poter ancora trovare l’Olivi che non si staccava dagli affari — in questo simile al padre suo — fino alle nove di sera.

In quella passò Renata la bambinaia di Umbertino. Poteva aiutarmi. La chiamai. Essa alzò i suoi occhi bruni stupita e un po’ spaventata perché era la prima volta che, lontana dal bambino, io le rivolgessi la parola, mentre io anche nella mia agitazione non sapevo non sorprendermi delle sue gambe lunghe ancora un po’ infantili coperte di sole calze di seta.

Fu un po’ difficile di spiegarmi. Volevo ch’ella facesse venire a me Augusta senza che gli altri apprendessero ch’ero io che la chiamavo.

Essa subito comprese. Aveva una voce come spezzata da un suono acuto sforzato ch’era aumentato dal riso che ora le interrompeva la parola. Passavano molte note nella sua voce. Propose: «La signora Augusta mi mandò di qui a cercare i suoi occhiali. Io li trovai e li ho qui ma le dirò che non seppi rintracciarli ed allora è sicuro ch’essa verrà a cercarli essa stessa».

Non ero ben convinto che proprio cosí le cose dovessero svolgersi ma nell’esitazione lasciai che Renata s’allontanasse. Quando capitò Augusta di corsa ammirai molto l’astuzia della piccola servetta. [p. 401 modifica]

Per fortuna Augusta non aveva ancora detto una parola che potesse compromettermi verso Valentino. Poi essa non fu affatto sorpresa della bugia che avevo detta; la intese e persino parve l’approvasse. Io credo di spiegare la cosa che ora mi pare abbastanza strana ricordando ch’essa proprio allora ce l’aveva col povero Valentino perché aveva trovato da dire col nostro figliuolo Alfio. Naturalmente poi essa fu d’accordo anche ch’io uscissi per trovare l’Olivi e prevenirlo che il contratto da lui proposto era stato accettato molto prima dell’intervento di Valentino e avrebbe detto a quest’ultimo ch’io adesso uscivo per eseguire una sua commissione. Solo cosí era possibile di farmi usare dell’automobile di cui l’uscita dal garage si sentiva nel quartiere.

Trovai l’Olivi al Tergesteo. Feci con lui una figura alquanto strana. Mi trovavo in uno stato di assoluta inferiorità con quel mio dipendente. Avevo fretta, non c’era tempo di pensarci e m’abbandonai senza ritegno alla mia passione: Quella di eliminare definitivamente da quell’affare mio genero.

Gli dissi ch’ero disposto ad accettare tutte le condizioni da lui domandate a patto mi facesse una concessione, una sola.

L’Olivi mi guardò esitante. Poi parlò anche, lentamente come faceva sempre quando trattava degli affari, col rispetto sciocco ch’egli ad essi portava come se potessero avere altra importanza che quella che derivava loro dal denaro che si voleva trarne, come se potessero essere scienza, arte, invenzione.

E cosí in quel momento in cui mi comportavo come un bimbo imbizzito a me parve di essere molto superiore all’Olivi il quale con tanta lentezza e solennità voleva dirmi delle parole che non m’importavano affatto e ch’io neppure volevo discutere.

Gravemente esordí dicendomi ch’egli, prima di presentarmi le sue condizioni le aveva ben studiate e che perciò egli non poteva concedere alcuna loro modificazione.

Io urlai impaziente: «Ma se non penso di proporre delle modificazioni. A me importa tutt’altra cosa». E gli spiegai quello che desideravo: Che Valentino non potesse credere che il nostro accordo fosse frutto del suo intervento. [p. 402 modifica]

L’Olivi non seppe celare un gesto di sorpresa. Mi conosceva da tanti anni, ma non gli parve di avermi mai visto tanto irragionevole. Mi scrutò per accertarsi che non scherzavo. A tale certezza non arrivò ma infine – che gl’importava? Se si arrivava alla conclusione dell’affare magari in seguito ad un mio accesso di pazzia non aspettava a lui di esitare. Mormorò riflettendo: «Sono stato io che incaricai il signor Valentino. Mi pareva fosse l’uomo piú adatto per tali trattative: È un vecchio amico mio ed è un suo figliuolo». E mormorò ancora: «Si può fare questo. Io ho visto Valentino alle sei e posso benissimo aver incontrato lei alle sette». Cosí si raccolgono le persone dal pensiero troppo lento: Parlando ad alta voce. E disse ancora una cosa stranissima: «Adesso che sento che Valentino non è suo figliuolo...».

Io protestai: «È il mio figliuolo ma non voglio avere l’aspetto di un uomo che si lascia dirigere dai proprii figliuoli».

Dissi subito risolutamente cosí ma il lapsus strano dell’Olivi mi rese pesante il cuore. Non stavo commettendo io un’azione meno delicata verso mio genero che non aveva mai mancato di ogni riguardo verso di me, e perciò anche verso mia figlia Antonia?

Questo dubbio m’accompagnò per lungo tempo e rese piú dura la mia posizione tanto disgraziata dopo di aver firmato quel contratto che mi privava di ogni attività e anche di non poco denaro. Talvolta per riacquistare la mia serenità me la presi col povero Valentino il cui intervento m’aveva costretto a dare il mio consenso al contratto con tanta precipitazione.

Al letto di morte di Valentino e mai prima il mio rimorso fu chiaro, evidente, tanto che mi sentivo molto infelice. L’Olivi aveva tenuto parola con la sua solita serietà e Valentino mai nulla aveva appreso del tiro che gli avevo giocato. Proprio per ciò con la solita debolezza di noi miscredenti che quando vediamo morire qualcuno crediamo che arrivati al di là apprendano tutto, avrei voluto confessarmi a lui e domandargli perdono di quel tiro e anche di qualche altro che gli avevo giocato come per esempio qualche parola contro di lui che avevo detto a sua moglie Antonia che però — a quanto [p. 403 modifica]pare — non ne aveva sentita l’influenza. Ma con lui non mi lasciarono mai solo. Egli aveva già l’udito molto duro ed io ero disposto a confessarmi ad uno che m’abbandonava definitivamente ma non dinanzi a tanti che rimanevano con me a deridermi o a rimproverarmi.

E devo dire — confessandomi qui — ch’io mai ebbi una grande simpatia per il povero Valentino. Credo non avrebbe potuto essere altrimenti perché egli era molto brutto con quel suo busto grasso e le gambe corte ed io credevo egli stesse peggiorando la mia razza. Ma perciò fuori che per rimorsi sopportabilissimi, io, al suo letto di morte, mi sentii abbastanza freddo e capace di osservare tutto con occhio sereno. Mi parve che tutti a lui d’intorno avessero maggior voglia di confessarsi che lui stesso che pure vi era esortato dalla moglie religiosissima. Ho paura che nelle stanze dei moribondi ciò si avveri frequentemente.

Augusta aveva preso parte al tiro giocato al povero Valentino e mai ne ebbe rimorso.

Quella sera, al mio ritorno, trovò il modo di restare un momento sola con me e mi domandò da vera complice: «Sei riuscito di parlare con l’Olivi e metterti d’accordo con lui?». E alla mia affermazione dette un sospiro di sollievo.

La notte seguente io la passai molto inquieto. Non sapevo neppur bene quali dei miei dubbi – ne avevo parecchi – si fosse convertito in incubo ma qualche cosa mi pesava orrendamente. Il contratto stesso? La condanna mia ad un’inerzia definitiva? Ma pensai: Se io in commercio posso valere qualche cosa finirò facilmente col trovare qualche occupazione che mi si confaccia. Neppure questa sicurezza mi diede la tranquillità.

Dopo un paio d’ore d’irrequietezza non ne potei piú e destai Augusta. Essa mi propinò un calmante. Primo effetto del calmante fu di farmi parlare: «È quel maledetto contratto che non mi lascia dormire eppoi ho paura che l’Olivi racconti a Valentino che il mio consenso mi fu strappato proprio dal suo intervento». Non dicevo esattamente il mio pensiero perché sono sicuro che già allora io sapevo che quel [p. 404 modifica]vuoto uomo pieno di serietà ch’era l’Olivi avrebbe tenuto la sua parola.

Augusta mi poteva essere di poco aiuto. Era tanto cieca quando si trattava di me, che credeva io fossi veramente tuttavia il padrone e suggerí che il giorno appresso dal notaio all’atto di firmare il contratto io mi vi rifiutassi visto che non mi piaceva piú. Essa non sapeva ch’io già conoscevo tutte le clausole del contratto di cui qualcuna abbastanza avviliente per me e che le avevo già accettate. Io dissi: «Se Valentino non si fosse intromesso certamente il contratto non sarebbe stato accettato cosí presto, ma cosí non è piú possibile di ritirarsi».

E dopo di aver detto quelle parole trovai un po’ di pace per quella notte. Avevo trovato il modo di attribuire a Valentino dei torti che compensavano i miei.

La firma del contratto fu dolorosa. Conoscevo tutte le clausole ma lette dal notaio mi parevano nuove. Una di esse, quella che stabiliva ch’io potevo intervenire nei miei affari con dei consigli ma che l’Olivi era libero di accettarli o rifiutarli.

Io firmai subito. Poteva esserci anche una clausola che mi condannava a morte perché dopo di quella clausola che mi proibiva di pensare neppure ai miei affari io non seguii piú la lettura del contratto. Pensavo invece all’odiosa azione che l’Olivi aveva commessa e con la quale aveva ferito tanto profondamente un povero vecchio come me. La lotta era finita. Perciò ora mi sentivo tanto debole e disarmato. Pensando alla mia debolezza e alla forza del mio avversario, mi pareva di aver ragione: Finalmente ero dalla parte della ragione, io povera vittima. E quel sentimento di essere una povera vittima innocente, che doveva accompagnarmi per tanto tempo e degenerare in malattia, nacque proprio lí, al momento di subire la lettura di quel contratto.

Poi volli correre via. Mi parve dovessi allontanarmi dall’Olivi per fortificare il mio pensiero nella solitudine e dedicarlo alla vendetta. Strana quella furia di allontanarsi dall’avversario per accingersi a punirlo. [p. 405 modifica]

Ma non ero preparato alla parola che volevo dirgli, non vi ero preparato affatto. Firmato il contratto e volendo allontanarmi immediatamente, con gesto istintivo porsi all’Olivi la mano come deve fare un gentiluomo quando si sente battuto al giuoco. Il gesto si fa anche quando si ha il sospetto di essere stato barato e non si sa darne la prova.

L’Olivi mi strinse la mano e disse: «Vedrà, signor Zeno. Ella non avrà mai da rimpiangere di aver firmato questo contratto. Appena ora io spero di riportare la sua ditta non all’antico lustro, perché gli affari non possono piú essere quelli, ma ad un’attività ordinata e regolare che le assicuri l’esistenza».

Le buone parole non mi placarono affatto. Che poteva importarmi un po’ piú o meno di rendita? Mi gettavano fuori dal mio ufficio dove ero stato tanto felice solo finché l’Austria m’aveva liberato dei due miei padroni, e volevano consolarmi. Era troppo.

Con voce strozzata dissi: «Certe clausole non appartenevano in quel contratto. No, davvero! Bisognava ricordare che si aveva da fare con un vecchio che per legge di natura presto avrebbe abbandonato i proprii affari. Quella clausola lí che appena appena mi concede di fiatare quando potrei desiderare che un affare sia fatto o che un altro non lo sia, dovrebb’essere cancellata».

Il notaio saltò su spaventato. A dire il vero io quel notaio non lo ricordo neppure perché non lo vidi. So che a quel posto tanto importante sedeva qualche cosa di molto giovine, biondo o rosso, vivace come nessuno pensa possa essere un notaio. Mi colpí l’oro dei suoi occhiali dai quali pendeva un cordoncino d’oro che per arrivare ad una buca del gilè passava dietro all’orecchio. Osservai quel cordoncino forse perché era una cosa tanto pedantescamente ordinata che mi parve l’unica cosa che in quell’uomo fosse veramente da notaio.

Alzò la voce: «Ma il contratto è già fatto e bollato. Non capisco come si possa pensare di alterarlo».

L’Olivi intervenne con voce molto seria e tanto serena che mi parve contenesse tutta la minaccia dell’uomo fortissimo, [p. 406 modifica]sicuro di sé. «I bolli non hanno importanza» disse. «È bensí vero che io le avevo dato tempo per rifletterci fino a ieri alle otto della mattina. Ma non importa. Io troverò sempre a mia disposizione i contraenti su cui contavo pronti a firmare con me questo stesso contratto. Se lei lo vuole, signor Zeno, stracciamo questo contratto. Io non ci tengo. Le ridò tutta la sua libertà. Ma però esigo di avere in confronto anch’io resa la libertà subito oggi. Da oggi io non rimetterò piú piede nel suo ufficio.»

Mi girò la testa. Stavo forzandomi di rassegnarmi di perdere l’ufficio. Ecco che da un momento all’altro mi veniva proposto di riaverlo intero con tutte le sue noie, le sue responsabilità, e tanta schiavitú. Come potevo da un momento all’altro ritrovarmi in tale nuova posizione: Non era possibile, questo intesi subito. E vedendo che l’Olivi, deciso, stava avvicinandosi al tavolo ove giaceva il contratto, forse per stracciarlo, urlai: «Il contratto è ormai firmato e tocca a lei, signor notaio, di difenderlo. Io non ho mai proposto di annullarlo».

E qui tentai di ridere per fermarmi e pensare ancora a quanto volevo dire. Trovai. Vittoriosamente urlai: «Io volevo soltanto provarle che lei non ha trattato come doveva con un vecchio. Si poteva ottenere la stessa cosa lasciando fuori alcune di quelle clausole. E non m’importa ora neppure che sieno cancellate. Una volta che ho saputo che lei quelle clausole pensava, il male era già fatto: Irrimediabilmente».

Brusco e sicuro l’Olivi disse: «Non si poteva fare altrimenti. Me lo creda, signor Zeno».

«E allora sta bene» dissi io. «E non parliamone piú.» M’accinsi ad uscire. Ma poi ritornai ancora una volta sui miei passi per stringere la mano al notaio ed anche un’altra volta all’Olivi. Che diavolo! Si era o non si era gentiluomini. Ma quando ebbi afferrata la mano dell’Olivi la lasciai subito cadere come se ne fossi stato scottato. Bisognava essere gentiluomini e perciò non si doveva simulare un’amicizia che non si sentiva.

Uscii presto perché pareva che l’Olivi avesse voglia di accompagnarmi. Volevo essere solo. Tante volte nella solitudine avevo saputo rimettermi, consolarmi, riacquistare la [p. 407 modifica]fiducia in me stesso quando ero soggiaciuto alla forza di qualcuno. Chissà! Riesaminata serenamente la mia posizione forse mi sarebbe apparsa meno brutta.

Fuori faceva un tempo sgradevole. Di tempo in tempo pioveva, lievemente pioveva. L’atmosfera fosca era pregna d’acqua. Che noia! Sbadigliai, passando con l’ombrello sempre chiuso per la grigia via. A quell’ora in ufficio doveva essere arrivata la posta. Esitai per un istante nel dubbio se non avessi dovuto andarci, per giungervi prima dell’Olivi e fare atto di padrone aprendo la posta. L’idea mi parve tanto originale che mi volsi per risalire la via. Ma poi mi ricredetti. Non avevo stabilito che poiché non mi si concedeva una paga io non avrei lavorato? E mi misi a correre nell’altra direzione per il timore che essendomi riavvicinato all’ufficio del notaio potevo imbattermi di nuovo nell’Olivi. E accelerando il passo pensai una cosa strana: “Dio mio! Ecco che già faccio qualche cosa”.

Come in quel momento amavo l’attività. Intanto l’attività che di solito m’incombeva in quell’ora. Com’era bello aprire la posta! Si levava dalla busta una carta e non si poteva prevedere quello che contenesse. L’aspettativa era una bella cosa seguita molto spesso dalla noia o dall’ira. È vero ch’io di solito, dopo dieci lettere, non ne potevo piú e lasciavo che l’Olivi facesse il resto. Ma ciò significava che avevo esaurito un piacere.

Sempre camminando verso il mare decisi di non dire subito ad Augusta ch’io non volevo rimettere il piede nel mio ufficio. Sarebbe equivalso a confessarle ch’io con quel contratto ero stato proprio gettato fuori del mio ufficio. I primi giorni avrei trovato qualche cosa da fare fuori di casa. Poi le avrei detto che non potevo piú sopportare la vista dell’Olivi e che perciò non avrei piú rimesso piede nel mio ufficio.

Intanto dovevo ripararmi dalla pioggia e m’avviai verso il Tergesteo. Ma poi m’imbattei in Cantari, un rappresentante di fabbriche germaniche di prodotti chimici. Mi dispiacque perché il Cantari talvolta vedeva Augusta e avrebbe potuto raccontarle che mi aveva visto fuori. Avrei voluto passare oltre dopo di averlo salutato ma egli mi fermò. Era stato in[p. 408 modifica]caricato dall’Olivi di comunicargli dei prezzi di prodotti chimici e voleva sapere se dicendoli a me poteva risparmiarsi la fatica di andare con quel tempo fino dall’Olivi.

Gli dissi che io non credevo che all’Olivi che stava tentando tutti gli articoli di questo mondo per rimpiazzare quelli di cui il commercio con il nuovo ordine di cose era escluso da Trieste, fosse possibile di lavorare in prodotti chimici. E feci un gesto di disprezzo che mi era tanto facile quando pensavo all’Olivi: Perciò io non volevo sentir parlare di prodotti chimici.

E allora il grosso uomo tanto apprezzato dall’Olivi perché non perdeva mai le carte né dimenticava di visitare i clienti o di dare loro le comunicazioni necessarie, insomma un uomo tutto ordine perché il suo mestiere non esigeva altro che tale qualità, armò il suo ombrello e, rassegnato, si avviò.

Ma io nel frattempo avevo cambiato d’intenzione. A che aggiungere a tanto mio abbattimento anche la confusione e lo sforzo, il dolore insomma, d’ingannare Augusta? E che importanza aveva il fatto che Augusta poteva sospettare ch’erano riusciti a gettarmi fuori del mio ufficio: Si poteva celarglielo parzialmente. Dirle intanto quella prima volta in cui mi vedeva ritornare a casa tanto di buon’ora che ciò avveniva in seguito ad un violento male di testa. M’era facile di simulare qualunque malattia quel giorno. Certo Augusta avrebbe finito con l’obbligarmi a prendere un purgante. Ma forse ne avevo bisogno dovendo digerire tanta di quella roba indigesta.

Quando fui nel mio studio dopo di aver dato qualche spiegazione ad Augusta in seguito alla quale ebbi la testa fasciata, mi domandai: “Che fare, ora?”. Forse avrei trovato qualche cosa da fare, qualche lettura o il grammofono. Avendo tanto tempo a disposizione avrei magari potuto prendere la grande risoluzione di ritornare al violino. Ma come occuparmi quando io tuttavia stavo litigando con l’Olivi? Io non gli avevo ancora dette tutte le insolenze che avrei potuto.

Molti giorni dopo la firma del contratto scopersi che se il vecchio Olivi non fosse morto io non avrei avuto da dover subire un simile affronto perché lui non l’avrebbe permesso. [p. 409 modifica]Questo sarebbe stato un rimprovero che avrebbe certamente addolorato il giovine Olivi che portava tanto rispetto alla memoria del padre. Potevo anche dirgli che se mio padre avesse saputo quale razza di gente sarebbe stata confezionata da quella loro prosapia, non m’avrebbe messo in mano loro.

E allora soltanto studiai il contratto di cui avevo una copia. Come era fatto con furberia diabolica! Ogni clausola era un’offesa per me. Se per mio volere la ditta avesse da essere sciolta ciò avrebbe implicato la mia perdita di mezzo capitale a vantaggio dell’Olivi.

Quella clausola mi bruciò tanto che non seppi rinunziare a cercare uno sfogo e credetti di trovarlo rimproverando a Valentino di aver collaborato alla firma del contratto. Credevo di poter fare quel rimprovero in piena coscienza perché io sapevo anzi che la causa della sua firma precipitosa era stato proprio lui. Ma egli si offese: Non mi andava ch’egli m’aveva proposto di discutere il contratto clausola per clausola e che quando l’aveva proposto aveva trovato ch’io già avevo accettato tutta la proposta dell’Olivi come se fosse stata una ed inscindibile. Proprio cosí egli disse.

Io tentai di non ricordare ma non fu possibile perché c’erano dei testimoni e dovetti ritirarmi sconfitto una volta di piú.

Ci fu un’altra cosa che per qualche giorno aggravò la mia posizione. Mio figlio Alfio, il pittore, ebbe per breve tempo dei dubbi sulla possibilità della sua strana pittura e si guardò d’attorno alla ricerca di un’altra occupazione. Fra altre cose pensò di dedicarsi al commercio, di mettersi in società con l’Olivi. Ma si trovò che nel contratto c’era una clausola che glielo proibiva. «In fondo» brontolò Alfio che non brilla per essere molto riguardoso «questa era un’eredità del nonno e non bisognava lasciarla toccare.»

Io allora passai qualche giorno a studiare quali concessioni avrei potuto offrire all’Olivi per ottenere il permesso per Alfio di collaborare nel suo ufficio. Pensavo di comperare tale permesso con una ingente somma di denaro. Ma intanto Alfio non ci pensava già piú ed era ritornato a sporcare con la sua tempera innumerevoli fogli di carta. Io tuttavia mi sen[p. 410 modifica]tivo suo debitore, ciò che mi rese anche piú riguardoso nelle mie già difficili relazioni con lui.

E un giorno ebbi l’avvilimento di apprendere che all’infuori del contratto, in opposizione a tutte le sue precauzioni, Valentino era riuscito ad ottenere una concessione importante dall’Olivi: Egli avrebbe passato ogni sera un’ora nell’ufficio a rivedere per conto mio le registrazioni confrontandole coi documenti originali.