Così parlò Zarathustra/Parte prima/Dell'albero sulla collina

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Dell’albero sulla collina

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Friedrich Nietzsche - Così parlò Zarathustra (1885)
Traduzione dal tedesco di Renato Giani (1915)
Dell’albero sulla collina
Parte prima - Del leggere e scrivere Parte prima - Dei predicatori della morte.
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Dell’albero sulla collina.

Zarathustra aveva scorto un giovane che cercava di schivarlo. E mentre una sera s’aggirava solitario sulle colline che circondavano la città la quale si chiama la Giovenca variopinta, trovò quel giovane seduto accosto ad un albero, che con occhio stanco guardava giù nella valle. Zarathustra, appoggiandosi all’albero alla cui ombra sedeva il giovane, parlò così:

«Se io volessi scuotere con le mie mani quest’albero non potrei.

Ma il vento, che noi non vediamo, lo muove e lo piega a suo piacere. Noi siamo scossi e piegati nel peggior dei modi da mani invisibili.

Allora il giovane s’alzò sgomentato e disse: «Io sento la voce di Zarathustra: ora per l’appunto pensavo a lui».

Zarathustra rispose: «E perchè ti sgomenti per questo? Succede dell’uomo quel che dell’albero.

Quanto più egli tende all’alto, alla luce, con tanto maggior forza le sue radici tendono verso la terra, in giù, nell’oscurità, nella profondità, nel male».

«Sì nel male!» esclamò il giovane. «Come è mai possibile che tu legga nella mia anima?». [p. 39 modifica]

Zarathustra sorrise e disse: «Molte anime non si potranno mai scoprire se prima non saran rivelate a sè stesse».

«Sì, nel male! — ripetè il giovane.

Tu dicesti la verità, o Zarathustra. Io non confido più neppur in me stesso dacchè aspiro ad elevarmi e nessuno ha più fiducia in me: come mai avviene ciò?

Io muto me stesso troppo presto: il mio Io oggi è in contraddizione con quello di ieri.

Io salto varii grandini alla volta nel salire, — e nessun gradino mi perdonerà ciò.

Quando ho raggiunto la sommità mi trovo sempre solo. Nessuno parla con me: il gelo della solitudine mi fa tremare. Che cosa cerco io lassù?

Il mio disprezzo e il mio desiderio crescono insieme; quanto più alto io salgo, tanto più spregio colui che sale. Che cosa va a cercare egli lassù?

Quanto mi vergogno di salire e d’incespicare! Come mi rido del mio ansioso anfanare! Come odio colui che vola! Come mi sento stanco sulle alture!».

Qui il giovane tacque. E Zarathustra contemplò l’albero, presso al quale se ne stavano; e parlò così:

«Quest’albero è solitario sul monte: egli crebbe molto alto sopra gli uomini e gli animali.

E se volesse parlare, nessuno lo comprenderebbe; tanto esso è eccelso.

E ora egli attende ed attende: — che cosa egli attende mai? Egli dimora troppo vicino al regno delle nubi: forse attende la prima folgore?».

Quando Zarathustra ebbe detto ciò, il giovane esclamò con voce violenta:

«Si, Zarathustra, tu dici il vero. Desiderai la mia distruzione, quando volli salire, e tu sei il fulmine che io attendeva!

«Vedi: che cosa sono io ormai, dopo che tu mi sei apparso? L’invidia di te m’ha distrutto!».

Così parlò il giovane; e pianse amaramente. Ma Zarathustra lo cinse del suo braccio e lo strasse seco.

E poi che ebbero camminato per un tratto, Zarathustra incominciò a parlare così: [p. 40 modifica]

«Ciò mi strazia il cuore. Meglio che non possano le tue parole, l’occhio tuo esprime tutto il tuo pericolo.

Ancor non sei libero: tu vai ancora in cerca della libertà.

Stanco delle veglie t’ha reso il tuo cercare, ed insonne.

Tu ti senti spinto verso le libere altezze; la tua anima ha sete delle stelle: ma anche i tuoi cattivi istinti sono assetati di libertà. I tuoi cani furiosi anelano d’esser liberi; abbaiano per la gioia nel loro canile, mentre il tuo spirito pensa a spalancare tutte le carceri.

Per me tu sei ancora un prigioniero che cerca il modo di rendersi libero: ahimè! in tali prigionieri l’anima si fa ingegnosa, ma anche perfida e falsa.

Deve ancora purificarsi chi già si ha saputo liberar nello spirito. Risente egli ancora molto del carcere e della muffa: il suo occhio deve diventar limpido. Sì, io conosco il tuo pericolo. Ma pel mio amore e per la mia speranza ti scongiuro: non far getto del tuo amore e della tua speranza!

Tu ti senti ancor nobile; ed anche gli altri sentono che sei tale: quelli che ti sono nemici e ti guardano torvi. Sappi che l’uomo nobile riesce d’impedimento a tutti.

Anche ai buoni l’uomo nobile è d’impedimento; ed anche proclamandolo buono essi vogliono cacciarlo da loro.

L’uomo nobile vuole crear cose nuove ed una nuova virtù. Ma il buono ama l’antico e vuole che l’antico sia conservato.

Pure, il pericolo che corre un uom nobile non è già quello di diventar buono, bensì di farsi insolente, schernitore, distruttore.

Ahimè, assai nobili uomini io conobbi, che perdettero le loro più sublimi speranze. E allora presero a calunniare tutte le sublimi speranze.

Allora presero a vivere insolenti tra brevi orgie, e di rado seppero fissarsi una meta di là dalla giornata.

Anche lo spirito è voluttà — dicevano essi. Ed allora spezzavano le ali dello spirito: sì che questo striscia ora al suolo e insozza chi lo tocchi.

Una volta credevano diventare eroi: ora son dei viziosi. Vedono di mal occhio e temono l’eroe. [p. 41 modifica]

Ma pel mio amore e per la mia speranza ti scongiuro: non far getto dell’eroe ch’è in te! Tieni sempre sacra la tua più sublime speranza!».

Così parlò Zarathustra.