Così parlò Zarathustra/Parte terza/Il convalescente

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Il convalescente

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Friedrich Nietzsche - Così parlò Zarathustra (1885)
Traduzione dal tedesco di Renato Giani (1915)
Il convalescente
Parte terza - Delle tavole antiche e delle nuove Parte terza - Della grande brama
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Il convalescente.


1.

Un mattino, poco dopo il suo ritorno nella caverna, Zarathustra si levò gridando con voce terribile, gesticolando furiosamente, come se sul suo giaciglio si trovasse qualcuno che non volesse levarsene. E così forte suonava la voce di Zarathustra, che i suoi animali corsero a lui impauriti, e da tutte le caverne e da tutti i nascondigli, posti nei pressi della caverna di Zarathustra, uscirono fuggendo gli uni a volo, gli altri saltellando, strisciando o balzando secondo la natura dei loro piedi e delle ali. Ma Zarathustra pronunciò queste parole:

«Assorgi a me, o pensiero d’abisso, dalle tue profondità! Io sono il tuo gallo e la tua alba: o verme addormentato, su, su! Il mio canto deve ridestarti! [p. 208 modifica]

Spezza i nodi, che inceppano i tuoi orecchi! Obbedisci! Giacchè io voglio udirti! Su, su! Così forte è qui il tuono che lo debbono intendere anche i sepolcri!

E scaccia da te il sonno, e ogni cosa àtona od oscura! Ascoltami anche con gli occhi: la mia voce è un rimedio anche per i ciechi nati.

E quando sarai desto, dovrai tale restare eternamente. Non è mio costume risvegliar dal sonno la gente, per imporle poi di continuar a dormire!

Tu non ti muovi; tu ti distendi e russi? Su, su! Non russare — tu devi parlare! Zarathustra ti chiama, l’empio!

Io, Zarathustra, l’assertore della vita, lo zelator del dolore, il patrocinatore dell’eterno ritorno — te io chiamo, il più profondo dei miei pensieri!

Salute a me! Tu vieni: — ti sento! Il mio abisso parla, l’ultima mia profondità è da me costretta di salire alla luce!

Salute a me! Vieni qui! Dammi la mano... ah, basta! ah, ah... schifo, schifo, schifo... guai a me!

2.

Pronunciate queste parole, Zarathustra cadde a terra come corpo morto, e così giacque gran tempo.

E quando riebbe i sensi, tutto pallido e tremante, ancora stette in quell’attitudine a lungo, e non volle mangiare nè bere. Ciò durò sette giorni; ma i suoi animali gli rimasero da presso dì e notte: solo, di quando in quando, l’aquila s’involava in cerca del cibo.

E tutto ciò che le veniva fatto di trovare, esso lo deponeva sul giaciglio di Zarathustra: sicchè egli fu come sepolto sotto le bacche gialle e rosse, e i grappoli, e le mele rosate, e le erbe odorose e le pigne. E ai suoi piedi giacevano due agnelli, che l’aquila a fatica aveva rapito ai pastori.

Finalmente, dopo sette giorni, Zarathustra si sollevò dal suo giaciglio; prese in mano una mela rosata, la odorò, e gioì della grata fragranza. Allora i suoi animali credettero venuto il tempo di parlargli. [p. 209 modifica]

— O Zarathustra, dissero, tu giaci così da sette giorni, con gli occhi pesanti.

Levati, esci dalla tua caverna: come un giardino, la terra ti attende. Il vento gioca con gli effluvi, che ricercano di te: e tutti i ruscelli vorrebbero seguirti.

Tutte le cose han desiderio di te, poi che per sette giorni rimanesti solo. Esci dalla tua caverna! Tutte le cose anelano di confortarti e guarirti.

Forse una nuova conoscenza t’è sopraggiunta, una nuova e grave cura? Tu eri simile a una pasta che fermenta; la tua anima si gonfiava e traboccava oltre gli orli.

— O miei animali, rispose Zarathustra, chiacchierate ancora e lasciate ch’io v’ascolti! Mi è dolce sentirvi parlare: quando parlate, il mondo m’appar subito come un giardino.

È bene che esistano le parole ed i suoni: non son forse le une e gli altri arcobaleni e ponti che congiungono ciò che da eterno tempo è diviso?

Ad ogni anima occorre un mondo nuovo; per ogni anima un’altr’anima è un retro-mondo.

Tra ciò che più s’assomiglia, la somiglianza inventa le più belle menzogne: giacché quanto più piccolo è l’abisso tanto più difficile è varcarlo.

Per me — come potrebbe esistere qualche cosa «al di fuori di me?». Nessuna cosa ci è estranea! Ma i suoni inducono in noi l’oblio; quanto è caro il dimenticare!

Non si son forse dati nomi e suoni alle cose perchè l’uomo si obliasse in esse? È una divina follia la parola: con essa l’uomo saltella oltre le cose.

Quanto è graziosa la favella: la menzogna dei suoni! Mercè i suoni il nostro amore danza sa variopinti arcobaleni.

O Zarathustra — dissero allora gli animali — a coloro che pensano come noi le cose danzano di per sè; tutto ciò che viene si porge la mano, ride e fugge — per ritornare.

Tutto dilegua, tutto ritorna eternamente gira la ruota della esistenza. Tutto muore, tutto risorge; eternamente scorre l’anno dell’esistenza. [p. 210 modifica]

Tutto si spezza, tutto si ricongiunge; eternamente s’edifica la stessa casa dell’esistenza. Tutto si separa e tutto si risaluta; sempre fedele a sè stesso è l’anello dell’esistenza.

Ad ogni attimo l’esistenza ricomincia; intorno ad ogni «qui» si gira la palla «là». Il centro è in ogni dove. Tortuoso è il sentiero dell’eternità!

— O buffoni e organetti! — rispose Zarathustra, sorridendo un’altra volta — voi sapete egregiamente ciò che dev’essere compiuto in sette giorni!

— E come quel mostro entrò nella mia strozza per soffocarmi! Ma io gli staccai coi denti la testa e la gettai lontano da me.

E voi, — voi avete già fatta intorno a ciò una canzone che corre le vie? Ma ora io giaccio qui, ancora stanco del mordere e del rigettare, ancor ammalato della mia propria redenzione.

E voi assistete come spettatori a tutto ciò? O miei animali, siete voi anche crudeli? Voi avete voluto assistere al mio grande dolore, come usano fare gli uomini?

Giacchè l’uomo è il più crudele degli animali.

Non mai egli si sente così lieto, come quando assiste a una tragedia, ai combattimenti dei tori, alle crocifissioni; e quando inventò l’inferno gli parve di sentire il paradiso in terra.

Quando il dolore strappa grida e lamenti all’uomo grande, il piccolo accorre ratto come il baleno e la lingua gli penzola fuor della bocca per la voluttà. Ma egli chiama ciò la sua «compassione».

Quanto è zelante l’uomo piccolo, segnatamente il poeta, nello accusar la vita con le parole! Ascoltatelo pure, ma non vi sfugga il piacere ch’egli prova nell’accusare!

Questi accusatori della vita, la vita li soggioca con un ammiccar d’occhio. «Tu mi ami?», chiede l’insolente: «attendi ancora un poco, ora non ho tempo per te».

L’uomo è contro sè stesso il più crudele degli animali; in ogni peccatore, in ogni «penitente», è visibile il piacere del lamentarsi e dell’accusare.

E io stesso — voglio forse con ciò accusare l’uomo? Ah, miei animali, questo soltanto ho imparato sinora: che all’uomo le [p. 211 modifica]cose peggiori son necessarie pel suo meglio, perchè esse rappresentano la sua forza, e gli insegnano che egli deve diventar miglior e più malvagio!

Non fui già inchiodato a questa croce del martirio per aver saputo che l’uomo è cattivo, — bensì per aver gridato, come nessuno gridò finora: «Ah, perchè la sua malvagità è così piccola? Ah, perchè ciò che è in lui migliore è così piccola cosa?».

Il fastidio dell’uomo — questo mi soffocava e m’era entrato nella gola: la predizione dell’indovino che «tutto è uguale, e che nessuna cosa merita che l’uomo se ne curi».

Un lungo crepuscolo camminava zoppicando dinanzi a me: una tristezza strana sino alla morte ed ebbra di morte, la quale mi parlava con la bocca aperta agli sbadigli.

«Eternamente ritorna l’uomo, del quale tu sei stanco, l’uomo piccolo», — così sbadigliava la mia tristezza, trascinando il piede e senza potersi addormentare.

In nuda caverna per me si trasformò la terra degli uomini: il suo seno per me s’abbiosciò: le cose viventi divennero per me umana putredine e fracido passato.

Il mio sospiro s’accasciò su tutti i sepolcri umani e non seppe più risorgere; il mio gemito era simile a un uccello di malaugurio e si rodeva e si lamentava giorno e notte.

— Ahimè, l’uomo eternamente ritorna! L’uomo più vile ritorna eternamente!

Nudi li vidi un giorno entrambi, l’uomo grande ed il piccolo: troppo somigliava l’uno all’altro: — troppo umano trovai anche il grande! E troppo piccolo.

— Da ciò mi venne il disprezzo! — Per ciò mi fu in fastidio tutta la vita!

Ah schifo, schifo! — così proseguì Zarathustra sospirando e rabbrividendo: — poi che si ricordava della sua malattia. Ma i suoi animali non lo lasciarono parlare più oltre.

«Non parlar più, o convalescente! — supplicarono — ma esci: il mondo ti aspetta come un giardino.

Esci a ritrovar le rose e le colombe! Esci a ritrovar gli uccelli canori, che ti apprendano il canto! [p. 212 modifica]

Poi che il cantare si conviene ai convalescenti; il parlare a chi è sano. E quando l’uomo sano vuol cantare le sue canzoni, non intona già quelle del convalescente».

— «O buffoni e organetti, tacete al fine! — rispose Zarathustra ai suoi animali. — Come conoscete il conforto ch’io per me ritrovai in sette giorni!

Che io debba un’altra volta cantare: ecco il conforto ch’io inventai per me stesso: la mia convalescenza. Farete anche di ciò una canzone da cantarsi per le strade?».

— «Non continuar a parlare», soggiunsero gli animali, «ma prima componi, o convalescente, la tua lira: una nuova lira!

Giacchè, o Zarathustra, le tue canzoni abbisognano d’una lira nuova.

Canti e trabocchi sana con nuove canzoni l’anima tua, perchè tu possa sopportare il tuo grande destino, che non fu ancora il fato d’alcun uomo!

Poi che i tuoi animali sanno bene chi tu sei e chi tu devi diventare; tu sei il maestro del ritorno eterno! questa è ormai la tua sorte.

Che tu debba pel primo insegnare questa dottrina, ecco la tua sorte: come essa non sarebbe anche il tuo più grande pericolo e la tua malattia?

— Vedi, noi sappiamo quello che tu insegni: che tutte le cose eternamente ritornano e noi con esse, e che noi già fummo mille volte, e tutte le cose con noi.

Tu insegni che esiste un grande anno del divenire, un anno fuor d'ogni limite grande, il quale, simile ad una clessidra, deve capovolgersi sempre, per poter scorrere ed esaurirsi.

— Sicchè tutti questi anni sono uguali tra loro, nelle cose più grandi e nelle più piccole, — e se tu volessi morire, o Zarathustra, vedi, noi sappiamo anche come tu parleresti a te stesso; ma i tuoi animali ti pregano di non morire ancora!

Tu parleresti, senza tremare, ma esultante invece e beato; giacchè morendo sarebbe tolto da te un grave peso, o paziente tra i pazienti!

«Ora muoio e dileguo, tu diresti: in un attimo ridivenuto il nulla. Le anime sono mortali al pari dei corpi. [p. 213 modifica]

Ma l’intreccio delle cause, in cui io sono avvolto, ritorna sempre, — e quello mi creerà un’altra volta! Io stesso son parte delle cause che producono l’eterno ritorno.

Io tornerò con questo sole, con questa terra, con quest’aquila e con questo serpente — ma non già ad una nuova vita o ad una vita migliore o ad una vita simile a questa!

— Bensì ritornerò sempre ed eternamente a questa ugual vita, a questa vita medesima, a tutto ciò ch’essa ha di più grande e di più piccolo, per insegnare di nuovo l’eterno ritorno di tutte le cose — per pronunciare un’altra volta la parola del grande meriggio della terra e dell’uomo, per annunziar tuttavia all’uomo il superuomo.

Io espressi la mia parola, e la mia parola mi spezza! questo vuole il mio eterno destino — io perisco quale annunziatore!

È giunta l’ora in cui quegli che tramonta benedice a sè stesso; così finisce il tramonto di Zarathustra».

Poi che gli animali ebbero dette queste parole, tacquero aspettando che Zarathustra rispondesse loro qualche cosa; ma Zarathustra non si avvide del loro silenzio. Egli giaceva immobile, con gli occhi chiusi, simile a chi dorme; pure ei non dormiva, giacchè parlava con la sua anima. Ma l’aquila e il serpente, vistolo immobile così, rispettarono il silenzio e s’allontanarono cautamente.