Cristoforo Colombo (de Lorgues)/Libro I/Capitolo II

Da Wikisource.
Capitolo II

../Capitolo I ../Capitolo III IncludiIntestazione 19 novembre 2018 75% Da definire

Libro I - Capitolo I Libro I - Capitolo III

[p. 77 modifica]

CAPITOLO SECONDO

Progressi marittimi del Portogallo sotto l’Infante Don Enrico: — soggiorno di Colombo a Lisbona: — suo matrimonio colla figlia di un navigatore: — suoi viaggi alle Canarie, alle Azzore, alla costa d’Africa. — Egli comunica il suo disegno al dotto fiorentino Paolo Toscanelli: — sue proposizioni di scoperta a Genova, a Venezia, al Portogallo. — Tentativo della corte di Lisbona contro il disegno di Colombo. — Offerte del Re; — nobile rifiuto di Colombo: — sua fuga segreta: — suo arrivo a Genova: — egli ripete indarno la sua proposizione al Senato: — sua partenza per la Spagna.

§ I.

Già da quasi un mezzo secolo il Portogallo, troppo alle strette ne’ suoi confini territoriali, cercava un accrescimento in mare: diffatti aveva allargato il suo dominio su diverse isole discoste dalle rive conosciute, internate nell’Oceano. Questo ingrandimento non era il premio degli sforzi di varii re successivi, sibbene della volontà di un solo principe, che nato accosto al trono senza aspirarvi, ambiva unicamente di servire Dio e la sua patria.

Un Filosofo francese avvertì con molta esattezza che tutti i gran navigatori furono cristiani. Il Principe che diede il primo grande impulso alla navigazione sull’Oceano, era fervente cattolico.

Figlio del re Giovanni I, l’infante Don Enrico, duca di Viseo, gran mastro dell’Ordine di Cristo, bramava procacciare a’ suoi cavalieri gloria in questo mondo, ed eterna felicità nell’altro: giovanissimo ancora, egli si era segnalato centra i Mori in Africa, sulle mura di Ceuta: in appresso giudicò essere molto meglio convertire che distruggere. Non ostante la sua qualità di gran mastro di un Ordine fondato per combattere i Musulmani, nemici della legge di Gesù Cristo, egli reputò suo dovere sottometterli alla dolcezza di questo giogo piuttostochè accrescere gli Stati dei re suoi antenati: divisava portare il Vangelo fra’ Maomettani e gli Idolatri che popolavano le rive mal conosciute dell’Africa occidentale. [p. 78 modifica]

Sendosi don Enrico ritratto lungi dal frastuono della Corte negli Algarvi, in fondo alla baia detta del Capo Sacro e volgarmente Sagres, sopra un’altura pittoresca, donde la vista domina un vasto tratto di mare, edificò quivi un palagio appropriato allo studio della cosmografia. Nella pace della ritiratezza quell’alto intelletto s’internò nelle matematiche e nell’astronomia: compose una biblioteca nautica, si procurò le copie de’ viaggi di cui correva miglior fama, fece tradurre manoscritti arabi, attirò a sè gli sperti nelle cose di mare, mutò la sua dimora in una scuola di marineria, fondatovi un consiglio d’idrografìa, che fece presiedere da un cosmografo, allora rinomatissimo per le sue carte, i suoi perfezionamenti della bussola, e per l’uso da lui messo di recente in voga dell’astrolabio; il celebre majorchino mastro Giacomo, più comunemente chiamato Giacomo di Majorca: la munificenza del Principe lo aveva determinato ad abbandonare l’isola natale per istabilirsi vicino a lui. Fino allora i navigatori si erano contentati di tener dietro alle coste, e segnarvi punti di riconoscimento; quando si avventurarono a perderle di vista conobbero a quali errori i fenomeni di mare inducono ogni ventiquattr’ore: don Enrico cercò rimedi a questa manifesta imperfezione: il suo proselitismo generoso gli fece intraprendere a sue spese alcune spedizioni di scoperte. Il gran Mastro dell’Ordine di Cristo aveva assunte per impresa queste parole talent de bien faire che furono vedute scolpite in tutti i paesi stati scoperti sotto i suoi auspici.

Nell’anno 1419 per ben due volte don Enrico mandò navi a riconoscere e valicare il capo Non, cui nessun navigatore aveva osato oltrepassare, e che si reputava l’ultimo confine delle terre abitabili. Il capo Non! questo nome indicava abbastanza chiaro che segnava un termine fatale. Dietro i suoi scogli, eternaniente bianchi per lo spumeggiare delle onde, si distendeva l’ignoto attorniato da spavento. Il seguente anno il Principe mandava Joam Gonzales, Zarco e Nuno Fristan Vaz ad esplorare la costa africana al di là del capo Non: ma una procella li cacciò vers’occidente sopra un’isola che chiamarono Porto Santo; e un’altra (Madera), fu in breve scoperta. Tre anni dopo, il formidabil capo Boiador, venne scoperto e oltrepassato; [p. 79 modifica]i Portoghesi procedevano affrettati innanzi sulla costa occidentale dell’Africa.

Le buone accoglienze del Principe ad ogni uomo valente nella navigazione, attirava a Sagres piloti rinomati da diversi paesi. Il veneziano Luigi di Cadamosto, il genovese Antonio di Nole entrarono al suo servizio. Allora gli ardimentosi capitani Gonzalo de Cintra, Fernandes Dionisio rivaleggiarono di zelo. In breve fu riconosciuto il Capo a cui Luigi di Cadamosto e Antonio di Nole diedero il grazioso nome di Verde, nome che non gli si affà punto, come avanti ogni altro avvertì Colombo: di là procedettero sino al capo Rosso.

Nondimeno scovrir nuove terre, ed aumentare la dominazion portoghese non erano i soli oggetti della perseveranza del Principe: al gran Mastro dell’Ordine del Cristo stava sinceramente a cuore la propagazione del Vangelo. Sin dal 1445 egli aveva mandato al Rio d’Oro a fondare un istituto sotto la protezione di una fortezza, affine di comunicare coll’interno del paese, e dar opera alla conversione degli indigeni. L’infante don Enrico mandò a papa Martino V Fernando Lopez d’Azevedo per esporgli lo scopo degli sforzi del suo Signore, e chiamare sopra di lui le benedizioni della Chiesa: d’Azevedo rappresentò a Sua Santità «che il principale scopo che il Principe si proponeva conseguire era la gloria di Dio, la dilatazione della fede».

La Santa Sede incoraggiava queste scoperte, il cui doppio scopo era l’ampliazione della scienza geografica e la propagazione del Cristianesimo. Per dare al proselitismo del Principe un pegno della sua benevolenza, il Santo Padre attribuì un diritto di primato alla corona di Portogallo su tutte le contrade barbare che scoprirebbe, dal capo di Boiadar alle Indie Orientali; e in quella che minacciava de’ fulmini della Chiesa chiunque osasse attraversare siffatte benefiche spedizioni, il Sommo Pontefice concedeva l’indulgenza plenaria a chiunque, facendone parte, periva nell’adempimento del suo dovere. Mentre la Metropoli del mondo cristiano applaudiva a questi generosi intenti, le città marittime dell’Italia, e le repubbliche del littorale se ne preoccupavano in altro modo, sotto il punto di vista, cioè, [p. 80 modifica]dei loro interessi minacciati. Correa voce fra le genti di mare che l’infante don Enrico meditava eseguire colle sue caravelle, il giro intero dell’Africa sino al Mar Rosso ed al Golfo Persico; da che sarebbe conseguito che i Genovesi, e più particolarmente i Veneziani, i quali avevano il monopolio del trasporto e del transito delle produzioni dell’Oriente, avrebbero soggiaciuto alla perdita di così vantaggiosa industria. I piloti della Liguria e dell’Adriatico, stabiliti a Lisbona, non tralasciavano di trasmettere alle loro famiglie le notizie dell’Africa che si andavano spargendo lungo il Tago.

La morte del principe Enrico allentò l’impulso che il suo genio dava alle scoperte: nondimeno Lisbona era tuttavia la città de’ progressi marittimi: a Lisbona stanziavano i più valenti costruttori di navi; a Lisbona si vendevano i più corretti planisferi, e le migliori opere di astronomia; a Lisbona si facevano i migliori mappamondi, le più esatte carte marine; Lisbona era la città ove più abbondavano i piloti. Il nome di piloto indicava allora ogni ufficiale di mare che non avesse il comando supremo di una nave; lo si applicava ben anco ai secondi capitani nella marineria militare: i luogotenenti di nave erano tutti chiamati piloti. Un gran numero di marinai che la munificenza del priniipe matematico aveva attirati a Lisbona, vi continuavano la loro dimora, non ostante la perdita del loro protettore.

Non deve, adunque, recare sorpresa che il piloto Bartolomeo Colombo, fratello di Cristoforo, vi avesse, quantunque tardi fermata la stanza, affine di cavare profitto del suo ingegno e del suo sapere ch’era notorio e lodato in geografia. Suo nipote, don Fernando Colombo, cui soverchia modestia recò sempre a scemare il merito de’ suoi, quantunque dica che non avea molte lettere, è nondimeno costretto a riconoscere la sua alta ragione e la sua valentìa per la composizione delle sfere. Uno de’ suoi contemporanei, segretario del Senato di Genova, Antonio Gallo, parla del suo stabilirsi a Lisbona, e della sua abilità nel disegnare carte per uso de’ navigatori. Un altro de’ suoi contemporanei. Agostino Giustiniani, testifica questa superiorità, anzi pretende che Cristoforo Colombo imparò da lui a far mappamondi. Munoz dice che egli era giudizioso, di sperienza [p. 81 modifica]grandissima nella navigazione, e valente in far carte e strumenti per l’arte nautica. Altri fatti, che riferiremo ai loro luoghi, giustificano del resto questa opinione.

Intanto che, in aspettazione di meglio, Bartolomeo Colombo cavava profitto del suo ingegno per la geografia, con lavori che allora fruttavano assai, tennesi a gran ventura accogliere in sua casa il fratello naufrago, pel quale aveva una tenerezza mescolata di deferenza: fece ogni sforzo di trattenerlo. Epperò questa ospitalità non gli riuscì grave: Cristoforo era valente calligrafo, e, come la penna, trattava abilmente la matita e il pennello, faceva altresì carte e piani; si occupava a copiar manoscritti, e trascrivere libri rari, perchè, non ostante l’invenzione della stampa, la tipografia in Portogallo giacev’ancora nello stato d’infanzia; gli operai compositori erano difficili a trovarsi, sicchè i libri si sostenevano a prezzi alti: e siccome il suo amore della geografia, e la sua inclinazione allo studio gli avevano rese familiari le opere meglio apprezzate dai lettori del porto di Lisbona, così le comprava per rivenderle, e faceva anche un piccolo commercio di libri. Con questo modo, non solamente provvedeva a’ suoi propri bisogni, ma colla sua economia e colle privazioni che s’imponeva, la sua filiale tenerezza poteva recare qualche alleviamento alla vecchiaia poco fortunata del padre. Lo storico delle Indie, Gonzalo Fernandez de Oviedo, suo nemico, gli rende questa testimonianza, che a Lisbona, e per tutto ovunque fosse, ebbe sempre cura di provvedere ai bisogni di suo padre, non ostante lo stentato e il manchevole della sua propria condizione. L’aspetto gradevole di Cristoforo Colombo gli aveva agevolato dimestichezza con uomini di mare ed attirata buon’accoglienza da negozianti genovesi stabiliti a Lisbona. Egli non dimenticò mai la cortesia de’ suoi compatriotti Antonio Vazo e Luigi Centurione Escoto; ricordò i buoni uffici di Paolo di Negro, del paro che le cure amiche di Nicola Espindola; e ricambiò coll’immortalità la loro benevolenza, trasmettendoci i nomi oscuri di quegli stimabili mercatanti.

Fra’ contemporanei di Colombo, tre scrittori spezialmente ci hanno lasciato della sua persona descrizioni, secondo le quali possiamo formarcene un’idea approssimativa; e sono [p. 82 modifica]primieramente il suo secondogenito, don Fernando Colombo, diventato suo biografo; indi l’arcicronografo imperiale Oviedo, a cui le funzioni di paggio dell’infante don Giovanni permisero vederlo spesse volte; e, per ultimo, il celebre Bartolomeo Las Casas, che aveva da lui ricevuto particolari cortesie. Ciascuno di questi storici, nessuno de’ quali ha copiato gli altri, descrive alla sua maniera il grand’Uomo. I succinti particolari da lor riferiti s’integrano con altre testimonianze che hanno anch’esse la loro importanza: una fra le altre è quella del milanese Girolamo Benzoni, il quale visitò il nuovo Mondo mentre viveva quivi ancora la memoria del suo di scopritore, e potè intrattenersi con molte persone che avevano servito sotto i suoi ordini. Gli storici in perfetto accordo sulla fisonomia di Colombo, sulla forma de’ suoi lineamenti, sul colore degli occhi, sui capelli e il colorito del volto, diversificano alquanto intorno la sua statura. Nondimeno, notizie precise devono rimuovere il dubbio anche più leggero. Cristoforo Colombo era di statura alta, questo è certo: è noto, d’altronde, che l’intrepido Bartolomeo Colombo, dotato di atletiche forme, e per conseguenza di corrispondente statura, era men alto del fratello: Las Casas che li conosceva ambedue, lo afferma positivamente.

Dal suo soggiorno di Lisbona in avanti, salvo brevi lacune i principali avvenimenti della vita di Cristoforo Colombo si svolgono in un ordine non interrotto, e si presentano accessibili alle più minute investigazioni: qui, propriamente parlando, comincia la sua storia.

Il primo fatto che lo risguarda, dopo presa terra quasi miracolosamente in Portogallo, si riferisce alle sue abitudini religiose: alla sua assiduità edificante in chiesa andò debitore dell’avvenimento che gli consentì di sviluppare il suo genio, di confermarsi nella sua vocazione, di stringere consuetudine coi dotti e coi grandi della terra.


§ II.


Giunto al suo trentesimoterzo anno Cristoforo aveva tocco l’apice del suo vigore fisico e della sua perfezione morale. La sua statura elevata ritraeva dalla sua gagliarda complessione [p. 83 modifica]una maschia eleganza, che aggiungeva pregio alla fermezza del suo contegno naturalmente assortito al suo carattere. Il suo volto oblungo presentava una bella ovale. La nobile ampiezza del fronte rivelava quella del pensiero. Un’augusta meditazione pareva posare sull’arco delle sopracciglia, e tanto o quanto corrugarle. Ne’ suoi occhi, di un azzurro chiaro raggiava una limpida serenità. La curva del naso aquilino terminava con nari che si aprivano un po’ larghe alla base. Gli angoli risentiti della bocca davan segno di squisita introspicienza. A dinotare bontà, il labbro inferiore sporgeva un po’ più dell’altro. Aveva il mento graziosamente incavato da una fossetta. Le gote, animate da vivo colorito, andavano disseminate da macchie rosse. Sotto l’incessante elaborazione di un pensier unico, in capo a tre anni i suoi capelli, ch’erano di un biondo traente al castano, cominciavano ad incanutire.

Questa gradazione di tinte e questi contrasti imprimevano alla sua verde virilità il suggello di una maturità precoce. I movimenti del capo in armonia colle attitudini, rispondenti sì bene alla statura, formavano fra il suo corpo e la sua anima una perfetta unità. Nel portamento, nei gesti, nel fare mostrava una dignità innata, di cui non si accorgeva. Non ostante la incertezza del domani, la condizion precaria e la modestia delle vesti, la sua presenza non avrebbe saputo durare inosservata.

Le facoltà intellettuali corrispondevano in lui a queste nobili forme. A rara finezza di udito accoppiava sicuro sguardo che accostava gli oggetti lontani. Somma delicatezza di gusto gli permetteva fare certe distinzioni negate all’uomo volgare. Anco maggiore era in lui la sottigliezza dell’odorato, mercè cui di botto sapeva discernere e giudicare le diverse combinazioni di odori. L’esercizio precoce di questi sensi ne aveva sviluppata la potenza percettiva. Vivo amore della Natura lo recava incessantemente alla contemplazione durante il giorno, ed all’osservazion degli astri nelle notti serene. Navigando presso le coste, aspirava deliziato i profumi balsamici della riva; e in alto mare aspirava, sorbiva curiosamente i venticelli impregnati di emanazioni, ora soavi e dolci, ora salate ed amare. Ammirava con tenerezza le opere del Creatore, cercava avidamente i fiori, gli [p. 84 modifica]uccelli, le produzioni del mare, e sopratutto, saporava le fragranze della vegetazione.

Semplicemente vestito, Colombo non conosceva altro lusso che la pulitezza, e l’aveva squisita. Alla più accurata mondezza del corpo, allo studio che non vi fossero macchie, rotture o sconci ne’ suoi abiti, che sapeva far durare lungamente, egli procacciava di appaiare il candore e la finezza delle biancherie, sempre olezzanti di rose, di acacie o fiori d’arancio che lasciava seccare in mezzo a’ panni nel suo forziere di marinaro. L’attrattiva de’ profumi naturali non venne mai meno in lui: amava i fiori odorosi, le piante aromatiche, le gomme balsamiche. La sua povera camera, adorna unicamente di alcune curiosità di storia naturale, delle sue carte e de’ suoi manoscritti, era impregnata di aromi: amava altresì di profumare i suoi guanti e sopratutto la sua carta da lettere.

Il suo fino discernimento d’ogni convenienza, la sua maniera di essere e di mostrarsi dinotavano incontanente in lui il perfetto gentiluomo. Bastava il suo volto a chiarire la nobiltà del suo spirito, e una cert’aria di autorità che sorprendeva.

Quantunque sin dall’età di quattordici anni Cristoforo Colombo fosse stato sempre in mare, o soggiornato avesse ne’ porti co’ marinai, egli non aveva alcuno dei loro difetti ordinari: detestava le bestemmie, le canzoni disoneste; beveva poco vino; non poteva tollerare i giuochi di sorte; dispregiava i piaceri facili, non aveva alcuna inclinazione per la ghiottoneria, e conservava a terra le frugali abitudini della vita di mare. La sua estrema sobrietà gli faceva preferire l’uso degli alimenti vegetali. Aveva contratte nei porti del Levante le pratiche dell’igiene araba. Si asteneva volentieri dalle carni per vivere sopra tutto di pane, di riso, d’uova, di legumi freschi, di datteri, di uve secche, di poponi, di melagrani e di aranci. Anteponeva al vino acqua addolcita con zucchero bruno delle Canarie, e profumata d’alcune gocce di fior d’arancio.

Questa frugalità era accompagnata da spirito d’ordine, ed esaltezza che lo impedivano di rimettere al dimani ciò che poteva far subito: conosceva il pregio del tempo: non fu mai veduto operare a caso. In niyna cosa si fermava al bene, se aveva [p. 85 modifica]Speranza di aggiugnere il meglio. Come l’infante don Enrico che aveva preso per divisa «talento di far bene,» Colombo metteva in opera il suo ingegno a fare il bene; nobilmente emulo, col motto di meno, e la modestia cristiana di più.

Affettuoso verso de’ suoi parenti, affabile con quanti gli stavano intorno, mostrando agli inferiori la benevolenza della superiorità, pieno di un’urbanità che non si apprende sulla tolda di una nave, la facilità della sua elocuzione, il giro pittoresco delle sue imagini, le sue espressioni, spesso ardite, sempre felici, infondevano una singolare attrattiva al suo conversare. Le vibrazioni della grave e sonora sua voce facevano, a seconda delle sue emozioni penetrare profondamente i suoi detti; onde facil è comprendere il motivo dell’accoglienza che gli fecero i ricchi negozianti genovesi che avevano casa e banco a Lisbona.

Non ostante questa dolcezza abituale, Cristoforo era, di sua natura, impaziente e collerico. La rapidità del suo pensiero, attivando l’ardore della sua forza, accelerava la sua circolazione; e allora diventava terribile. Ma questo primo movimento impetuoso non pregiudicava che lui. La riflessione, non meno presta di que’ suoi impeti, ne reprimeva issofatto i trascinamenti: questa estrema irritabilità parve gli fosse data come una prova, un’occasione di combattersi, di vincersi, di prepararsi superando questo nemico interiore a trionfare degli ostacoli esteriori: l’insofferenza eccessiva fu inflitta a colui che doveva diventare un modello di pazienza, e compiere mercè questa il suo divisamento degno d’eterna gloria.

Ricordando l’esempio paterno e le raccomandazioni della pia madre, Cristoforo aveva conservato sul mare le abitudini cristiane della infanzia. Sappiamo per sua propria testimonianza che il mare eragli eccitamento d’incessanti elevazioni a Dio. Fin dal suo arrivo a Lisbona andava regolarmente ogni mattina a udir la Messa nella chiesa di Ognissanti, attigua ad un convento di monache. Il suo pio raccoglimento venne avvertito da una grata del chiostro. Una nobile damigella che si trovava quivi fra le alunne, fu tocca per lui del più vivo interessamento: bramosa di conoscerlo, diessi a cercare e trovò un mezzo di presentazione. [p. 86 modifica]

Ella si chiamava dona Filippa di Perestrello, figlia di Bartolomeo Mognis, gentiluomo italiano, ascritto alla cittadinanza portoghese, antico ufficiale della casa del Re, uno de’ protetti dell’Infante don Enrico, e che, nella sua qualità di perfetto uom di mare, era stato aggregato alle ultime spedizioni di scoperte. Qual guiderdone de’ suoi servigi, il promotore della navigazione don Enrico lo aveva fatto eleggere governatore di Porto Santo, autorizzato a colonizzare quest’isola, ov’erano a lui concesse in perpetuo grandi possessioni. Nondimeno, siccom’egli non aveva i capitali sufficienti, il suo sperimento di colonizzazione fu attraversato sin dalle prime. I lavori dell’agricoltura tornarono vani per effetto d’un ostacolo altrettanto gagliardo quanto ridicolo: conigli portati nell’Isola, vi si erano in breve tempo moltiplicati con tale e sì prodigiosa fecondità, che la rapidità della loro propagazione la vinceva sulla distruzione accanita che ne facevano i coloni; i quali erano ancora in troppo piccolo numero: que’ voraci animaletti rodevano tutti i vegetabili, distruggevano di nottetempo le piantagioni, e scoraggiavano gli sforzi degli agricoltori.

Il governo di Porto Santo non aveva recato a Bartolomeo Mognis de Perestrello altro che fastidi e spese: egli era morto, rovinato dalla sterile estensione de’ suoi dominii, lasciando una vedova e tre figlie, la cui dote consisteva principalmente in derrata di grazie e di virtù.

Questo difetto di ricchezze non trattenne Colombo dall’offerire la sua mano a dona Felippa. Fra ’l tempo della presentazione e quello del matrimonio corse un intervallo assai lungo, probabilmente quanto bisognava alla vedova del Perestrello per assumere informazioni intorno il suo futuro genero. Questa circostanza chiarisce sempre più, che, non ostante il mestier di suo padre, Cristoforo Colombo discendeva da un’antica stirpe. Non solamente il matrimonio si fece col consenso della famiglia Perestrello, ma, dopo uniti i nuovi sposi, la suocera gli accolse nella propria casa. Non si poteva far legame più stretto e riconoscere più altamente quello straniero senza beni, senza illustrazione, senza professione. È da credersi possibile che sarebbe stato adottato a questo modo il figliuolo di un semplice scardassiere di lana, se non avesse fornite prove della sua nobiltà? [p. 87 modifica]

Cristoforo Colombo continuò a lavorare alle sue carte ed a’ suoi manoscritti per sicurarsi il giornaliero mantenimento, perocchè la dote della moglie era insufficiente a tal uopo. Nondimeno, la carica sostenuta dal suocero e le relazioni del suo onorevole parentado aprivangli la via a conversare co’ più gran personaggi. Una circostanza sfuggita sin qui all’attenzion de’ biografi, mette in luce questo fatto. Il re Alfonso V, che, sebbene non abbia intraprese grandi spedizioni, pure, per tradizione e per istinto, pigliava interesse alle cose del mare, ammetteva di buon grado alla sua presenza questo piloto straniero, la cui conversazione lo cattivava; Colombo parlava con lui di scienze naturali e di avventure di viaggi. Un giorno, dopo d’essersi intrattenuto de’ suoi dubbi cosmografici, e forse, per confermare le idee del Genovese, il Monarca gli fece vedere canne di una dimensione enorme e strania ai climi dell’Europa, che forti maree avevano spinte sulla riva delle Azzorre. Questo fatto, che in apparenza non era di gran momento, pure significava moltissimo.

Così, quantunque l’idea del suo disegno non siasi manifestata per intero che nel quarto anno della sua dimora in Portogallo, possiamo affermare ch’egli aveva già concepito il disegno di esaminare la totalità del nostro globo. Addentrandoci nel segreto della sua vita, troviamo Colombo sempre il medesimo: ciò che fu, in età più avanzata, già lo era in gioventù. Non si conosce l’epoca della sua nascita altro che da quella della sua, morte: sulla sua gioventù gettano luce le rivelazioni della sua età matura; le idee della sua maturità non ci si rendono note che mercè i pensieri de’ suoi ultimi anni: scrisse che chi si dà alla navigazione sentesi preso dal desiderio di penetrare i segreti di questo mondo; e questa confessione della sua vecchiezza ci palesa le preoccupazioni così del mezzo della sua vita, come della sua adolescenza: ecco l’involontaria confidenza dei lunghi anni passati sul mare, senza profitto per la sua fortuna, senza benefizio pel suo avanzamento.

Per quali vie maravigliose opera la Provvidenza! trae da un disastro un benefizio per colui che ne sembra la vittima. Colombo si trovò, suo malgrado, recato al centro delle idee che dovevano aggrandire i suoi disegni, e divenne ospite del solo [p. 88 modifica]popolo che dava opera alle scoperte: così acquistò nozioni sempre più esatte sull’Oceano e sulle regioni del mezzogiorno.

L’idea che in silenzio si afforzava in lui, ed il germe fecondatovi dalla riflessione, dallo studio e dall’assidua contemplazione dell’opera divina subì tutto ad un tratto nella sua propria casa un rapido sviluppo. Negl’intimi lor trattenimenti, sua suocera, donna di un’eminente pietà e grande zelo per la Chiesa, sorpresa della inclinazione di lui a penetrare lo sconosciuto, e del suo desiderio di scoprire contrade ignorate, gli raccontò la vita di suo marito, ch’era stato un valente uomo di mare; gli narrò in qual modo aveva cooperato alla scoperta di diverse isole; e gli fidò le annotazioni e i giornali de’ viaggi di lui. Da queste osservazioni Colombo cavò in breve un appoggio al suo disegno: esaminò i progressi dei Portoghesi sulle coste di Guinea, e la strada che seguivano per quivi pigliar terra. Alcun tempo dopo s’imbarcò con dona Felippa alla vôlta del suo sterile possedimento di Porto Santo, e vi rimase alquanto tempo: quivi gli nacque il suo primogenito Diego.

Attorniato dall’immensità dei flutti, imagine dell’infinito, sotto la luce abbagliante del sole tropicale, il genio di Colombo maturava negli abissi del suo pensiero un’idea sovrumana, un divisamento più ardito d’ogni eroismo sin allora conosciuto. Ciò che vide, ciò che intese non fece che corroborare l’ardimento delle sue induzioni. Le sue abitudini, le sue inclinazioni, le sue relazioni di vicinato e di parentado parevano già ordinate per servire all’impresa ch’elaborava nelle profondità della sua riflessione.

La seconda sorella di dona Felippa aveva anch’essa dei diritti sulle possessioni di Porto Santo: diventò moglie di Pedro Correa, che fu governatore dell’isola. Nella intimità domestica Colombo poteva comunicare i suoi concetti cosmografici a questo valente navigatore, e profittare delle sue osservazioni: ebbe altresì occasione di fare alcuni viaggi alle isole più avanzate nell’Atlantico, lungi dalla costa africana: andò a Madera, alle Azzorre, passò alla costa di Guinea, visitò la foce del fiume d’oro, el rio d’oro, dimorò alla fortezza di san Giorgio della Mina, ampliando così il campo della sua sperienza e la scala de’ suoi paragoni [p. 89 modifica]

Pedro Correa gli disse di aver veduto nel mare attorniante l’Isola un pezzo di legno lavorato finamente, che, spinto dal vento di Ovest verso riva, pareva giungere da parte opposta del mare. Alle Azzorre gli fu raccontato, che, soffiando venti di Ovest, i flutti, spingevano contra le coste di Graciosa, di Fayal, grandi pini, la cui specie era sconosciuta. Lo si assicurò che all’Isola de’ Fiori si erano trovati sulla spiaggia due cadaveri, i cui lineamenti erano diversi da quelli degli isolani. Correa voce che fossero state vedute, altresì, barche piene d’uomini di una razza sconosciuta. Un ufficiale della marineria portoghese, Martin Vimente, asserì che a quattrocento cinquanta leghe dall’Europa, vers’occidente aveva raccolto un pezzo di legno perfettamente cesellato, spinto da un vento dell’Ovest a vista della sua nave. Un altro marinaro, Antonio Leme, che si era ammogliato a Madera, gli narrò, che, avendo navigato molto innanzi vers’occidente, aveva veduto tre isole all’estrema linea dell’ovest.

Queste notizie alle quali fu attribuita grande influenza sulle determinazioni di Colombo, non erano che un suscitamento per la sua attenzione; ma esse non avevano nulla di sodo, e nessuna unione fra loro; Colombo le raccoglieva riducendole al loro giusto valore.

Primieramente riguardò come illusioni di ottica le isole di cui parlava Antonio Leme: suppose, che tutt’al più, dovevano essere scogli, che, veduti sotto un certo angolo e in certe condizioni atmosferiche, avevano simulato l’aspetto di ampie terre; ovveramente ch’erano di quelle isolette ondeggianti, coperte d’alberi, descritte da certi autori, fra’ quali Plinio e Giovenzio Fortunato, ch’erravano sull’Oceano spinte a grado dei venti. In secondo luogo seppe in breve che la escursione di Martin Dimente non era che una millanteria, sendo ch’egli non si era allontanato dalla costa che circa cento leghe. Rispetto alle tavole scolpite, alle canne gigantesche, a quei cadaveri d’uomini e di pini di specie strana, che i venti dell’ovest avevano spinti alle Azzorre ed alle Canarie, la loro testimonianza non istabiliva nulla di positivo; perocchè avrebbero potuto essere portati dalle parti ancora inesplorate dell’Africa in alto mare, sotto la regione equatoriale, e di là respinte sulle isole dai venti di [p. 90 modifica]Occidente. D’altronde, durante più anni di viaggi e di dimora intermittente in quegli spazi di mare, egli non aveva veduto cos’alcuna per sè medesimo. In questi indizi tutto si limitava a parole dette, e udite dire. Washington Irving è costretto di confessare che questi fatti «non hanno dovuto essere conosciuti da Colombo se non dopo che la sua opinione era formata, nè servirono che a confermarla.»

Checchè sia di ciò, sin dall’anno 1474, la sua risoluzione di muovere alla scoperta di terre, che presentiva esistere nell’ovest era determinata. Giovatosi di un toscano che dimorava a Lisbona, aperse un carteggio con uno de’ più celebri scienziati d’Italia, il medico fiorentino, Paolo Toscanelli, matematico e cosmografo, il quale era accolto familiarmente alla Corte Pontificia ne’ suoi viaggi a Roma, ed a cui il Re di Portogallo chiedeva parere sopr’argomenti che risguardavano la geografia e la navigazione.

Questo Paolo Toscanelli, uomo pieno d’ardore per la scienza, era stato stimolato allo studio delle matematiche dal vecchio artista, orefice, scultore, ingegnere, Brunellesco, il quale sollevò in aria e vesti di marmo l’ammirabile cupola di santa Maria del Fiore a Firenze. Toscanelli erasi addato allo studio della natura: era conosciuto sotto nome di fisico Paolo, poiché a quel tempo i medici non avevano altro titolo. Dopo lette tutte le relazioni esistenti de’ viaggiatori passati, la sua passione per la cosmografia lo aveva messo in relazione coi viaggiatori delle diverse nazioni che giungevano in Italia e andavano a Roma, centro della cristianità e dell’incivilimento.

Dai due soli frammenti che ci sono pervenuti del carteggio di Colombo col medico Paolo, risulta:

1.° che, anteriormente al mese di giugno 1474, Colombo aveva comunicato al dotto fiorentino il suo disegno di navigazione all’ovest: Toscanelli mandò a lui copia di una lettera, che da alcuni giorni aveva scritta in risposta ad una del canonico Fernando Martinez, il quale gliel’aveva inviata da parte del Re di Portogallo; la qual lettera porta la data del 25 giugno 1474;

2.° che Toscanelli trovò un vivo interesse nelle lettere di Colombo; che giudicò grande e nobile quel suo desiderio di [p. 91 modifica]arrivare all’Oriente per la via dell’Occidente; già Colombo gli aveva parlato de’ vantaggi inapprezzabili che ne conseguirebbero per tutta la Cristianità. Noi insistiamo perchè si noti questo fatto e questa data; perocchè la sola parola cristianità riassumeva già lo scopo, il compimento e la ricompensa dell’idea di Colombo.

Trascorsero diciotto mesi, ne’ quali il disegno fu maturato.


§ III.


Nel 1476, Cristoforo Colombo, avendo tocco il suo quarantesimo anno, risolvette tentare di recare ad effetto il suo pensiero. Volse gli occhi naturalmente verso la patria; ambiva di associarla all’onore della scoperta. Scrittori portoghesi hanno preteso che Colombo avesse offerto al Portogallo le primizie del suo disegno: storici che non apprezzarono quel sublime carattere, hanno ripetuto quest’asserzione: ma l’amor patrio di Colombo fervea troppo sincero, perchè non avesse anzitutto pensato alla città, che amava sopra ogni altra per le affezioni di famiglia, e per le poetiche imagini della sua infanzia.

Le testimonianze più positive provano che egli si volse primieramente al Senato di Genova. Il suo contemporaneo Ramusio, il qual conobbe i suoi amici e i suoi compagni, afferma quel fatto; il milanese Gerolamo Benzoni, che viaggiò in America, e visse in mezzo alle memorie che Colombo vi aveva lasciate, lo ricorda; lo storiografo Don Antonio de Herrera lo conferma; il giudizioso accademico Don Josè Ortiz lo riconosce; l’autore degli Annali di Genova, Casoni, lo prova; il dotto Tiraboschi lo attesta, lo storiografo inglese Robertson lo assicura; Luigi Bossi, Spotorno concordano in ammetterlo.

È fuor di dubbio che Colombo, per l’amore che portava alla sua patria, volle ch’ella raccogliesse di preferenza il frutto delle sue scoperte: andò, pertanto, a Genova, e propose il suo progetto al Senato. Ove gli fossero slate date alcune navi allestite, si obbligava ad uscire dallo stretto di Gibilterra, ed a veleggiare verso ponente nell’Oceano finchè avesse trovato la terra in cui nascono le spezie, integrato, così, il giro del Mondo. Ma le ragioni [p. 92 modifica]cosmografiche, sulle quali fondavasi, non potevano venire apprezzate dai membri del Senato della Repubblica Ligure. I Genovesi, valenti e intrepidi nel Mediterraneo, non si avventuravano guari nell’Oceano. Oltreciò, non avevano peranco notizia de’ progressi che i Portoghesi andavano ogni dì facendo nella geografia: si reputavano maestri in fatto di navigazione, e pensando che nessuno poteva superarli, tennero l’offerta del loro concittadino in conto d’un orgoglioso vaneggiamento. Allegarono il pretesto della penuria del tesoro esausto da grandi armamenti; e affine, forse, di umiliare la pretensione di Colombo, gli dissero che il desiderio delle scoperte non era una novità pel Senato; che già altri esploratori avevano scontata colla morte la loro temeraria curiosità, del che facevano fede gli archivi della repubblica: diffatti vi si leggeva che, dugent’anni prima della proposizione di Colombo, due capitani della più alta nobiltà, Tedisio Doria e Ugolino Vivaldi, erano partiti pel grande Oceano, e, ingolfatisi in esso, non avevano più data nuova di sè.

Rifiutato dal Senato di Genova, non si scorò Colombo; e volendo che l’Italia avesse il benefizio della sua scoperta, passò, dicesi, a Venezia, perocchè a lui pareva che la Repubblica di San Marco, così per le finanze, come per la marineria, fosse molto acconcia a secondare i suoi disegni. Ma, non ostante la sua generosa profferta, il Consiglio Veneto non vi aderì.

Nessun documento relativo a questa proposta è pervenuto sino a noi; nondimeno la tradizion costante de’ Veneziani presta qui all’affermativa di alcuni storici una grande autorità; e la testimonianza di un Magistrato dell’antica repubblica, riferita da Luigi Bossi, si trova accreditata da varii scrittori eminenti, e fra gli altri dall’avversario di Colombo, lo storiografo della marineria spagnuola, don Martino Navarrete.


§ IV.


Rimandato da Venezia com’era stato da Genova, Cristoforo Colombo andò a Savona per visitare e consolare suo padre, vecchio allora di oltre settant’anni.

Diciamo Savona, non Genova; perchè prima del 1469, Domenico Colombo aveva abbandonalo la «città di marmo» per [p. 93 modifica]fermare la stanza a Savona: in appresso fece ritorno a Genova. Questo domicilio intermediario, che durò più di diciassette anni, pare a noi che abbia principalmente contribuito all’incertezza ed agli errori degli storici sulla vera patria di Cristoforo. Il lettore ci permetterà di notare qui alcune particolarità, e di sollevare rispettosamente l’umile velo che copre la povera famiglia del vecchio tessitore di lana. La trivialità del racconto sarà perdonata in favore della novità delle notizie e della loro esattezza; son tutte precise e cavate da autentici documenti.

Come la fortuna è varia in questo mondo! Alcuni trovano prestamente in onesti agi il premio dell’assiduità, della previdenza, dell’economia; altri, non ostante la regolarità del lavoro, non ostante le privazioni pazientemente sostenute, non giungono mai a rompere il giogo delle penose fatiche a cui sembrano predestinati: la loro ricompensa è riservata interamente nell’eternità: non hanno quaggiù che i pegni di una speranza immortale contenuta nelle consolazioni della fede ...! La vita di Domenico Colombo fu una lotta incessante contro oscure tribolazioni, L’inopia in cui sempre versò, e le sciagure che lo colsero di continuo nella sua piccola industria, persuaserlo che a Savona troverebbe miglior fortuna che a Genova: gli sciagurati si fanno facilmente illusione: diè pertanto in affitto ad un berrettaio la sua casa in via Mulcento, e andò a stabilirsi a Savona: però la pigione continuò ad essere pagata in suo nome, forse perchè i Religiosi Benedettini non avevano voluto fare mutazione al loro affitto, o forse perch’egli aveva speranza di tornare un giorno in quella sua antica dimora.

Domenico Colombo avea seco due figli, Giovanni Pellegrino, già maggiorenne, e il piccolo Giacomo, ancora in fasce. Pellegrino lo secondava come operaio, quando gliel permettevano le sue forze, perocch’era cagionevole di salute, a tale che Domenico era obbligato di stipendiare uno stranio, e prese più volte ad aiuto un certo Bartolomeo Castagnolo, che aveva imparato il mestiere da lui.

L’anno 1470 tribolò il povero scardassiere con diverse piccole sciagure. Bisogno ridusselo a vendere, il 24 settembre, nello studio di Francesco Camogli, notaro in Genova, alcuni pezzi [p. 94 modifica]di terra ed una casa che possedeva nel quartiere di Ginestrello, a Bisagno, patria di sua moglie: e la sua penuria era tale che, il 25 ottobre del seguente mese fece cessione ad Antonio Rollero di una miserabil somma di diciotto lire da riscuotersi dal suo antico fattorino Bartolomeo Castagnolo: nonostantechè il suo stato andò sempre peggiorando: la sua miseria era manifesta, a tale che il seguente anno Giuliano e Scampino di Caprile, compratori de’ suoi immobili a Bisagno, temendo che sua moglie volesse un dì rivendicarli, siccome quelli che guarentivano i suoi diritti dotali, vollero ch’ella ratificasse la vendita fatta dal marito.

La miseria di Colombo andò poscia crescendo per modo, che non potè più neppure procurarsi la materia prima, la lana per la fabbricazione dei panni. Non riuscendo a pagare la lana a pronti contanti, ned offrendo alcuna guarentigia per ottenerla a credito, oppresso da molti piccoli debiti, patì insiem colla famiglia tutti gli imbarazzi e tutte le umiliazioni della povertà. Sul cominciare del seguente anno, Domenico andò a Genova per tentare di aprirsi qualche miglior via; e abbiam la prova che vi si trovava il 14 aprile 1472. Finalmente Domenico Colombo, tornato a Savona, giunse a ottenere da Giovanni di Signorio, una quantità di lana del valore di quaranta lire. Una tale anticipazione non poteva profittargli lungamente. Per buona ventura nel seguente agosto, Cristoforo Colombo, in una delle visite che godeva fare a’ suoi genitori, recò qualche alleviamento alle loro strettezze; e indusse Giovanni di Signorio a fornire altre lane sino al valore di cento lire; nondimeno Signorio esigette la guarentigia morale del figlio, e che si obbligasse unitamente col padre, non solo al pagamento delle cento lire, ma eziandio delle quaranta precedentemente anticipate. Il 26 agosto, innanzi a Tommaso di Zocco, Cristoforo Colombo si obbligò al pagamento del debito delle centoquaranta lire, da farsi in altrettanto panno entro il termine de’ sei mesi.

Il tempo non migliorò lo stato dello scardassiere. Il 12 febbraio 1473 ei comperava da un certo Barbarin una quantità di lana che si obbligava pagare in istoffe. Il 4 giugno comprava altresì da Luigi di Multedo alquanta lana, di cui doveva pagare [p. 95 modifica]il prezzo col suo lavoro. Il suo stato, sempre più impacciato, pose in timore il compratore di una piccola terra da lui venduta, il qual pretese non solamente la ratifica della vendita di mano di Susanna Fontanarossa, sua moglie, ma anche di que’ figli maggiorenni, che si trovavano allora con lui. Quindi il 7 agosto 1473, Cristoforo Colombo, e il malaticcio Giovanni Pellegrino accompagnarono a tale effetto la loro madre allo studio di Pietro Corsaro.

Queste date autentiche provano che in quel tempo il soggiorno di Colombo in casa de’ suoi genitori fu di quasi un anno. Quivi, come nella sua infanzia, egli era ad essi affezionato e sottomesso; gli aiutava come poteva meglio nelle sue proprie strettezze, e s’identificava talmente con loro, che, abitando sotto il tetto paterno, facendo vita in comune, considerava sè stesso come appartenente alla corporazione degli scardassieri. Nell’atto del 26 precedente agosto, gli era stata data la qualità di scardassiere di lana, insieme con suo padre. Sia che non volesse, alla presenza del vecchio avvilire la sua professione, e rinnegare il suo antico mestiere, sia che il prestatore, mercante di lana, avesse fatto di questa qualità una condizione per accettarlo piegio, fatto sta che Cristoforo Colombo figurò nell’atto, non come uom di mare, ma come scardassiere. Suo padre, sua madre, i suoi fratelli, lavorando tutti in lana, ei doveva naturalmente, vivendo con essi, esser creduto un de’ loro: ma è certo che in quella povera casa fabbricava carte di mare, copiava manoscritti, cui di tanto in tanto portava a Genova, ove comprava e vendeva libri stampati; perlaqualcosa v’ebbero scrittori contemporanei i quali asserirono che faceva il mestier di libraio a Genova.

Alcune settimane dopo, Cristoforo Colombo era tornato in Portogallo.

Mentre Cristoforo maturava nel 1474, i suoi giganteschi progetti, Domenico, suo padre, ascritto alla confraternita dei maestri scardassieri, chiamato a deliberare sui loro statuti, considerandosi come stabilito definitivamente a Savona, desiderò possedere un piccolo podere in quel territorio. Certamente, egli si teneva sicuro di qualche inaspettato soccorso. La fortuna gli aveva fatta in sogno una qualche magnifica promessa: checchè [p. 96 modifica]sia di ciò, il 19 agosto, comprò da Corrado di Cuneo una terra posta in Valcalda, soggetta a canone verso la prebenda canonicale di S. Giacomo e S. Filippo, mediante la somma pagata in contanti di dugento cinquanta lire moneta di Savona. Il venditore ne diè quietanza alla presenza di mastro Giovanni di Rogero, e dei due testimoni Giacomo Ferraro e Giacomo Lamberto, cittadini di Savona. Ma, ohimè! questi agi improvvisi di Domenico Colombo, e questo pagamento a contanti della terra da lui acquistata erano illusioni! È da credere che facesse capitale di una promessa che gli mancò nel punto di firmare il contratto: talchè, dopo la quietanza data dal venditore, immediatamente nella medesima stanza, davanti ai medesimi notare e testimoni, il povero Domenico fu obbligato di riconoscersi debitore di quelle dugento cinquanta lire; e promise pagarle col mezzo del suo lavoro, nello spazio di cinque anni, dando al venditore, ogni anno a S. Michele, una quantità di panno che doveva valere cinquanta lire, secondo il giudizio de’ periti stimatori Cristoforo Barucio ed Enrico Berto.

Tuttavia, nonostante i suoi sforzi, il vecchio scardassiere non potè pagare a S. Michele la prima rata del suo debito col convenuto panno: suo figlio Giovanni Pellegrino, mancò in quel frattempo a’ vivi.

Tre anni appresso, Domenico dovette vendere la casa con giardino che possedeva ancora a Genova fuor della porta di sant’Andrea. Siccome questo immobile serviva di guarentigia ai diritti dotali di Susanna Fontanarossa, così fu voluto il consenso di questa. Malgrado quest’altra vendita, il vecchio Colombo non giunse ad estinguere i suoi debiti anteriori, e rimase col peso di que’ che aveva contratti per l’acquisto del piccolo podere di Valcalda.

Venendogli meno coll’età le forze, dovette rinunziare a coltivare per sè la sua terra, e gli fu mestieri farla lavorar da altri. Il 17 agosto 1487, nello studio di Ansaldo Basso egli l’affittava a Giovanni Picasso, figlio di Ode: poco dopo non potè continuare il suo mestiere di scardassiere, e sen dimise senza avere avuto la soddisfazione di avviare in esso il suo più giovane figlio Giacom, la cui delicata costituzione esigeva i maggiori risguardi. [p. 97 modifica]

A colmare poi la misura delle sue disavventure, la fedele compagna della sua vita, che per oltre quarantasei anni aveva divise le sue fatiche, le sue cure, e addolcite le sue incessanti tribolazioni, Susanna Fontanarossa gli fu da morte rapita. Allora il soggiorno in Savona gli riuscì intollerabile.

§ V.


Torniamo a Cristoforo.

Se quel doppio rifiuto di Genova e di Venezia e forse l’impossibilità di poter ricorrere immediatamente ad altri con lusinga di riuscita, gli fecero sospendere la comunicazione del suo disegno, continuò nonostante le sue osservazioni, e non cercò manco di moltiplicare i suoi studi cosmografici. Noi lo vediamo, un anno dopo, valicare l’Oceano Germanico, e procedere sulla via de’ mari polari. Nel febbraio del 1477, si trovava cento leghe oltre l’Islanda, e avverava fenomeni importanti per l’idrografia. Dai cupi orizzonti del Nord, allo splendido firmamento dei tropici, valendosi della sua possente facoltà di generalizzare, Colombo studiava le armonie della terra e delle acque, cercando penetrare attraverso la poesia delle apparenze il principio delle grandi leggi del nostro globo. Passando dalla contemplazione delle opere di Dio all’investigazione di quelle degli uomini, spendeva, mentre dimorava a terra, nello studio degli scritti de’ filosofi, degli storici e de’ naturalisti tutte le ore che non impiegava a copiare manoscritti ed a costruire sfere, del cui spaccio viveva.

Proseguì a questo modo una vita di privazioni e di stenti sino al giorno in cui il re Giovanni II, il qual era succeduto ad Alfonso V suo padre, parve volesse ripigliare le tradizioni del fratello dell’avo, don Enrico di gloriosa memoria.

Questo Monarca aveva raccolto nella sua marineria piloti di prim’ordine, come Diego Cam e Bartolomeo e Pietro Diaz. Ad esempio di don Enrico, ammetteva a’ suoi servigi ogni straniero che giudicava di una capacità eminente: voleva distendere le sue conquiste verso le Indie. L’energia della sua volontà secondava la penetrazione del suo sguardo, che gli faceva indovinare il merito. Non tornò difficile a Colombo, quando parve a [p. 98 modifica]lui venuto il buon momento, di ottenere udienza per l’esposizione del suo progetto. La sua amicizia coi due governatori di Porto Santo, e le sue relazioni anteriori col padre del re, eran acconce a procacciargli una benevola accoglienza.

Alla prima udienza, Giovanni II, sorpreso dalla novità di un disegno che distruggeva tutte le idee ammesse in cosmografia, si mostrò poco inclinato a favoreggiarlo. Ma poscia, in altre conferenze, considerando il valore intrinseco degli argomenti di Colombo, comprese che la proposta da lui fatta aveva in sè qualche cosa d’immenso. Per la ragion medesima della sua elevazione di spirito, della sua conoscenza degli uomini e della sua propensione alle scienze naturali, il Re si sentì inclinato a favoreggiare Colombo. Sedotto dall’ascendente della costui nobile semplicità e leale fiducia, Giovanni II si decise di sostenere le spese della ideata spedizione: nondimeno, prima di affrontarle bramava conoscere positivamente quale rimunerazione volesse Colombo nel caso di felice riuscita.

Il Portogallo incoraggiava le scoperte con grandi liberalità. D’ordinario conferiva il governo dell’isola o della regione scoperta a colui che ne avesse preso possesso in nome della corona: talvolta era aumentato pregio a tai funzioni colla giunta di un qualche onorifico titolo; la speranza di tai ricompense infiammava le menti. Ma quest’Uomo che si logorava la vita a far carte e copiar manoscritti per dare il pane alla sua famiglia, non si contentava di siffatta retribuzione. Agli occhi di lui quella mercede era cosa tanto meschina da reputarsene avvilito: presentò le sue condizioni; le quali furono talmente elevate, che che il re se ne adontò, e, prima di ventilarle, volle fossero discusse le probabilità del riuscimento dell’impresa: incaricò di siffatto esame una commissione composta di tre membri: il dottore Diego Ortiz de Cazadilla, vescovo di Ceuta, Roderigo suo medico, e l’ebreo Giuseppe, medico anch’esso e maestro in cosmografia.

Se ne leviamo alcuni Portoghesi, ai quali non è da prestarsi fede in ciò, perchè legittimamente sospetti, tutti gli storici confessano che l’incertezza del Re non fu che un pretesto. L’esitazione di Giovanni II procedeva unicamente dalle dimande di [p. 99 modifica]Colombo, le quali erano giudicate esorbitanti e superbe, quantunque fossero fatte con semplicità e sincera modestia. È provato che s’egli si fosse contentato del governo perpetuo delle contrade da lui scoperte, anche colla giunta di titoli onorifici, e privilegi ereditari, la cosa sarebbesi facilmente conchiusa. Il suo compatriota Casoni attribuisce il temporeggiare del Portogallo alle sue pretese di troppo grandi ricompense e di troppo grandi onori in caso di buon riuscimento. Ove la sua dimanda non fosse stata tale, il Re Giovanni II l’avrebbe in sul fatto liberato dalle mortali lentezze che dovette patire di poi. Queste condizioni che oltrepassavano la generosità del re, noi le esporremo in appresso. Se bisognavano a Cristoforo Colombo i grandi onori, non gli bisognavano meno le grandi ricchezze; perocchè intendeva servire ad un gran pensamento, ed attuarlo era la sola ricompensa che giudicasse degna di sè: con rivelare questo pensamento giustificheremo la sua incomparabile ambizione al tribunale d’ogni anima cristiana.

Nella sua relazione, la commission scientifica conchiuse che si dovesse rigettare la proposta del Genovese; considerava il suo disegno come la visione di un uom delirante. Tuttavia Giovanni II non sapeva arrendersi a quell’assurda sentenza: aveva istintivamente fede in quello straniero, sì povero, e nondimeno sì fermo nelle sue pretensioni: non ostante il parere della Commissione, continuò a pigliare sul serio il disegno di Colombo, e lo sottopose ad un altro consiglio che compose de’ primi ingegni del Portogallo.

Il progetto fu allora esaminato assai più sotto l’aspetto dei vantaggi che assicurerebbe alla nazion portoghese, di quello che sotto il rapporto pratico dell’esecuzione. La discussione prese un carattere d’interesse generale per la direzione da dare alla reale marineria. La tornata fu assai viva, e quasi procellosa. I Prelati vi assistevano: era fra essi il vescovo di Ceuta, doppiamente influente per la sua scienza e pel suo titolo ufficiale di confessore del re: naturalmente il suo parere era di gran peso; egli aveva, qual presidente della commissione cosmografica, già esaminato il progetto di Colombo che forniva materia alla discussione, ed opinava le ragioni esposte da lui non [p. 100 modifica]offerire solidità che bastasse per indarre un principe savio e prudente ad entrare in così rischiosa impresa senza averne fatto prima un qualche sperimento.

Lasciando dall’un de’ lati lo scopo religioso di Colombo, il Prelato trattò l’argomento sulle generali, e avvivò la discussione, dichiarandosi contrario ad ogni nuova scoperta. Facendo prevalere i motivi di una meschina e astuta prudenza sull’amor patrio e sul proselitismo cristiano, che avrebbero dovuto ispirarlo trattò la quistione da ministro dì finanza, che deve prima d’ogni cosa bilanciare le spese colle riscossioni: vide nella penuria del tesoro un ostacolo ad imprese, che sino allora erano riuscite più onorevoli che produttive; sostenne che in vece di porsi alla ricerca dì terre lontane, sarebbe miglior politica nasconderne l’esistenza e la via, perchè l’allettamento della novità non mancherebbe di suscitare lo spirito guerresco de’ Portoghesi, generalmente disposti alle grandi cose, e che in breve correre dì tempo le colonizzazioni renderebbero il regno spopolato: seguir la via delle scoperte era, secondo lui, un indebolirsi dentro prima dì essersi assodati fuori: invece di scoprire nuove terre, era cosa più savia, e ad un tempo più gloriosa combattere in Barberia gl’infedeli nemici, la cui prossimità era sempre un pericolo.

Questo linguaggio dì una fredda circospezione, fondato sopra calcoli di aritmetica, irritò vivamente l’amor patrio dell’adunanza. Pietro de Menejes conte dì Villareal, e cavaliere dell’Ordine del Cristo, rispose che il Portogallo non era più a’ suoi primordi; che i suoi principi non si trovavano sì fattamente sprovveduti dì mezzi da non poter sostener le spese della spedizione di Colombo; che per nessun motivo non si doveva chiudere la carriera così felicemente aperta dall’Infante don Enrico; che rimarrebbe a gloria eterna de’ Portoghesi l’aver penetrati i misteri e le profondità dell’Oceano, sì formidabili al rimanente delle nazioni: che in tal modo sì eviterebbe l’ozio cui una pace prolungata suol generare ordinariamente; l’ozio! porta aperta a tutti i vizi, lima sorda che logora insensibilmente la forza e il valore de’ popoli; ch’era un oltraggiare il nome portoghese minacciare di pericoli imaginari uomini che ne’ più gravi [p. 101 modifica]e veri pencoli mostrarono sì gran valore e intrepidezza; che infine alle anime grandi si affacevano le grandi imprese.

Toccando poscia lo scopo che si proponeva il Colombo, l’oratore soggiungeva, che, mirando il suo disegno principalmente alla propagazione della fede cattolica, egli stupiva grandemente come un prelato di quella divina religione s’inducesse ad avversarlo: indi, continuando, diceva: il rigettare questa offerta non sarebbe forse rigettare le ispirazioni di Dio, trascurando l’occasione di far echeggiare dall’un polo all’altro la voce del Santo Vangelo? Nel suo pio entusiasmo, Villareal aggiungeva, che, sebben fosse soldato, pur osava presagire al Monarca un felice riuscimento di quell’impresa, un più grande onore, una più gran possanza, e tale una gloria appo i posteri, da superare la conseguita dagli eroi più famosi e dai più fortunati monarchi.

Plausi generali e vivissimi onorarono questo discorso. Ma l’opinione del Vescovo di Ceuta era sfavorevole a Colombo quanto ai mezzi di esecuzione; e la sua riputazione di gran valore in fatto di scienze nautiche fece sì che il Consiglio, nemmen discutendo il progetto di Colombo, lo abbandonò per trattare quistione creduta più vitale per la Monarchia portoghese; cioè che fossero ripigliate le spedizioni iniziate dall’infante Don Enrico, e sospese sotto l’ultimo regno.

La seduta di questo Consiglio è un documento prezioso nella storia di Cristoforo Colombo, perchè chiarisce che sin da quel tempo la diffusione del Vangelo era lo scopo palese, confessato, e definitivo della sua impresa.

Nondimeno il modo leggero o sdegnoso con cui, sull’affermativa di un solo de’ suoi membri, il Consiglio aveva messo da parte la proposta di Colombo, non soddisfaceva nè la giustizia, nè lo spirito illuminato di Giovanni II: il condannare non era giudicare: le conferenze avute col Cosmografo genovese tornavano alla memoria del Re, che continuava a preoccuparsene: in diverse circostanze ne parlò confidentemente a’ suoi familiari, che cercarono di alleviare al Re il dispiacere che ne provava esponendogli quali inconvenienti potevano ridondare da una convenzione fermata a proposito di un disegno ch’era forse la illusione di un mercante di libri: gli suggerivano di far la prova [p. 102 modifica]del progetto secondo i dati forniti dal Genovese: altri volevano fosse temporeggiato in aspettazione d’un qualche caso che avesse a recare gratuitamente lume sul problema di cui il Genovese pretendea vendere a sì caro prezzo la soluzione.

Intanto il tempo passava.

Colombo, fermo e risoluto, coll’austera pazienza che serve d’arma alle anime forti, guadagnandosi la vita colla penna ed il compasso, alimentando il suo spirito di ogni libro che comprava, leggeva, indi vendeva, andava in questa inazione forzata aquistando una istruzione ad un tempo svariata e soda.

Finalmente il Monarca fu per la sua propria riflessione recato a voler tentare la impresa. Ciò che tuttavia lo tratteneva era l’esorbitante rimunerazione voluta dal Genovese. In tale perplessità, uno de’ suoi consiglieri gli suggerì di conciliare il desiderio proprio con ciò che chiamava la dignità della Corona. Questo mezzo consisteva in munire segretamente del piano e delle istruzioni di Colombo un buon pilota portoghese, e mandarlo alla scoperta nella direzione indicata: conseguita cognizione della terra cercata da Colombo, la Corte non sarebbe più obbligata a concedergli una troppo grande ricompensa. Ahimè! il Re, uomo retto e abitualmente leale nelle sue accortezze politiche, ebbe la sciagura di partecipare a questa frode: certamente fu sedotto da astute parole: si fecero valere le ragioni di Stato: in nome della patria fu persuaso che l’interesse generale doveva prevalere sull’interesse privato, sopratutto trattandosi di uno straniero, meritevole per giunta di punizione per la sua ostinazione nel durare fermo nelle sue stolte pretensioni. Giovanni II dimenticò ch’era gentiluomo: lo sciagurato consigliere da cui si lasciò traviare, fu il dottor Diego Ortiz di Cazadilla.

Un raggio d’ingannevole speranza brillò allora a Colombo nella vita faticosamente monotona che menava in aspettazione di una risposta alla dimanda che aveva fatto. Un messaggio della Commissione scientifica lo invitò ad esporre i particolari del suo progetto corredati delle lor prove, onde lo si potesse esaminare così quanto alla teorica, come rispetto a’ mezzi di esecuzione. Incapace di supporre nella Corte una fellonia, Colombo [p. 103 modifica]comunicò senza diffidenza le annotazioni, le carte, a dir breve, i modi per lui ideati di eseguire la impresa. E incontanente uno de’ più valenti capitani della marineria portoghese fu spedito con una carovella, per andare in apparenza a vettovagliare le Isole del Capo Verde, ma con missione segreta di veleggiare vers’occidente alla scoperta delle terre sconosciute, secondo le indicazioni di cui gli era stata data copia.

Il più gran segreto favoreggiò questa tentata spoliazione del genio. Ma s’erano state derubate a Colombo le sue notizie scientifiche, non si aveano potuto furargli la sua fermezza, la sua fede, la sua superiorità in vedere e conoscere le cose, e i doni misteriosi ricevuti dal Cielo per adempiere l’opera sua. Dopo alquanti giorni di navigazione all’ovest arditamente continuata, l’equipaggio cominciò a stupire degli spazi indefiniti che affrontava e ad entrare in paura. Quegli uomini tremavano dinanzi l’immensità: levatasi una tempesta crebbe il loro spavento; il Signore non era con loro; la nave smarrita voltò e tornò vergognosamente donde si era spiccata. Allora, come avviene in simili casi, i codardi diventarono millantatori e beffardi: rientrati in porto, presero in dileggio il progetto del Genovese, quasi altro non fosse che una vanitosa stravaganza: la loro jattanza fece manifesto il segreto di quel tentativo quasi direi sacrilego.

Il dardo di tal fellonia entrò profondamente in cuore a Colombo: confrontandolo colla propria rettitudine sentì la turpitudine di quella slealtà. Ma già egli era avvezzo ai patimenti dell’ anima. Da qualche tempo, in mezzo alle sue prove, si era veduto rapire dalla morte la compagna delle sue speranze, la madre del figlio suo, la nobile Filippa, unica consolazione che avesse nelle sue sciagure. Colombo tacque e alzò gli occhi al Cielo.

Intanto il Re venne fatto consapevole che la carovella non aveva navigato quel numero di giorni e di leghe notato nelle istruzioni rubate a Colombo: quindi sentì rinascere vieppiù forte il desiderio di rannodare le pratiche del negoziato: avrebbe allora conceduto tutto quello che per sì lungo tempo aveva ricusato: ma dal canto suo, non ostante la penuria in cui versava, Colombo aveva risoluto di non trattar mai più con una [p. 104 modifica]Corte capace di tali infamie: simulò di non comprendere, d’ignorare le nuove disposizioni del Re; e continuò nell’isolamento delle sue oscure occupazioni: indi, allorchè seppe da buon luogo che il Monarca voleva assolutamente legarlo con un trattato per la sua impresa, risoluto di non cedere, e avendo da temer tutto dai consiglieri della Corona, se durasse fermo nel suo rifiuto, vendette in segreto ciò che gli apparteneva per parte di sua moglie, preparò prudentemente la sua partenza, e, verso il cadere del 1484, se ne fuggì segretamente da Lisbona, adducendo seco il suo giovanetto figlio Diego, i cui lineamenti delicati ricordavano la bellezza di sua madre.

Cristoforo Colombo fuggì dal Portogallo per mare, e veleggiò alla volta di Genova.

Non ostante il rifiuto di quella Repubblica, che l’aveva dolorato alcuni anni prima, pur egli attingeva nel suo amor patrio il coraggio di affrontare nuovamente i dubbi e le ripulse della città natale. È positivamente riconosciuto vero dalla storia, che, nella primavera dell’anno 1485, Cristoforo Colombo trovossi a Genova. Questo fatto è messo fuor di dubbio dall’istoriografo regio don Battista Munoz: Humboldt lo ammette pienamente, e aggiunge solo che la sua dimora in patria fu brevissima, il che è vero: il desiderio che aveva di assicurare al suo paese immensi vantaggi lo tirava ad insistere presso al Senato: ma gravi difficoltà stornavano il governo da un disegno che avea apparenza di strano. Le condizioni della Repubblica non le permettevano di scemare la flotta di alcune navi, per tentare una spedizione, che non era giustificata da verun precedente. Colombo non ritrasse da questo viaggio che la dolcezza di rivedere a Savona il suo venerando genitore, di presentargli il figliuoletto, e di chiamare la benedizione del vecchio operaio sul capo di questo fanciullo, che doveva unire un giorno il suo sangue con quello delle due Case sovrane di Spagna e di Portogallo.

Il cuore del canuto scardassiere di lana trepidava sicuramente di paterna gioia ascoltando i progetti del suo figliuolo: perocchè se Domenico Colombo conosceva i rifiuti delle due Repubbliche e le trame del Portogallo, conosceva altresì la forza di risoluzione, l’ardente fede, e presentiva ben anco [p. 105 modifica]confusamente la superiorità scientifica del suo primogenito: sapeva che Cristoforo aveva divisato di compiere il giro del Mondo, di giungere, così, fra le nazioni idolatre, ignoranti la venuta di Cristo, e di far brillare ai loro sguardi lo stendardo della salute! Queste segrete espansioni ringiovanivano l’anima del vecchio con prospettive piene di nobili speranze. Tali grandezze, vedute d’in sulla soglia della tomba, mutavano in isplendida aurora il crepuscolo de’ suoi ultimi giorni: erano ad un tempo un ristoro alle sue lunghe tribolazioni, ed un guiderdone degll esempi, e dell’educazione cristiana che aveva dato a’ suoi figli.

Si ritiene che il ritorno di Domenico Colombo nella città di Genova avvenisse in questo tempo; è anzi cosa assai probabile che il suo medesimo figlio ve lo riconducesse. Dopo la morte di sua moglie Susanna, privo delle cure diventate necessarie alla sua età, non potendo più esercitare l’antico mestiere, nè coltivare la piccola terra di Valcalda, affittata, ma non pagata, il vecchio scardassiere rimpiangeva il soggiorno di Genova, in cui lo chiamavano le memorie della infanzia, i suoi legami di parentado e le antiche amicizie: vi tornò di buon grado, e si stabilì, a quanto pare, nel quartiere di Santo Stefano, vicino alla porta dell’Arco.

Dopo d’avere nel breve soggiorno che vi fece, confortato colla sua tenerezza il buon vecchio, e provveduto a’ suoi bisogni durante la sua assenza, Cristoforo Colombo gettò gli occhi sulle Monarchie cristiane d’Europa, per iscegliere quella che associerebbe all’onore di eseguire il suo disegno.

Pel suo zelo in difendere la fede, per la sua intrepidezza in combattere i Mori, pel suo carattere cavalleresco, per la sua potenza in mare, e sopratutto per la gran rinomanza de’ due Sovrani, che regnavano allora insieme, Ferdinando di Aragona e Isabella di Castiglia, parve a lui che la Spagna meritasse di essere anteposta ad ogni altro Stato: da quel punto si tenne come obbligato verso di lei: indi, al primo soffiare del vento di levante, s’imbarcò per quel regno, senza esservisi preparata alcuna relazione, o protezione; senza aver cercata veruna commendatizia, od altro soccorso, fidato interamente nella sola protezione della Provvidenza.