Cristoforo Colombo (de Lorgues)/Libro I/Capitolo III

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CAPITOLO III.

Scadimento della Castiglia prima del regno di Isabella. — Creazione della potenza spagnuola per opera d’una donna. — Impulso letterario, rigenerazione dello spirito nazionale, incremento del Cattolicismo. — Ritratto di quella Donna. — Influenza d’Isabella sui destini della Spagna.

§ I.

La Spagna era eminente nel mondo Cattolico: la sua lotta contro il Corano, e lo zelo della sua Crociata intrapresa sopra il suolo dell’Europa attiravanle la benevolenza del mondo cristiano. Chi facea plauso a quell’eroico tentativo, prevedeva che grande sarebbe stata la ricompensa di una fede sì generosa. Il territorio spagnuolo, già diviso in sovranità separate (il regno di Castiglia, il regno d’Aragona, il regno di Navarra, la Cerdagna, l’emirato di Cordova, l’emirato di Granata) si andava ingrandendo per non formare che una sola Monarchia, la più ricca dell’Universo. In quel tempo il nome, di una donna era di frequente pronunziato nelle relazioni delle Corti cristiane, e risonava sul littorale dell’Africa sino all’estremità dell’Oriente, onorato dalle maledizioni dell’Islamismo. Anche a’ dì nostri, così poco propizi all’entusiasmo, chi prende a studiare quella età, stupisce che Isabella (senz’alcun dubbio la regina più notevole della storia, l’eroina dotta e guerriera che passò povera e semplice fra gli splendori dell’Alambra, e le magnificenze delle Corti e dei campi, scopo dell’ammirazione delle due cavallerie cristiana e moresca, senza pericolo per la sua modestia, perch’era velata della pietà) sia così poco nota ad una nazione naturalmente vaga di grandezza e di gloria qual è la francese.

Non si possono scorrere gli annali della navigazione e l’origine delle Colonie nel Nuovo Mondo senza che non venga alla memoria il dolce nome d’Isabella; perocch’essa fu il mezzo della scoperta, al modo che l’uomo, che a lei sottopose il suo disegno, n’era l’organo provvidenziale. [p. 107 modifica]

Noi dobbiamo dunque entrar qui in alcuni particolari assolutamente necessari per chiarire la missione del perfetto cristiano;, del quale ci accingiamo a narrare gli atti. L’arrivo di Colombo in Ispagna, gl’influssi ch’esercitò sui destini di questa nazione non ebbero nulla di fortuito, e non furono che il corollario di principii già posti, e la ricompensa di un’opera degna di essere apprezzata doppiamente sotto l’aspetto della storia e della fede cattolica.

Dopo il Regno del re di Castiglia Enrico III, soprannominato il malato, lo scettro scadde al suo erede in fasce che fu coranato sotto nome di Giovanni II.

Fiacco di spirito, come suo padre era stato fiacco di corpo, costui visse sbadato del trono, abbandonandosi a feste, a tornei, alla musica, a banchetti, alla caccia, e lasciando regnare in suo nome il ministro de’ suoi piaceri, Don Alvaro de Luna. Questo favorito rivaleggiava di lusso col suo Signore, teneva famiglia magnifica, aveva i suoi gentiluomini, i suoi ufficiali, i suoi cortigiani, i suoi poeti, e perfino i suoi annali da sovrano. La cronaca di Don Alvaro, giunta sino a noi, è annoverata fra le autorità storiche. Il dispotismo di Don Alvaro di Luna aveva scemata l’autorità reale, fomentali odi innumerevoli, mentre l’impunità delle sue creature tendeva a corrompere la giustizia, a moltiplicare le vendette, i delitti, ed a fortificare l’autorità già troppo grande di certi vassalli. Questo regno fu tutto a detrimento delle forze e della fede della Castiglia. Finalmente Giovanni II, al suo letto di morte, confessò la sua indegnità, e si dolse, ma troppo tardi, di non essere nato in qualche oscura capanna, anzi che sul trono.

Questo infelice monarca si er’ammogliato due volte: nella sua prima unione aveva avuto un figlio, don Enrico; e dal secondo suo matrimonio con una principessa di Portogallo, Isabella, e don Alonzo.

In ascendere il trono, don Enrico fu soprannominato l’impotente: ripetè gli erramenti e i vizi del padre; al par di lui, si pose sotto il giogo di un favorito, Juan Pacheco marchese di Villena, antico paggio di don Alvaro de Luna, di cui risuscitò il favore, L’impoverimento delle finanze già sommo sotto [p. 108 modifica]il regno precedente non impedì nè le munificenze stravaganti, ne le liberalità vergognose. Gli scandoli si moltiplicarono: la corruzione s’insinuava in ogni parte. La magistratura, le dignità ecclesiastiche servivano a ricompensare la bassezza o l’infamia. In questo generale scadimento delle cose pubbliche, l’alterazione delle monete, cui lo stesso Governo proteggeva sfacciatamente, venne ad aggravare l’universal miseria.

Appena morto il padre, don Enrico avea confinata la sua sciagurata vedova co’ due figliuoli, Isabella ed Alonzo, nel monastero di Arevallo, quel desso ove Pietro il Crudele aveva fatto rinchiudere Bianca di Borbone, la dimane delle sue nozze.

Isabella aveva allora quattro anni; suo fratello era tuttavia in culla. Dimenticati in quella solitudine, e abbandonati all’isolamento, que’ miseri sentirono amaramente i morsi dell’indigenza. La tristezza della vedova del re crescendo nel suo miserabile stato, rendette cupo il suo carattere, e indebolì la sua ragione: da quel punto, divisa fra la madre e il fratello, entrambi bisognosi delle sue cure, Isabella, nell’età in cui gli altri fanciulli, felici di non avere a preveder nulla, e sentendo che un amor tutelare veglia su loro, non conoscono che i giuochi, le risa, le carezze. Isabella, dice, comprese che aveva da adempiere grandi doveri. Le cure utili e l’uso precoce della riflessione affrettaronle la maturità del giudizio: vide il lato fragile e vano delle cose, e conobbe il nulla e l’instabilità delle grandezze umane: sua madre, privata del diadema e poscia della ragione, dopo ricevuti gli omaggi de’ popoli, erale una lezione eloquente. Crescendo cogli anni, la giovane Infante riconobbe che non poteva mettere realmente la sua fidanza che in Dio; ed a premio della sua confidenza conseguì da Dio un dono superiore alle grandezze reali, lo spirito di sapienza che doveva esserle salvaguardia in mezzo ad un mare di pericoli, in cui avrebbe naufragato qualunque altra donna meno sublime.

E così nel silenzio, nell’oscurità e nella nudità della sua prigione di Arevallo, la pietà metteva nell’anima d’Isabella feconde radici. La religione era il suo solo aiuto, ed anco la sua sola istruzione; perocchè si vede che in capo ad alcuni anni, l’ignoranza in cui il Re lasciava l’Infante e suo fratello, gli avevano [p. 109 modifica]attirato rimproveri dall’episcopato, e da una parte della nobiltà. Simulando riparare i suoi torti, Enrico fece condurre alla Corte Isabella ed Alonzo, sotto pretesto di vegliare alla loro educazione; ma in fatto per tenerveli quali ostaggi.

Dall’isolamento e dalla povertà del monastero di Arevallo, trasportata improvvisamente sulla scena abbagliante in cui la regina sua cognata menava vita dissipata in feste, cacce, tornei, banchetti, e si sforzava nascondere sotto lo splendore del lusso la vergogna delle sue pratiche, Isabella non ne rimase accecata. In quell’aere corrotto, assediata dalle adulazioni e da perfidi consigli, attorniata da nemici che spiavano ogni parola, perfino un semplice sguardo per calunniarla alla cognata, la sua prudenza, la sua sottile penetrazione, la sua costante riservatezza, il suo amore dello studio, la sua muta deferenza pel Re ed anche per la Regina, sopratutto la sua fervorosa pietà, la rendettero vittoriosa di tutte le insidie che le furono tese.

Tuttavia ne l’esaurimento del tesoro pubblico, nè la miseria dei popoli arrestavano le stolte prodigalità della Corte: pareva ella voler soffocare il grido dell’universale miseria mercè il frastuono delle feste. Irritato il Re di essere soprannominato impotente, cercava lo scandalo e il pericolo; e per giustificare la sua virilità colla prodezza, tendeva talvolta imboscate ai Mori e sprecava stoltamente il coraggio. Logoro pei piaceri, e stracco delle voluttà eleganti del suo favorito marchese di Villena, discese co’ più ignobili compagni alle più laide dissolutezze; e il suo capriccio sollevò talvolta oscuri familiari alle prime cariche dello Stato. Il malcontento de’ Grandi produsse in breve una fazione: si formò una lega nello scopo di sostituire sul trono ad Enrico il suo giovane fratello, Alonzo. I congiurati si radunarono in gran numero ad Avila, mentre Enrico se ne fuggiva spaventato a Salamanca, traendo seco la Regina ed Isabella.

La buona ventura di Enrico volle che il capo della potente Casa d’Alba, conservando l’antica venerazione del domma della legittimità, movesse in suo aiuto con millecinquecento cavalli. Si può dire che in quella giornata la Casa d’Alba salvò il principio dell’eredità monarchica. Il suo esempio fu seguito da altri gran signori, i quali raccolsero intorno al Sovrano un [p. 110 modifica]esercito di ventotto mila uomini: ma la inettezza del re non seppe cavare partito da questo insperato sussidio. Una tregua coi ribelli lo espose in breve a nuovi pericoli.

Giovandosi accortamente di queste controversie, l’ambizioso don Pedro Giron, gran mastro di Calatrava, ardì offrire al re sessantamila monete d’oro e tremila cavalieri, se concedevagli la mano della infante Isabella. La ingiuriosa proposta fu accolta, cotanto il re sentivasi vacillante! ma la giovane Principessa, pregò Dio di mandarle la morte anzichè permettere tanto disonore: il trapasso improvviso del gran Mastro venne in buon punto a porre un termine alle inquietudini d’Isabella.

A que’ giorni Segovia aveva aperto le porte al pretendente don Alonzo: Valladolid lo riconobbe sovrano: la sua causa andava ogni dì acquistando favore, quando, una mattina, fu trovato morto in letto.

Isabella si ritirò incontanente nel convento d’Avila, ove una deputazione della nobiltà, condotta dall’arcivescovo di Toledo, venne ad offerirle la Corona. La giovane principessa rispose che il suo rispetto pel re le vietavano di accogliere simile proposta: una deputazione di Siviglia, ripetè indarno l’offerta: tocco da tanta fedeltà, don Enrico si riconciliò con Isabella.

Ma comechè avesse evitate le insidie e delusa la malizia della Corte, Isabella non vedea sicurata la libertà della sua mano; se la disputavano il re di Portogallo, il duca di Guienna fratello di Luigi XI, uno de’ fratelli del re d’Inghilterra Eduardo IV, e il figlio del re d’Aragona. Nella sua doppia qualità di vicino e di parente, il re di Portogallo portava fidanza di essere preferito: favorivano Villena, il re Enrico e sua moglie; ma l’animo inflessibile di Isabella fece cadere a vuoto quel disegno: altrettanto insensibile alle preghiere del favorito, quanto alle minacce del Re, ella respinse la dimanda del Re portoghese.

Precoce maturità di spirito diceva ad Isabella, che, sui gradini del trono, la scelta di uno sposo non poteva dipendere unicamente dal cuore; che in sì alto seggio gli interessi della nazione dovevano andare avanti agli affetti ed alla felicità intima della vita. Fatte assumere in segreto dal suo cappellano informazioni sopra ciascuno de’ pretendenti, e pesato il loro [p. 111 modifica]merito comparativo, ella fissò irrevocabilmente la sua scelta sopra suo cugino, figlio del re di Aragona, don Fernando, re di Sicilia. Fu indarno che la diplomazia, ed anche la forza tentassero costringere il suo consenso: mentre un corpo di armati si avanzava verso Madrigal per assicurarsi della sua persona, l’arcivescovo di Toledo e l’ammiraglio di Castiglia giungendo alla testa di trecento cavalieri, la condussero a Valladolid come in trionfo.

Il Re di Sicilia, quantunque scielto, non poteva senza temerità penetrare in Castiglia, perchè era dato ovunque l’ordine di arrestarlo: dovette condursi di soppiatto, senza lusso e senza Corte, come in territorio nemico. Travestito da mercante, e viaggiando solamente di notte, giunse alla città di Osma, dove aveva qualche pratica amica, e di là a Valladolid, ove fu celebrato il 29 ottobre 1469 il matrimonio di Ferdinando re di Sicilia, principe ereditario di Aragona, coll’infante Isabella.

Non accade forse mai che figli dì re si trovassero così sprovveduti di danaro come questi due sposi. Isabella non recava che una dote immaginaria, la speranza di una dote; e Ferdinando aveva dovuto incontrare un debito per sopperire alle spese del viaggio e delle nozze: lor unica borsa era quella dell’Arcivescovo di Toledo; ma il prelato non l’apriva che poco, e sempre con mano avara. I giovani sposi cadevano così nella sua soggezione, e più di una volta provarono quanto sia grave l’obbligo contratto con un inferiore. Oltre la presente penuria, essi non erano senza inquietudine dell’avvenire. Il numero di lor partigiani non che si andasse aumentando, lo si vedeva scemare di continuo. Valladolid, era tornata in potere di Enrico.

Ritiratisi nella piccola città di Duenas, essi ricominciavano a temere del re, allorchè Enrico venne a Segovia. L’amica di infanzia d’Isabella, Beatrice di Bobadilla, stata sua compagna nella cattività di Arevallo, che si era maritata con Cabrera, comandante della Fortezza, giovandosi dell’assenza del favorito marchese di Villena, osò parlare al re di sua sorella, ed avviare la loro riconciliazione. Avvertita di ciò Isabella, giunse improvvisamente, accompagnata dal primate di Toledo, andò incontro a suo fratello, e lo pregò di perdonarle il suo matrimonio. Il re, ch’era di buona pasta, e non poteva non amare quell’ottima principessa, le aperse affettuosamente le braccia. [p. 112 modifica]

Il favorito Villena morì alcuni mesi dopo, e in breve lo seguì nella tomba il suo docile monarca. Così il dì 11 dicembre 1474, l’infante Isabella si trovò regina di Castiglia.


§ II.


Giunto questo momento vivamente aspettato da Ferdinando, ma temuto da Isabella, la Regina fece innanzi tratto, qual fedele vassalla, omaggio a Dio del suo scettro e della sua corona affinchè il suo regno riuscisse a gloria di Gesù Cristo, ed a felicità de’ suoi sudditi. Sopratutto ella implorò dal Cielo il dono della giustizia, quello che la Chiesa dimanda in prò de’ Principi cristiani. Deus judicium tuum Regi da, et justitiam tuam fìlio Regis. — Salm. LXXI. Da quel giorno, lo spirito di sapienza che abitava, come in un tabernacolo, nel casto cuore d’Isabella, si rivelò ne’ suoi consigli.

L’erede dello scettro raccoglieva salendo il trono, i frutti degli scialaqui e de’ vizi moltiplicatisi, mercè l’impunità, sotto i due regni precedenti.

Lasciando stare le ribellioni e le fazioni interne, Isabella vedeva prepararsi, come una formidabil procella, l’invasion portoghese, la quale poteva combinarsi con un attacco de’ Francesi, e incoraggiare le scorrerie de’ Mori sempre pronti a combattere: inoltre l’intera Castiglia non l’aveva punto riconosciuta quale sovrana. L’Estremadura apparteneva al suo nemico, duca d’Arevallo, e la nuova-Castiglia veniva sollevata dal giovane marchese di Villena, figlio dell’antico favorito.

In tale imbarazzo Isabella non poteva sperare alcun soccorso dall’Aragona, rifinita d’uomini e asciutta di danaro. Per lo contrario, il suo più grande inciampo le veniva proprio da quel lato. Il principe ereditario, don Ferdinando, il quale non aveva recato alla Castiglia altro che creditori e nemici, pretendeva di governarla, solo, in suo proprio nome: faceva valere diritti suoi personali, e, inoltre, l’uso dell’Aragona, la quale escludeva dal trono le femmine. Quantunque avesse già vissuto cinque anni collo sposo di sua elezione, e gli fosse affezionatissima. Isabella non voleva assoggettare a lui i destini del suo regno: [p. 113 modifica]era piena di deferenza per lui, sapeva apprezzarne la prontezza della intelligenza, e l’assiduità al lavoro; ma non si lasciava abbagliare dalla sua tendenza alle astuzie diplomatiche; e sebbene rendesse giustizia alla sua abilità, non lo credeva però abbastanza savio da poter reggere da sè le Spagne di cui il genio femminino d’Isabella aveva audacemente concepita l’unità.

I consiglieri castigliani supplicavano la regina di conservare intatti i suoi diritti. I consiglieri aragonesi stimolavano il re a non ceder nulla delle sue pretensioni. Finalmente il cardinale di Mendoza e l’arcivescovo di Toledo, pigliati quali arbitri della controversia, riconobbero che spettava alla regina di governar la Castiglia. La sentenza arbitrale fu annunciata alla presenza dei Grandi del regno. Questa decisione offese così fortemente l’orgoglio aragonese di don Ferdinando che parlò di abbandonare la regina, e di ritornare negli stati paterni.

Ma con quella superiorità di ragione che la guidava in ogni cosa, Isabella approssimandosi al monarca irritato, e pigliandolo per mano, gli disse, colla sua voce persuasiva, alcune parole così piene di affetto e di saviezza, che la storia le ha raccolte. Il candido cronista Vallès le riferisce sotto questo semplice titolo: «Amoroyo ragionamento»: ma se Vallès ha riconosciuto nelle parole della regina il ragionamento dell’amore, noi vi troviam altresì l’amore della ragione. Il linguaggio d’Isabella, in quel momento decisivo per la sorte della Spagna, non fu che un’ingegnosa equazione fra la ragione e l’amore, fra ’l cuore e lo spirito; maraviglioso equilibrio del dovere e della tenerezza. In brevi parole la regina dimostrò che sarebbe di reciproco vantaggio governare ciascuno i propri Stati, prestandosi vicendevole assistenza, e riunendo due nomi, due corone, due scettri in una sola volontà. Il re, soggiunge mastro Vallès, «maravigliando della prudenza della regina, la lodò assai di quanto ella aveva detto; e terminò dichiarando ch’ella meritava di regnare non solamente sulla Spagna, ma sul mondo.»

Rendendo quest’omaggio alla regina Ferdinando credeva forse di aver lasciato cadere dalle sue labbra solo un fiore di cortesia; aveva invece portato sulla sua nobile compagna tal [p. 114 modifica]giudizio che la storia ha confermato e sussiste registrato nella memoria riconoscente di una intera nazione.

Quella Donna meritava infatti di regnare; pareva creata pel comando. Sapendo che ogni potestà viene da Dio, che la responsabilità di un sovrano si misura in proporzione della sua medesima possanza, ella si teneva pronta a rendere ragione de’ suoi atti davanti l’Eterno e davanti la posterità. Non si può negare che la regina fosse infinitamente superiore al re per l’istruzione, per l’elevazione de’ pensieri, la scelta degli uomini e dei mezzi, e per una rettitudine che non aveva pari: ma siccome le controversie di Ferdinando colla Francia, l’Italia, le Fiandre, l’Austria, lo posero a contatto colla diplomazia di tutta l’Europa; e che, dopo la morte della regina, egli occupò la scena politica per undici anni, operando e governando da solo, così la storia ha attribuito a lui moltissimo, non facendo la debita attenzione al regno d’Isabella. Favellando di Ferdinando il Cattolico, gli scrittori hanno dimenticato che questo glorioso soprannome era unicamente il premio dello zelo d’Isabella, e ch’ella aveva gettato sopra di lui un riflesso non perituro.

Quantunque il nome di Ferdinando fosse il primo in capo a tutte le ordinanze, e che le monete e i sigilli dello Stato portassero la doppia effigie di Ferdinando e di Isabella, è fatto però costante che la regina governava da sè, e secondo la sua unica volontà il regno di Castiglia, a tale che gli Spagnuoli non dicevano il re e la regina, ma sì bene i due re, o semplicemente «i Re,» per dinotare i due sovrani.

Secondo l’ingegnosissima osservazione dell’illustre padre Ventura di Raulica, «Ferdinando non era che la mano destra, la spada del regno; Isabella n’era l’anima e il consiglio. Sarebbesi detto che Ferdinando non era che la moglie, la regina di questa gloriosa dignità regia, e che Isabella n’era l’uomo ed il re. La Donna Cattolica, t. II.

Noi parleremo di essa sola; poichè non solamente le appartiene il disegno e il principio delle maggiori cose; ma queste cose furono risolute da lei prima di possedere la corona, anzi prima di avere obbligata la sua mano al re di Sicilia Ferdinando di Aragona. Il trattato del 5 marzo 1468, base di questo [p. 115 modifica]contratto di matrimonio, specificava già la guerra contro Maometto. La cacciata dei Mori e della Mezza-Luna, questa prima parola della politica d’Isabella, conteneva implicitamente l’unità spagnuola, l’assodamento del Cattolicismo, la diffusione dei lumi, l’ingrandimento del territorio, la concentrazione del potere e la ristorazione dell’autorità legittima.


§ III.


Sendosi i faziosi sollevati al segnale convenuto, il re di Portogallo entrò in Castiglia alla testa di ventimila uomini. Egli procedeva a piccole giornate, spiegava un fasto insolente, dava feste come un trionfatore dopo la vittoria; e non si preoccupava per niun modo dell’esercito spagnuolo, perchè sapeva la penuria di Isabella, presa così alla sprovvista, che non aveva nè tesoro, nè soldatesche, e pativa di una gravidanza avanzata.

Egli non conosceva punto Isabella.

Passando i suoi giorni a cavallo, e le notti a spedire corrieri, Isabella accorreva a rianimare lo zelo della città del Mezzodì, mentre dal canto suo il re Ferdinando levava in fretta un esercito. Ell’aveva vestita un’assisa di guerra, e cinta la sua valente spada, fina lama di Toledo, capo lavoro dell’armaiuolo Antonius. Questa spada, pieghevole e forte, non aveva che un’elsa d’acciaio brunito, adorno secondo il gusto moresco; da un lato vi si leggeva la impresa: Io desidero sempre l’onore: dall’altro: Ora io veglio: pace con me. Isabella si pose alla testa delle milizie di Segovia, e di Avila; ma le armi erano meno rare del danaro, e i soldati abbondavano più delle provvigioni. Dopo mandati al re suo consorte i diecimila marchi d’argento che le aveva fatti avere l’amica della sua infanzia Beatrice Bobadilla, non rimaneva neppure un ducato per mantenere l’esercito. Il vecchio re di Aragona suggeriva in tale estremità a suo figlio uno spediente che la lealtà d’Isabella non poteva approvare.

La regina, che dopo la sua prigionia d’Arevallo non aveva cessato di trovar conforto e sostegno nell’Episcopato, fece nobilmente appello all’amor patrio di questo: convocò [p. 116 modifica]immantinente le Cortes a Medina del Campo, e chiese loro un prestito sugli argenti delle chiese. Il Clero, affezionato alla pia sovrana, la contentò subito del suo desiderio; e tosto si levarono soldati da tutte parti; pareva uscissero di terra. In poche settimane Isabella pose in armi l’esercito dell’Ovest, di cui ella stessa assumette il comando: trasferì la guerra a’ confini, e gettò sul Portogallo schiere in sì buon numero, che il re Alfonso fu costretto dividere le sue genti per soccorrere lo Stato, assalito alle sue spalle. Mentre Ferdinando cercava di combatterlo di fronte, Isabella rompeva le sue comunicazioni e con isquadroni leggeri ne disertava le terre. Finalmente, dopo diversi parziali affronti, una campale giornata guadagnata da Ferdinando costrinse Alfonso ad una tregua.

I Francesi, che, alleati de’ Portoghesi, avevano posto assedio a Fontarabia, ed erano venuti per ben due volte ad assalire la Biscaglia, stracchi della difesa ostinata di cui er’anima la Regina, rivalicarono i monti. Allora, la mercè del cardinale Mendoza, fu conchiusa tra Francia e Spagna una sospensiva d’armi, preliminare della pace definitiva col Portogallo.

Ma questa pace, che doveva far riposare i suoi popoli, non fu per Isabella che l’occasione di maggiore operosità. Rimosso ogni timore dei nemici di fuori, ella pigliò a combattere que’ di dentro, vo’ dire i pregiudizi inveterati, e i vizi legittimati dall’incuria dell’interno reggimento.

Per prima cosa bisognò provvedere alla sicurezza delle strade, alla protezione delle persone e delle proprietà, all’esecuzione delle leggi, assicurarsi dell’integrità e della capacità dei giudici, ristabilire il credito dei valori pubblici, e il titolo delle monete, impedire la loro alterazione, a cui, sotto il regno precedente, si osava dar mano pubblicamente, lo che gettava nel commercio sì fatta confusione che ne sospendeva ogni transazione importante, e lo riduceva, pei giornalieri bisogni, allo scambio degli oggetti in natura. Isabella ridusse a cinque le zecche che battevano moneta, e le collocò sotto una rigida vigilanza.

Per impedire che i villaggi venissero sperperati, i mercanti multati, i viaggiatori presi e costretti a riscattarsi, oppur uccisi bisognava una forza mobile e rispettabile; ma, stante la inopia [p. 117 modifica]del tesoro, come pagarla? Alatala dal suo intendente generale delle Finanze Alonzo di Quintanilla, uom di elevata intelligenza, virtuosamente affezionato, Isabella creò brigate di gendarmeria, cuadrillas, le quali furono equipaggiate e mantenute a spese della borghesia, e un corpo di duemila cavalieri si trovò tutto allestito, pronto a perseguitare e imprigionare gli assassini sulle strade, ed a far eseguire i decreti della giustizia, senza gravare menomamente lo Stato. Subito dopo la regina giunse a Siviglia, per dare ai giudici l’esempio dell’imparzialità, dell’assiduità, e altresì di una salutare inflessibilità.

Isabella teneva da Dio il dono di giustizia, da lei ardentemente invocato. L’Eterno le avea data per giunta la scienza dei principii del diritto, l’amore della giurisprudenza, l’istinto della legislazione e dell’ordinamento giudiziario, quella penetrante lucidità e quella sottile rettitudine che scernono i veri principii in mezzo alle complicazioni più perplesse de’ conflitti e delle competenze. Fu veduta, cosa fino allora inudita, una donna raccogliere in Codice le leggi, riorganizzare la giustizia, creare giurisdizioni, scegliere i magistrati, giudicare i giudici, correggere le loro sentenze, riformare i loro decreti, e costituirsi, con grande soddisfazione del popolo, tribunale d’appello e corte di cassazione, infino a che la giustizia fosse stabilita sulla sua vera base ne’ suoi Stati.

In memoria della passione e della morie del Salvatore, ogni venerdì, la pia Regina dava udienza a chiunque soffriva moralmente, e riceveva benigna le querele che ogni più misero portava al suo tribunale. Ma se accoglieva misericordiosamente i poveri e gli oppressi, er’altresì inesorabile verso de’ colpevoli.

Isabella assegnava, come uno de’ suoi principali benefizii, alle popolazioni, magistrati integri ed istruiti, surrogando così i giudici ignoranti che disonoravano le loro funzioni. Incaricò una Commissione che coordinasse gli statuti e gli editti di Castiglia; poichè la confusione si era introdotta anche nella legislazion del regno, in cui si noveravano sino a nove Codici divergenti, aventi autorità quasi eguale. Il sapiente giurista Dias di Montalvo, dottore in diritto e in teologia, fu eletto per introdurre ordine e unità in questo caos: il suo lavoro, che durò più di quattro [p. 118 modifica]anni, fa stampato con titolo di Ordenanzas reales. Isabella fondò cattedre di diritto; e, affine d’incoraggiare questo studio, riservò tutte le magistrature ad uomini provati da gradi conferiti pubblicamente. Ella medesima assisteva spesso agli esami, ed al conferimento dei gradi, i quali erano i soli che menassero alle pubbliche cariche. I giureconsulti crebbero in favore, ed ogni dottore in diritto ebbe grado di cavaliere. Ne’ suoi viaggi la Regina si faceva talvolta portare a palazzo tutte le carte di un processo per rivederle, e per conoscere ocularmente come fosse stata amministrata la giustizia.

Ma i grandi feudatari della Corona, che si attribuivano nelle loro signorie diritto di alta e bassa giustizia, considerarono come un attentato ai loro privilegi questa riforma della pretesa giustizia che veniva resa in loro nome nelle loro castellanie. Molti di que’ baroni ostentavano lusso principesco, e avevano eserciti a’ loro stipendii ed anche flotte: le loro particolari dissensioni straziavano lo Stato; prestavano il loro concorso aire, ma facendosi pagar caro la fedeltà da lor dimostrata nelle circostanze difficili.

Affine di ridurli all’obbedienza, senza usare della forza, Isabella, convocò le Cortes a Toledo. Quivi furono vietate quelle fortificazioni, mercè cui duravano impuniti malfattori decorati de’ primi titoli della nobiltà. Quivi vennero similniente proscritte le formole regie che certi baroni osavano adoperare nelle loro lettere. Per imporre un freno agli assassinii, denominati combattimenti singolari, venne proibito il duello, che fu qualificato alto tradimento.

Già era stato decretato l’appello alla giustizia reale da ogni sentenza pronunziata negli Stati di Castiglia. Siccome certi giudici traevano un lucro abusivo dalle spese di giustizia, la Regina ne fissò la tassa, o tariffa legale. Isabella volle allargare a tutti i suoi Stati questo nuovo reggimento amministrativo, e sottoporvi anche la Galizia, che, per una eccezione secolare, si era sempre sottratta all’autorità reale.

Durante l’assenza di Ferdinando, sendo la Regina a Valladolid, mandò il licenziato Garcia Lopez di Chinchilla, uomo fermo e versato nel diritto, assistito dal conte Ferdinando de [p. 119 modifica]Acunna, per procedere in Galizia al processo e castigo dei delitti che vi si commettevano con una ributtante tranquillità. Avendo questi commissari cacciati prigione alcuni opulenti malfattori, ne fecero esemplare giustizia. Fece romore sopratutto la condanna inflitta a due predoni rinomati; il cavalier Pietro di Miranda e il maresciallo Pero Pardo: fidenti nel loro tesoro, questi nobili scherani si tenevano sicuri da ogni processo criminale: appena imprigionati, offerirono grandi somme per evitare almeno l’ultimo supplizio; ma i commissari della Regina non ammisero componimento: il sangue del povero e le lagrime del debole furono espiate pubblicamente. Tale allora divenne il terrore dei delinquenti, che in tre mesi, da oltre millecinquecento ladri e omicidi, prevenendo i processi, fuggirono dal paese.


§ IV.


Sì gravi abusi non aveano messo radice senza recare, altresì, gran danno alla religione. La rilassatezza de’ costumi andava compagna dell’ignoranza del Clero, ed era penetrata ne’ chiostri.

Isabella seppe vegliare alla ortodossia della fede, del paro che alla dignità della Chiesa. Ella fece atto di autorità su certi ostinati contro le riforme d’abusi a cui si erano mollemente abituati. Si fa salire a più di un migliaio il numero de’ monaci che spogliarono la veste religiosa perchè non potevano conformarsi allo stretto ristabilimento della regola. L’episcopato, che in prima era offerto qual premio alle servilità di Corte, o qual esca alle ambizioni politiche, non fu da quel punto che il guiderdone della scienza e della purezza delle dottrine. Non paga di aver fondata la Giustizia, e purgato il Santuario, Isabella volle preservare i suoi Stati dalle poetiche seduzioni dell’incivilimento arabo, il quale invadeva lentamente i costumi de’ suoi popoli.

Ne’ disordini de’ regni precedenti, le scienze e le lettere corsero un gran pericolo. Molti giovani spagnuoli avevano preso, come scolari, a frequentare le più celebri università dei Mori. Primieramente vi studiavan l’arabo, affine dì poter [p. 120 modifica]comprendere i dotti scritti pubblicati o tradotti in quella lingua; da che erano nati vincoli di amicizia e di confraternità cogli Infedeli e una tolleranza pericolosa per l’ortodossia. Gli Arabi invitavano ai loro tornei i cavalieri cristiani; e questi rispondevano a tale cortesia con uno scambio d’inviti. Certe denominazioni arabe facevano trapasso nella lingua spagnuola; i cristiani pigliavano a prestito forme di acconciamento, di bardatura e di arme dai Mori più eleganti di Velez e Granata. Perfino nelle miniature dei libri ascetici ficcavansi reminiscenze arabe. Le imprese de’ cavalieri castigliani erano conosciute dai Mori; e dal canto loro i migliori gentiluomini sapevano i nomi de’ principali guerrieri arabi. I Mori simulavano altresì una specie di cavalleria. Gli aneddoti del Generaliffo, le filastrocche delle odalische dell’ Alambra si ripetevano sui balconi di Siviglia e ne’ gabinetti di Cordova. Si commentavano le controversie dell’Harem di Abul-Hassan, le gelosie sanguinarie della favorita Zoraya e il maschio carattere della sultana Aïxa, soprannominata la casta la horra. Le costumanze de’ Mori venivano insensibilmente adottate dagli Spagnuoli, al punto che don Alfonso de Aguilas avendo rifiutato la sfida del conte di Cabra, i suoi pari gli applicarono il Codice del duello pubblicato da un re moro, e la sua effigie, attaccata alla coda di un cavallo, fu tratta in mezzo agli Infedeli, secondo le leggi della loro cavalleria.

Il padre e il fratello d’Isabella avevano avuto al loro servizio maomettani. Gentildonne cristiane avevansi frequentemente servi mori: cristiani coabitavano con mori. Arabi damerini, bellimbusti in turbante, osavano mescolarsi colle castigliane a’ passeggi, a’ combattimenti dei tori, e venirle a spiare alla lor uscita di chiesa. I poeti dei due culti scambiavansi l’armonia de’ versi:qua un trovatore musulmano ritraeva ispirazione da una bella cristiana, là verseggiatori battezzati sospiravano in onore del velo o delle pantofole di una qualche invisibile figlia di cadì o di agà.

Isabella risolvette di richiamare i suoi sudditi da quest’ammirazione professata per maestri arabi, e di rendere più familiare fra i gentiluomini la lingua dd Diritto e della Chiesa, ritemperando nel suo elemento primitivo ii carattere della nazione. [p. 121 modifica]

Primieramente bisognava mettere in onore la scienza, lo che non era facil cosa. La nobiltà aveva in dispregio i libri, ed a vile l’insegnamento, non giudicando degni di sè che le armi. La vivacità del sangue, e i pregiudizi di casta mal si accordavano colla calma e l’assiduità degli studi. Affine di vincer gli animi coll’esempio, la regina si applicò al latino, e ricolmò di favori dona Beatrice Galindez che glielo insegnava: ella vi fece tali progressi che in un anno potè comprendere i sermoni, le tesi, gli ambasciatori, e risponder loro in latino, che allora era la lingua della diplomazia.

Il buon riuscimento della regina accese i begli spiriti della corte. L’ardore dello studio scaldò persino i vecchi,: chi non poteva leggere i classici in originale ne cercò avidamente le traduzioni. Perciò il gran cardinale di Spagna voltò in ispagnuolo l’Eneide, l’Odissea, Valerio Massimo e Sallustio per renderli accessibili al proprio padre, che non sapea di latino.

Diego Lopez di Toledo tradusse i commentari di Cesare; Alonzo di Palencia, le vite di Plutarco; l’arcidiacono di Burgos, Giovenale e Dante; Giorgio di Bustamente, Giustino Floro, Eliodoro; il padre Alberto Aguayo gli scritti di Boezio.

Per incoraggiarli la Regina gradiva gli omaggi dell’erudizione: accettò graziosamente le dedicatorie che le fecero Alonzo di Palencia della sua traduzione di Giuseppe, Antonio Lebrija, de suoi trattati di grammatica latina e spagnuola, Rodrigo di Santailla del suo vocabolario; Alonzo di Cordova delle sue tavole astronomiche. Isabella comandò al dotto Diego di Valera dì scrivere il compendio della storia generale di Spagna. I gentiluomini, anzichè disapprovare il sapere, cominciarono a vergognarsi dell’ignoranza.

Fernando Enriquez, e don Fadriguo di Portogallo seguivano i corsi dell’Università a Salamanca, ov’era visto salir cattedra un cugino del re, don Guttierez di Toledo, figlio del duca di Alba; don Fernandez di Velasco, erede del gran Conestabile di Castiglia, spiegava Ovidio e Plinio a numeroso uditorio.

Gli spiriti men gravi si davano alla poesia. I duchi d’Alba, di Albuquerque, dì Medina Sidonia, i marchesi di Vilena, di Vellez, di Astorga, i conti di Benavente, di Castro, il Visconte [p. 122 modifica]di Altamira ed anche il sindaco di Toledo Gomez Manrique, vivevano in palese familiarità colle Muse.

La preoccupazione contro l’attitudine letteraria delle donne ebbe a cedere vinta all’ammirazione che suscitava l’esempio della Regina. Divenute in breve in iscienza emole de’ gran signori, alcune belle dame li superarono nella poesia.

Dona Lucia di Medranno, commentando pubblicamente i classici a Salamanca, uguagliava i successi di Francesco di Lebrija, di cui l’Università di Alcala ammirò la eloquenza. Isabella Vergara, e dona Maria Pacheco erano egualmente dotte. La cronaca di Giovanni Vaseus asserisce che v’erano allora moltissime donne versate nelle letterature latina e greca, oltre le celebri sorelle Luigia e Angela Sigea. Angela, latinista elegante, iniziata all’arte musicale, suonava diversi stromenti. Luigia, per lo contrario, si limitava alla linguistica; ma vi era così eccellente, che potè indirizzare a papa Paolo III una lettera in cinque lingue: il latino, il greco, l’ebraico, l’arabo e il siriaco eranle familiari.

Nondimeno ciò che la Regina pregiava più assai del sapere e delle delicatezze dello spirito, era la purezza, la rettitudine dei principii, e una illuminata pietà.

Ella fissò accuratamente l’ordine delle preminenze, regolò l’etichetta, ne determinò le leggi, l’eccezioni, e ne impose strettamente l’osservanza. Sapendo che l’esempio deve venir dall’alto, non ammetteva al servizio della sua casa che donne di una riputazione più pura ancora del loro sangue; lavorarono in comune, avendo in palazzo abitazione e mensa: la loro conversazione formava il cuore, e ornava lo spirito delle donzelle di alti natali che Isabella raccoglievasi intorno per prima educarle, indi maritarle secondo l’occasion favorevole.

U tempo della Regina era distribuito con sì abile economia, che, dopo di aver presieduto il consiglio de’ ministri, data udienza, riveduti i processi, conferito cogli ambasciatori, lavorato coi suoi intendenti e segretari, soddisfatto agli esercizi di pietà, vegliato all’educazione de’ propri figliuoli, ella trovava ancor agio di cucire le biancherie del re Ferdinando. Lunge d’aver a vile i lavori d’ago, avvezza com’era ad addentrarsi nell’antichità profana, e nello studio de’ libri santi, ella confessava con una [p. 123 modifica]certa compiacenza, che il compagno ch’ella si era scielto non aveva mai messa camicia cui non avess’ella fatta colle proprie mani. Una pudica delicatezza le impediva cedere ad altre le cure della persona del suo volubile consorte.

Si può dire che la qualità dominante ed istintiva d’Isabella era un santo pudore. Le sue eccessive suscettività avevano vietato alle sue dame di entrare nel suo gabinetto mentre si vestiva. Le più gravi esigenze della malattia non carpivano veruna concessione alla vigilanza della sua castità.

Con siffatta superiorità di carattere, e con una impeccabilità di diportamenti cotanto ammirata, Isabella aveva fatto della sua corte una scuola d’onore; coltivava gl’intelletti, umanizzava le anime, temperava le spacconate così abituali al coraggio castigliano, e così nocive alla pace delle famiglie, ed avvezzava gli spiriti alla sommissione. La concentrazione dei poteri, non che la regolarizzazione delle forze e dei mezzi esecutivi impressero alla dignità regia d’Isabella un carattere di gagliardia e di maestà sin allora sconosciuto.


§ V.


Isabella voleva estirpare dall’Europa il Corano, che fioriva da secoli nella Penisola spagnuola: nondimeno, avara come una madre, del sangue de’ suoi sudditi, ripugnava a rompere guerra senza una necessità assoluta; ma accecati dall’orgoglio, i Mori medesimi tramarono la propria rovina.

Dopo chiesta la rinovazion di una tregua da lungo tempo spirata, improvvisamente, senza denunzia di guerra, gli Arabi, a tradimento e per sorpresa, occuparono la città di Zaccara. Questa perfida aggressione non rimase impunita. La presa di Alhama, rinomata per bagni magnifici, rispose in breve a cosiffatta sfida. Da quel momento la guerra continuò intermittente, accidentata, irregolare, come il suolo e il clima di quelle contrade. Isabella si propose, poichè fu costretta a prendere le armi, di non deporle se non dopo avere scacciata la mezza-luna fuori della cattolica Spagna: si munì perciò di una nuova armatura, la qual si vede tuttodì nell’arsenale di Madrid. La sua spada evvi più [p. 124 modifica]lunga della impugnata nella guerra contro il Portogallo, ed eziandio più ricca, con elsa dorata, con fodero di velluto azzurro chiaro, ricamato in argento. Recava l’elmo ornato del proprio monogramma, e un grazioso disegno di fiori copriva i suoi bracciali, la sua corazza e i suoi schinieri di acciaio.

Prima di entrare in campagna Isabella implorò le preghiere della Chiesa; perocchè il vero scopo di questa guerra era il trionfo della Croce. Tuttavia, invece d’imitare gli armamenti, tumultuarii delle antiche crociate, e di spingere le popolazioni cristiane in massa contra le popolazioni musulmane, la sua previdenza temette di suscitare il fanatismo, solito tirarsi dietro l’ingombro delle moltitudini, i disordini dello zelo indisciplinato, e l’abbandono dei lavori dell’agricoltura: l’umanità della Regina desiderava risparmiare il sangue, e il suo proselitismo di salvare le anime. Il suo genio concepì un piano di guerra tutto femminino, in cui la pazienza, l’abilità, e il valor personale dovevano, supplendo al numero, evitare un’enorme strage d’uomini, e assicurare il successo finale delle sue armi: consisteva in profittare delle rivalità intestine del nemico, indebolendolo a poco a poco, togliendogli successivamente le piazze-forti, affine d’isolare Granata prima di attaccare scopertamente questa altera città, l’orgoglio dell’islamismo in occidente.

Il piano d’Isabella era sopra tutto quello di far le viste di non averne, e di non dar a divedere il suo sistema di guerra. Solamente fra’ suoi più intimi ella diceva con finezza, scherzando sulle parole: «il melogranato si mangia l’un grano dopo l’altro» grano a grano se ha de comer la granada.


§ VI.


Virtù e pregi sì mirabili associati in una donna inducono la immaginazione a cercar impaziente di figurarsela qual ella fu di persona; e noi la contenteremo; chè per buona ventura le informazioni abbondano, e genti della sua corte ci hanno lasciato intorno a ciò le più precise particolarità.

La statura della Regina era di grandezza media, ammirabilmente proporzionata; squisita n’era l’eleganza: la sua [p. 125 modifica]persona, cedevole e insiem ferma, ascondeva la forza sotto il velo della grazia: la nobiltà del portamento palesava la sua indole; il suo aspetto rivelava la sua autorità. Avea capelli fini, lunghi, biondi, lucenti; pelle di una gran bianchezza; occhi offrenti quella rara mezzatinta che marita l’azzurro col verde trasparente; sguardo, che diffondeva una pura luce sulle sue guance, rimaste vermiglie non ostante le sue fatiche di regina, e i suoi patimenti di madre feconda; labbra castamente chiuse ad ascondere la perfezione de’ suoi denti. La serenità dell’anima respirava nella grazia pudica del volto, in cui la vigoria dell’espressione si appaiava alla soavità della forma.

Questa bellezza non procedeva ne dalla perfezione de’ lineamenti, nè dallo splendore del colorito, ma sì dalla purezza dell’ insieme in bellissimo accordo colla tranquilla espressione de’ pensieri. E perchè la Regina era un modello angelico di costanza e di castità, i suoi lineamenti avevano, per così dire, ricevuto la impronta dell’anima; ne costituivano la veste esteriore, e non avevano gran fatto da temere del guasto degli anni.

Diffatti, venendole meno la prima freschezza, il vellutato delle palpebre, lo splendere del colorito, e l’efflorescente armonia de’ contorni, che costituisce d’ordinario il secreto della bellezza, Isabella non aveva perduto punto della sua grazia; solamente la sua leggiadria era maturata come il suo spirito. Questa donna, giustamente chiamata dal signor Montalembert, «la più nobile creatura che avesse unqua regnato su d’uomini,» presentava quasi un tipo maraviglioso, che fu veduto parzialmente riprodotto e scompartito, quasi porzioni di eredità, nelle quattro sue figlie.

Lungi dall’esagerare coll’ammirazion nostra la bellezza d’Isabella, scoloriamo invece colla nostra rozza prosa questo nobile suggetto di pittura. Lo spazio ci manca. Il nostro disegno ci condanna al più stretto laconismo. Quanto abbiam detto è molto al dissotto di quello che pensiamo; e ciò che pensiamo non può eguagliare, e molto meno superare quello che ci narrano di lei gli annalisti contemporanei e i cronisti officiali.

Non citeremo i poeti, i retori, gli scrittori di corte; non vogliamo mentovare che le testimonianze rese alla sua memoria [p. 126 modifica]da tali che tacquero fino ch’ella fu viva, e le cui lodi postume non potrebbero quindi essere sospette. Sceglieremo, per giunta, espressamente i giudizi di vescovi, di religiosi e di ecclesiastici avuti dalla Spagna in assai credito.

Il buon curato di Los Palacios, Andrea Bernaldez, nella sua storia manoscritta, gridava, colla sua pia e semplice schiettezza di ammirazione: «chi potrà numerare le perfezioni di questa cristianissima e beata regina, la più degna di essere sempre lodata? lasciando stare la sua castità per eccellenza, e la sua nobile origine, ella trasse dalle tante doti onde nostro Signore l’aveva adorna, il mezzo di superare e di eclissare tutte le regine che vissero prima di lei, non solamente in Ispagna, ma nel mondo intero!» Rispetto alla fede, egli la paragona a sant’Elena, madre del gran Costantino. Ricorda il suo zelo per la Chiesa, l’epurazione che fece del clero, la sua vigilanza sui monasteri, la sua sincera pietà, la sua veracità intima, la sua politica lealtà, la sua sommissione alle volontà del suo reale sposo, la sua liberalità verso i chiostri e le chiese. Solo dopo aver parlato delle virtù della regina ragiona della bellezza della donna, delle armoniche sue proporzioni, del suo gesto sì nobile, e del suo inimitabile contegno.

Il Francescano di Valladolid, autore anonimo del Carro de las donnas, avendo veduto co’ suoi occhi la Regina, prova il medesimo imbarazzo a parlare di quest’anima immensa, che l’arcicronografo imperiale Oviedo chiama un oceano di virtù. Egli sclama: «chi potrebbe raccontare i savii regolamenti che questa regina cattolica fece per la sua casa e per la sua persona?... Egli riferisce che non solo questa cristianissima principessa educò i suoi figli ad una gran perfezione, ma che fra le dame e le donne del suo palazzo tutto era santità. Questo Francescano, dopo aver detto alcunchè della pietà filiale di Isabella, noverate le sue doti, ciascuna delle quali era una virtù, e mostrata l’impossibilità di celebrare una tale riunione di eccellenze, rende omaggio alla sua bellezza che comandava rispetto. Egli vorrebbe poter descrivere alcuno de’ suoi lineamenti, e ricordare l’armonia delle sue proporzioni, e il suo inesprimibile decoro di portamento reale, e insiem modesto. [p. 127 modifica]

Il continuatore della storia palentina, il vescovo Rodrigo Sanchez de Arevalo, dichiara apertamente che la natura non ha mai prodotto, e che la Provvidenza non ha mai decorato del diadema donna che si possa paragonare alla cattolica Isabella; perocchè ogni altra è venuta meno al proprio dovere in qualche occasione, laddove, seguendo Isabella dalla culla alla tomba, la si vede superare in magnanimità tutte le donne che la precedettero. Egli pensa che la purezza in lei fu tanto perfetta, da non poterlasi supporre unque caduta in colpa mortale.

Il siciliano Lucio Marineo, cappellano del re di Aragona, provandosi a parlare di Isabella, non può esprimerne le tante attrattive. Egli chiama Isabella, «tutta la felicità delle Spagne, tutto l’onore della nazione, e il più bell’esemplare di tutte le virtù.

Il venerabile don Juan di Palafox, vescovo d’Osma, trovava una certa quale conformità morale tra santa Teresa e la regina Isabella, e diceva ciò secondo le somiglianze del loro stile epistolare, il loro modo di concepire le cose e le forme del pensiero; e ne arguiva con bella sagacia, che se la Santa fosse stata regina sarebbe stata un’altra Isabella; e che Isabella sarebbe stata un’altra santa Teresa nella vita religiosa.

E perchè non si creda che il tempo abbia potuto aggiungere i suoi prestigi alla memoria di questa maestà, evochiamo un testimonio oculare, il protonotaro apostolico Pietro Martire di Anghiera, letterato rinomatissimo, il quale scriveva al celebre Pomponio Leto: «tieni in conto d’un foglio sibillino, o Pomponio, ciò che sono per dirti: questa donna è più forte di un uom gagliardo, superiore ad ogni anima umana, un modello ammirabile di decenza e di onestà. Non fu mai che la natura facesse in parte alcuna del mondo femmina che si potesse a lei paragonare. Non è ella una maraviglia o Pomponio, che le doti che sono men femminine al mondo, sovrabbondino naturalissimamente in questa femmina stupenda?»

Il tempo diè ragione al protonotaro apostolico: nulla smentì il suo giudizio: solamente la virtù d’Isabella non fece che distendersi e andar crescendo cogli anni. Il dolore la nobilitò, e i patimenti le impressero la l loro consecrazione. Più tardi il [p. 128 modifica]medesimo scrittore, volendo, fra tanti tesori dell’anima, notare la virtù più caratteristica d’Isabella, nominò la castità. Per integrare il suo pensiero, Pietro Martire aggiunge, che, dopo la santa Vergine, nessuna donna fu più casta d’Isabella.

L’autorità di queste gravi testimonianze è tuttavia minore di un giudizio più eminente, quello di un uomo veramente straordinario, che rimase umile amante della povertà in cima agli onori, quantunque fosse grande arcivescovo, gran cardinale, gran ministro ed eziandio gran capitano; vo’ dire il francescano Ximenes Cisneros.

Dopo ritratte le sublimità della Regina, ch’ei riveriva con ammirazione, Ximenes dichiara, che nei mondi del nostro sistema planetario, non fu mai che il sole illuminasse donna pari a lei. Questo sant’Uomo fece tale affermazione perchè aveva lavorato con Isabella, per lei e sotto di lei; perchè fece parte dei suoi consigli, visitò la sua coscienza, conobbe la sua fervorosa pietà, e misurò la sorprendente profondità de’ suoi disegni amministrativi.

La brevità che ci è imposta ci vieta dare l’intero ritratto dell’ammirabile Donna, che fu un sì gran re: quindi ci restringiamo a dichiarare che Isabella fu la personificazione del genio cavalleresco della sua età e della sua nazione. Nessuna donna accoppiò sul trono una fede più sincera ad una prudenza più consumata. Manifestamente sovra suoi disegni e suoi atti posò la benedizione del Cielo: il buon riuscimento giustificò tutte le sue imprese: ingrandì il piccolo regno, che l’era tocco sgominato, sollevandolo al grado di potenza di prim’ordine, chiamandosi intorno gli uomini di maggiore ingegno e i più sinceri nell’affezione alla patria: Dio permise che la sapienza de’ suoi consigli superasse quella de’ suoi consiglieri.

Isabella compiè il principal fatto della politica europea, la cacciata de’ Musulmani. Mercè d’Isabella si compiè l’avvenimento più prodigioso dell’Umanità, quello che addoppiando la sua signoria terrena ampliò indefinitamente l’orizzonte delle sue investigazioni scientifiche.