Da Quarto al Volturno/Da Milazzo a Messina

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Da Milazzo a Messina

../Da Palermo a Milazzo ../Marcia trionfale verso Napoli IncludiIntestazione 12 settembre 2008 75% romanzi

Da Palermo a Milazzo Marcia trionfale verso Napoli

Dov’è, che cosa è Milazzo? Sono corso a vedere la carta; eccolo tra Cefalù e il Faro, una lingua sottile, che si inoltra e par che guizzi nel mare.

D’oggi in là quel po’ di terra scura, col castello di cui sento parlare, non mi verrà mai vista con la fantasia tra l’acque azzurre, senza che la visione si mescoli di file rosse correnti come rivi di sangue in mezzo al verde dei fichi d’India, pei canneti, nel letto secco dei torrenti, sulla riva del mare torrida e bianca. Medici, Cosenz, Fabrizi, profili austeri balenarono qua e là: non li conosco, ma ormai gli eroi so immaginarli, so come Garibaldi li fa. E vedrò passare, quasi fuga di forsennati in mezzo ai nostri, un gruppo di cavalli napoletani. Che vogliono, dove vanno? Intorno al Dittatore appiedato si fa un cerchio di quei cavalli, un arco di spade, di lancie turbina su di lui, suona fino ai più lontani del campo un urlo di gioia, di ferocia borbonica; ah quello può essere il momento che salvi la corona a Sofia! Ma Missori e Statella sentono che nel gran poema questo sarà il loro canto: e dalla pistola girante del Lombardo gentile, dalla spada del Siracusano cavalleresco, esce la morte meravigliosa. Fuggite, o lancieri! Il vostro capitano vi condusse da Messina promettendo la testa del Leone, ma non lo vedrete più. Cadde dal suo cavallo colla gola tagliata dal Dittatore. Egli è nella polvere. E Garibaldi dal Veloce che venne fulminando per l’alto mare ad offrirsi, torna a mettersi nella battaglia colle sue grandi ispirazioni di marinaio.

Il canto del poema finirà narrando del vecchio castello, dei fuggenti a ricoverarvisi, di Bosco, inutile prode, che avrà per grazia del Dittatore spada e cavallo, mentre che ne uscirà patteggiato. E al Veloce, sopraggiunto, come fosse stata l’anima del morto Magiaro, si darà il nome di Tuköry, l’eroe di Porta Termini.



Catania, 24 luglio.

Parte la Compagnia straniera di Volf. La conduce verso Taormina il capitano Giulio Adamoli, un giovinotto lombardo tutto delicatezza e bravura. Vanno a vedere se da Messina si è mossa gente borbonica per affrontarci, e domani partirà la brigata.



27 luglio.

Arrivarono polverosi, ma abbaglianti; la banda in testa suonava una marcia guerriera. Bixio, su d’uno stallone pece che gli brillava sotto leggero come una rondine, la faccia bruna incorniciata dal capperuccio candido, pareva un Emiro che tornasse da una spedizione misteriosa nel deserto. Volteggiò spigliato cogli ufficiali che aveva dietro, si piantò in un punto della piazza in faccia all’elefante di pietra che sta là sonnolento: a un suo comando la fila si spezzò, i battaglioni piegarono, voltarono rapidi, giusti, attelati, e si fermarono in un bell’ordine di colonna che parea fatto di soldati messi là uno alla volta. Questo è un reggimento da presentargli le armi i più vecchi del mestiere. Ne parlai con gli amici, e mi hanno detto che attraverso l’isola Bixio non gli ha lasciati riposare un istante. I soldati per le marce forzate, furono più d’una volta sul punto d’ammutinarsi: ma sì! chi oserebbe essere il primo con quest’uomo che non mangia, non dorme, non resta mai?

Non saprei perchè, ma egli entrando in Catania non pareva guari contento. Anzi gli cresceva quella minaccia che ha sempre tra ciglio e ciglio.

Chi sa come vada d’accordo con quel capitano che gli vidi a lato e che dev’essere suo Capo di Stato Maggiore? Colui sta a cavallo colle gambe spenzolate come fossero di cenci ma nella vita pare corazzato. Ha i capelli a lucignoli scialbi come la pelle, guarda che pare lì per addormentarsi. Ma sotto i mustacchi, uno più lungo dell’altro e cadente, la bocca ride sempre d’un riso sprezzatore, mentre l’orecchio pare teso ad ascoltare rumori misteriosi, lontani. Mi dicono che sia un alto ingegno venuto su dall’esercito piemontese. V’era sottotenente dei bersaglieri sin dal quarantotto; ma per non so che sdegno patriottico ne uscì, quando avvennero i fatti di Milano nel cinquantatre. Tutti mi hanno l’aria di star in guardia da lui; buon compagno d’armi ma derisore che dove tocca scotta o leva il brano. Prenderebbe in canzonatura magari il Dittatore; ed io lo chiamo Mefistofele in camicia rossa. È Giovanni Turbiglio.



Giardini, 28 luglio.

Aci Reale, Giarre, Giardini, tre cittadette che il mare le vuole e l’Etna le tira a’ suoi piedi come schiave. Si va, si va e sempre questo monte che non finisce mai di mutare aspetti, sempre quelle sue falde fresche d’ombre che uno le gode con gli occhi, tirando innanzi a camminare divorato dal sole, nella strada gialla, polverosa di lava, sulla quale danza un calore che a stender la mano par di palparlo, rete di metallo infocato.

A destra, fin dove può l’occhio, un azzurro di mare che non somiglia punto a quel di Liguria, nè a quello là di Marsala. È il nostro bel mare, per tutto, ma qui ha trasparenze profonde, lontane, direi successive come i cieli di Dante. Forse ha senso di godimento sotto questo sole che gli penetra sin nel fondo; perchè in quest’ora di mezzodì ha quasi un’aria di infinita bontà. Mi fiderei di dire che vi si può camminare sopra a piedi asciutti, e a guardarlo m’entra nell’anima la soavità squisita di cose intese da fanciullo, i cieli, i laghi, le buone genti di Galilea.

Ma là, oltre quell’ultima linea che altrove par finire in un balzo pauroso alla fantasia, s’indovinano terre come queste e più deliziose. La Grecia non potè, non potrebbe essere che laggiù. Par di sentire un profumo d’antico e un suono da quella parte venuto in qua nell’aria, nell’acque; dolce oggi come allora quando Virgilio cantava gli amori dell’Alfeo con l’Aretusa.

* * *


E Sant’Alessio è un fortino lì sulla via, fatto anticamente per dar da ridere ai barbareschi. Non v’è una guardia, ma quel vecchio cannone da quella balestriera come parca che ammiccasse! Raveggi, passando meco a piè del forte, mi disse: «Ecco il mio sogno! Aver quarant’anni e più ed esser messo qui con quattro veterani slombati. Me ne starei sdraiato ora su d’uno spalto ora d’un altro, guardando il mare attento attento, invecchiando adagio adagio, bevendo a sorsi la vita, il vino e le fantasticherie della mia testa».



In riva al mare.

Comincio a vedere chiara l’ultima punta di Spartivento. Quando da giovanetti dicevamo in versi: Dall’Alpe a Spartivento! io questi azzurri gli aveva indovinati, veduti, respirati. Ma ora non mi proverei neanche a descriverlo il digradarsi di tinte turchine, tante sfumature quanti sonvi piccoli promontori sin laggiù dove troveremo Messina. E quelle linee là oltre lo stretto che paiono guizzi nell’aria, tutti monti della favolosa Calabria, dove chi pose piede coll’armi in pugno sempre morì?

Silenziose, gravi, fumose come avessero Pensieri tristi, le navi napolitane vanno e vengono per lo Stretto. Passare all’altra riva, ecco il problema. Ma il Dittatore vive.



Messina. 27 luglio.

Sul piano di Terranova, tra la città e la cittadella, stanno due file di sentinelle, borboniche e nostre. Tra le due file una ventina di passi, terreno neutrale. Le sentinelle si guardano, appiccano discorso, tirano innanzi un pezzo, poi o si fanno il broncio, o qualcuna dalla parte borbonica piglia la corsa e si rifugia di qua, gridando viva l’Italia, gettando berretto, budrieri, ogni cosa; mentre una turba di fruttaiole e di pescivendoli si fanno addosso al disertore per divorarselo a baci. Ma alle volte i nostri tentano gli altri invano, e scappa detta qualche impertinenza. Allora uno, due, tre borbonici lasciano andare la schioppettata, i nostri rispondono; ed ecco un allarme generale, un suon di tamburi e di trombe da noi e nella cittadella. Sui bastioni spuntano le teste dei cannonieri, le miccie fumano. Ma corre un ufficiale di Stato Maggiore, nostro, uno borbonico esce dalla cittadella; si incontrano, si parlano, si stringono la mano, poi danno di volta e tutto è finito. Commediole che fanno ridere, ma che a qualcuno costano care. Stamane la cittadella tirò persino una cannonata. La palla enorme sforò netto un casotto da doganieri, e andò rotolando lontano lungo il molo. I nostri corsero furiosi da tutte le parti, e vidi un mutilato giovane saltellare colla sua gamba di legno per tener piede ai più pronti. Agitava uno schioppo colla baionetta inastata, e gridava che era tempo di dar l’assalto.



Messina. Tornando da Torre del Faro. 28 luglio.

Sino a Torre del Faro è una deliziosa passeggiata. Per un tratto villaggi puliti anche assai; dopo, una landa sabbiosa via via fin dove balza la Torre bianca su da un mucchio di casupole grame. Poco verde là intorno; ma splende nel fondo il mare, poi la lontananza dove non si vede più che colla fantasia, chi n’ha.

In faccia a Torre del Faro, di là dallo Stretto, tira l’occhio una riga di verde cupo, a’ piè delle montagne, che paiono incalzarsi e venir giù rovinando per colmare i fondi del mare tra le due terre. Qua e là quel verde è interrotto da villaggi biancheggianti; sulla spiaggia move gente; file di armati luccicano di continuo di su di giù per una strada che deve menare a Reggio. In mare, le navi della crociera, che guardano qua dove si lavora di zappa e di badile, a piantare certi cannoni! Riconobbi tra quei ferravecchi la colubrina che portammo da Orbetello. La civettona sta là in batteria, allunga il collo verde fuori della gabbionata, un bel dì farà la rota come una tacchina. Ha una storia essa! Ma se i cannonieri che le fanno la guardia e la lisciano, sapessero le eresie che ci ha fatto dire da Marsala a Piana de’ Greci, la butterebbero in mare.

* * *


Il Dittatore se ne sta chiuso in una cameruccia a tetto là nella Torre, e intorno a quella accampano i Carabinieri genovesi. Non sono più i quarantasette di Calatafimi, drappello insuperabile per coscienza, ardimenti, virtù militare. Ma quelli hanno formato il quadro d’un battaglione che a Milazzo corse il campo come un uragano, e lo tenne dovunque apparve. Nè sono tutti liguri. Le loro file si sono aperte a giovani d’ogni parte d’Italia; e quei cinque o sei sopravvissuti all’eccidio di Sapri, che appena liberati dalle fosse della Favignana vollero vestirne l’uniforme, portarono nel battaglione un alito della grande anima di Pisacane.



Fiumara della Guardia, 9 agosto.

Ieri sera quando fu ben buio, venti barche si staccarono dalla riva di Torre del Faro, la prora diritta alla Calabria. Portavano ognuna dieci o dodici uomini armati, sull’ultima, ritto, gli accompagnava il Dittatore. Si innoltrarono nel silenzio dello stretto e presto furono perdute di vista. Le navi da guerra borboniche erano state sino a sera incrociando là in faccia; alcune si erano poi andate a porre dietro il promontorio di Sicilia, in quell’ombra vaporosa che, di giorno, veduta di qui, mi pare un sogno sereno avuto da fanciullo. Ma due erano rimaste nel bel mezzo del canale. I nostri in folla alla riva, stettero coll’agonia di sentire fra momenti l’urlo dei compagni sommersi: o forse qua e là per lo stretto sarebbero scoppiati gli incendi delle navi nemiche. Ma verso le undici il forte di Scilla balenò, una cannonata destò tutti i campi delle due sponde; poi si intesero delle schioppettate là nell’oscurità lontana; dopo, un silenzio come quando è calato il coperchio d’una sepoltura.

* * *


Ora si sa quel che avvenne. A mezzo lo stretto, il Dittatore, accertato che le barche non avevano più nulla a temere delle navi borboniche, lasciò che andassero innanzi, designandone per guida una dalla vela latina. E tornò di qua. Su quelle barche navigavano Alberto Mario, Missori, Nullo, Curzio, Salomone, il fiore dei nostri con un dugento volontari scelti, comandati dal capitano Racchetti della brigata Sacchi; capo dell’impresa Musolino da Pizzo.

Due barcaiuoli che v’erano mi narrarono, e narrando tremavano ancora che quando si avvidero del passo cui i nostri si andavano a mettere, essi non volevano più remare. Ma costretti, piangendo, pregando Maria e i Santi, tirarono innanzi con quei demonii. Nel buio alcune barche si staccarono dal gruppo e si smarrirono verso Scilla. I napoletani dal Forte avendole scoperte tirarono quella maledetta cannonata, appunto mentre il resto della spedizione toccava il punto designato, vicino all’altro Forte di Torre Cavallo e sbarcava scale, corde, arnesi d’ogni fatta per darvi la scalata. Nacque un po’ di confusione; le barche pigliarono il largo veloci, lasciando i nostri sull’altra sponda, nelle tenebre, senza guide, e alle prese colle pattuglie napoletane uscite dal Forte.

* * *


La nostra brigata era venuta qui per essere trasportata in Calabria se l’operazione di ieri notte riusciva. Occupiamo il greto d’un torrente, allo sbocco d’una vallicella allegra e ben coltivata. Nessuno ha mosso una pietra; non si vedono quei lavoretti che fanno i soldati per accomodarsi il campo dove sanno d’aver a stare: tutti si tengono come uccelli sul ramo pronti a volar via.

Fiumara della Guardia, 10 agosto.

Fra noi e i trecento nostri, il mare, le navi, e i borbonici dell’altra sponda!

Sono là in faccia, su quella costa di monte in quel verde pallido, sopra Villa San Giovanni, ma lontani, in alto. Vediamo del fumo che cresce, si allarga, si fa fitto; si sentono le schioppettate sorde. S’indovina col cuore che i nostri assaliti si difendono, superbi di combattere, trecento al cospetto di tutti i reggimenti accampati di qua, da Messina al Faro!

* * *


Ebbi un lampo nell’anima. Il desiderio di questa Sicilia che mi tirava a sè da tanto tempo, empiendomi la fantasia di delizie e il core di pene misteriose; quella certezza che aveva di trovare nell’isola, non sapeva chi, ma qualcuno conosciuto, caro, un amico; tutto mi veniva dall’aver letto, anni sono, il Dottor Antonio di Giovanni Ruffini. Me ne sono avveduto dianzi udendo rammentare questo libro, che mi tenne sull’ali tanti giorni dopo che l’ebbi letto. E fui lì per inginocchiarmi sull’arena, a ringraziare a mani giunte lo scrittore che dall’Inghilterra rivelò all’Italia questa parte delle sue terre, questo popolo qual è, o qual sarà, non importa.



11 agosto.

Una sfilata d’ufficiali. Quel colonnello quadrato, che camminando tentenna la testa grigia come minacciasse qualcuno dinanzi a sè, è un inglese che colla carabina coglie dove vuole. Si chiama Peard. Non ha un comando, ma tiene sempre dietro al corpo più vicino al nemico. Porta i suoi cinquant’anni come noi i nostri venti, fa la guerra da invaghito, tira in campo come a una caccia di tigri, ed ama l’Italia. L’altro che gli somiglia un po’ è il maggiore Specchi. Artista e soldato, ha sparso del proprio sangue dovunque si è combattuto per la libertà, in Italia e fuori, Non è mai stato al fuoco che non abbia toccata una ferita. L’ultima l’ebbe a Milazzo. Il Dittatore gli vuol bene come a un fratello; perchè hanno vissuto insieme pel mondo, dopo la caduta della Repubblica romana, adorando e sperando. Quello con gran barba, un po’ curvo, vestito di scuro, era De Flotte. Camminava a lato di Specchi, e come vecchi amici parlavano tra loro. De Flotte è una di quelle persone la vita delle quali si indovina alla mestizia serena, che hanno in tutto l’essere: e la fantasia vede la croce sotto il cui peso camminano stentando. Egli, rappresentante del popolo quando il colpo di Stato si gettò sopra Parigi, stette fino all’ultimo della resistenza, poi esulò. Credo che fosse ufficiale di marina. Qui non è che un uomo di buona volontà che rispose alla chiamata d’Italia come i Polacchi, gli Ungheresi, tutti i generosi d’altre patrie, che ci hanno portato le loro spade gloriose.

Vidi Nicola Fabrizi, una figura da Condottiero biblico. Se quest’uomo fosse comparso in un congresso di Re, a domandare giustizia per l’Italia, i Re si sarebbero alzati a riverire in lui il popolo che può dare un cittadino della sua sorte. Semplice, non mai accigliato, pare che spanda intorno un’aura di benevolenza; passa, e si vorrebbe mettersi a camminargli dietro, sicuri d’andar con lui a buona meta. Se un fanciullo gli si abbracciasse alle ginocchia in un momento che per Fabrizi fosse di vita o di morte, egli si chinerebbe a carezzarlo. Dai tempi di Ciro Menotti, va innanzi costui! Ha creduto, gli è cresciuta la fede ogni dì; non si è mai volto addietro; gli anni non gli han fatto cadere le penne, ed ebbe sempre certezza di vedere il gran giorno d’Italia. Ora che si comincia a sapere come il Dittatore potè lanciarsi a questa impresa, si sa che Fabrizi da Malta, Crispi e Bixio in Genova, gli hanno messo nella coscienza che l’Italia si deve farla in quest’anno o forse mai più.

* * *


Ho riveduto il maggiore Vincenzo Statella con un taglio di traverso nel naso, che rialza la fierezza impressa sulla sua faccia. Un ufficiale ungherese trottava da Torre del Faro, portando non so che ordini del Dittatore. A un certo segno si fermò a piè d’una batteria, chiedendo qualcosa a Statella che era lassù. Statella, o non badasse o non capisse, l’Ungherese gridò, Statella rispose stizzito. Quattro e quattr’otto, fu combinato lì per lì, di scambiare due colpi di sciabola; Statella ne toccò, l’Ungherese tirò avanti al suo destino.

Questo figlio di prìncipi, che ha il padre generale borbonico dei più vecchi e dei più devoti, capitò anelando a Palermo ad abbracciare il Dittatore, il suo vecchio capitano del 1849, venuto a liberargli l’isola. Chi l’avrebbe sognato? È di Siracusa. La sua nobiltà l’ha scritta in fronte; ma il suo coraggio!... Ne parleranno i lancieri borbonici potuti scampare a Milazzo da Missori e da lui.



15 agosto.

Il Veloce che nel 1848 era un legno da guerra della Rivoluzione siciliana, preso poi dai Borboni, fu ricondotto alla Rivoluzione da un Anguissola, e ribattezzato col nome di Tuköry. A Milazzo lavorò da buono; e l’altra notte il Piola, ufficiale della marina sarda, lo condusse a un’impresa che se riusciva!... Si voleva spingersi a Castellamare, impadronirsi del Monarca, vascello borbonico da ottanta cannoni, e a rimorchio menarlo qui, per piantarlo al Faro come una fortezza. Il Tuköry arrivò a Castellamare senza incontri. Era mezzanotte: il Monarca giganteggiava nero sull’acque. Pareva cosa fatta. Alcuni dei nostri bersaglieri del battaglione Bonnet, si calarono nelle lance per tagliare le gomene del Monarca; altri davano già la scalata; ma ecco l’allarme, le trombe, i tamburi, tutta la guarnigione di Castellamare corsa a far fuoco; e cannonate, e schioppettate a grandine. Fu forza rinunciare alla presa. Il comandante del Tuköry stimò inutile stare a farsi cogliere e si ritirò; ma lento come Ajace, a suo agio, lasciando i Napoletani a mitragliare le tenebre.

* * *


Spira un’aria di mistero che pare venga fuori da non so che antro. Non si è più visto il Dittatore da parecchi giorni, e chi dice che è via, chi vuole che se ne stia chiuso nella Torre del Faro. Come il Corrado di Byron, se ci fosse Gulnara!

* * *


Ho voluto dare una corsa fino a Giardini. Quella costa, quelle cittadette mi erano rimaste tanto nel cuore! Trovai per via molti amici della brigata Bixio, che tutti hanno ormai qualcosa di lui nel fare, nel dire, sin nella guardatura. Questo generale pare fatto per tempi come questi e per noi. Piglia la gente, la rimpasta, la rifà: con lui o fare, o rimanere spezzati in mezzo alla via. Uno sguardo, una parola; non basta? gli scatta via magari una sciabolata: e questa è la sola deformità del suo essere. Se ne lagnano tutti; ogni poco i suoi volontari vorrebbero abbandonarlo. È violento, è insopportabile! «Ebbene? Sotto chi preferireste servire? Sentiamo». «Ma!... eh!... sotto Bixio!». Infatti non ci sono in Italia trenta come lui. Se una palla lo toglie di mezzo, sarebbe come ad avere le nostre forze scemate a un tratto un bel poco: e se il Borbone avesse un ufficiale come Bixio, forse... ma no, non voglio scrivere questo pensiero. Dicono che Bosco vale lui? Eresia!

Bixio in pochi giorni ha lasciato mezzo il suo cuore a brani, su per i villaggi dell’Etna scoppiati a tumulti scellerati. Fu visto qua e là, apparizione terribile. A Bronte, divisione di beni, incendi, vendette, orgie da oscurare il sole, e per giunta viva a Garibaldi. Bixio piglia con sè un battaglione, due; a cavallo, in carrozza, su carri, arrivi chi arriverà lassù, ma via. Camminando era un incontro continuo di gente scampata alle stragi. Supplicavano, tendevano le mani a lui, agli ufficiali, qualcuno gridando: Oh non andate, ammazzeranno anche voi! Ma Bixio avanti per due giorni, coprendo la via de’ suoi che non ne potevano più, arriva con pochi: bastano alla vista di cose da cavarsi gli occhi per l’orrore! Case incendiate coi padroni dentro; gente sgozzata per le vie; nei seminari i giovanetti trucidati a piè del vecchio Rettore. «Caricateli alla baionetta!». Quei feroci sono presi, legati, tanti che bisogna faticare per ridursi a sceglier i più tristi, un centinaio. Poi un proclama di Bixio è lanciato come lingua di fuoco: «Bronte colpevole di lesa umanità è dichiarato in istato d’assedio: consegna delle armi o morte: disciolti Municipio, Guardia Nazionale, tutto: imposta una tassa di guerra per ogni ora sin che l’ordine sia ristabilito». E i rei sono giudicati da un Consiglio di guerra. Sei vanno a morte, fucilati nel dorso con l’avvocato Lombardi, un vecchio di sessant’anni, capo della tregenda infame. Fra gli esecutori della sentenza v’erano dei giovani dolci e gentili, medici, artisti in camicia rossa. Che dolore! Bixio assisteva cogli occhi pieni di lagrime.

Dopo Bronte, Randazzo, Castiglione, Regalbuto, Centorbi, ed altri villaggi lo videro, sentirono la stretta della sua mano possente, gli gridarono dietro: Belva! ma niuno osò più muoversi. Sia pur lontano quanto ci porterà la guerra, il terrore di rivederlo nella sua collera, che quando si desta prorompe da lui come un uragano, basterà a tenere quieta la gente dell’Etna. Se no, ecco quello che ha scritto: «Con noi poche parole; o voi restate tranquilli, o noi, in nome della giustizia e della patria nostra, vi struggiamo come nemici dell’umanità».

Vive chi ricorda d’una sommossa avvenuta per quei paesi lassù, sono quarant’anni. Un generale Costa v’andò con tremila soldati e quattro cannoni, ma dovè dare di volta senza aver fatto nulla.

E sul finire del secolo passato, il titolo di duca di Bronte, fu dato a Nelson. Bixio che titolo gli daremo? Non questo che fu di chi strozzò Caracciolo!

Messina, 18 agosto.

Il Dittatore non è più a Torre del Faro, nè a Messina, nè in Sicilia: si sente da tutti come qualcosa che sia venuto meno nell’aria, nella natura, in noi: ma nessuno osa dire nè chiedere che sia stato di lui. Pare che ognuno temerebbe di sentirselo galoppare addosso gridando: «Tu che vuoi sapere?»,

Intanto s’odono dei discorsi cozzanti come sciabole. C’entra l’Imperatore di Francia, c’entra Vittorio Emanuele, e una lettera che si dice egli abbia scritta al Dittatore, per intimargli di astenersi d’ora in poi da qualunque passo contro il re di Napoli.

— Lustre per tener a bada l’Europa! dice uno.

— Scrivano e leggano, dice un altro, noi intanto una di queste notti passeremo lo Stretto.

Ma quelli che vorrebbero andare più alla lesta, dicono addirittura che Vittorio farebbe meglio a mandar Persano col Govèrnolo e colla Maria Adelaide, a piantarsi in mezzo al Canale per farci far largo.



20 agosto, mattino.

Cannonate laggiù in mare verso il Capo dell’Armi! Che poesia di nomi! Ma che sgomento pensar che ogni colpo spegne la vita a tanti, tra i quali può essere qualche amico che non vedremo mai più. Gente che viene da Catania dice che nella notte arrivarono a Giardini due vapori, che tutti quei di Bixio vi montarono, ma non sanno altro...

Bixio è in Calabria, Bixio! Col Dittatore! Dunque è ricomparso improvviso un’altra volta su la spiaggia nemica, quest’uomo che un po’ pare appena vivo, un po’ si trasforma arcangelo che spiega l’ali e rota la spada come un raggio di sole! Marsala e Melito, due nomi, due sbarchi; Garibaldi e Bixio due volte nello stesso cielo di gloria; e noi qui che si vorrebbe tutti gettarsi in mare e nuotando arrivar di là. Non ho mai sentito com’ora l’avidità fusa da Virgilio nell’ombre del sesto canto:

..... Stavan pregando,
E le mani tendean pel gran desio
Dell’altra sponda....

E poichè tanto romanticismo portato da Garibaldi nell’arte della guerra, non fa dimenticare la gentilezza classica di Virgilio; io, immaginando la Corte di Napoli quale deve essere all’annunzio del Dittatore in Calabria, al rumor d’armi crescente, odo ancora la nota malinconica dell’Eneide che mescola di lutti diversi la reggia. Oh quella Regina, che pianti! Si capisce come il generale Bosco bello e prode, preso da tanto dolore si sia tutto votato ad essa dopo Milazzo. Ma Garibaldi indovino l’ha vincolato a non tornare in campo prima di sei mesi. E Francesco secondo perchè non monta a cavallo e non viene a piantarsi ai passi di Monteleone? Eccolo! Perire là; o ricacciandoci, affogarci tutti in questo mare, che di notte o di giorno vogliam passare.

22 agosto 1860. Al Faro.

E ora mi pare di aver più profondo, più intero, anche il sentimento di quei versi del Manzoni: Dolente per sempre chi Dovrà dir sospirando: io non v’era! È un patimento, un dolore squisito, che non somiglia a nessun altro dolore. I nostri sono di là, hanno combattuto, e noi non c’eravamo!

O frate Calasanziano maestro mio; cosa fai, in questo momento, nella tua cella, donde, in quello scoppio del quarantotto che noi sentimmo appena da fanciulli, l’anima tua di trovatore si lanciò fuori ebra di patria? E quasi voleva andarsene dalla terra, quel giorno del quarantanove orrendo, quando dalla cattedra dicesti ai tuoi scolari: Fummo vinti a Novara!

Ci narravano i più grandi, che il padre maestro, dicendo così, era caduto sfinito: e noi mirandolo per i corridoi del collegio, rapido, sempre agitato, fronte alta, capelli bianchi all’aria, e l’occhio in un mondo ch’egli solo vedeva; ci sentivamo mancar le ginocchia e pensavamo a Sordello di cui, leggendoci Dante, ci voleva infondere la gentilezza, la forza e lo sdegno.

Fu lui, gran frate, che del cinquantatre ci lesse, nella scuola, l’ode: Soffermati sull’arida sponda. Non disse il nome dell’autore, ma promise il primo posto a chi lo avesse indovinato. Indovinammo tutti! Non avevamo già letto il Coro del Carmagnola?

Ora di quell’Ode mi torna l’ultima strofe e l’accento con cui il padre leggeva: Dovrà dir sospirando: io non v’era! E a lui, in questo momento, ritornano forse le immaginazioni di noi sette od otto suoi scolari che siam qui; forse ricorda come ci faceva raggiar di collera quando ci leggeva nel Colletta la morte del Caracciolo, o gli eccidi dei Napoletani del novantanove; forse dice che alle guerre di Sicilia ci preparò egli stesso.



25 d’agosto. Spiaggia del Faro.

A Bagnara, là in faccia, sulla sponda Calabrese, gran lutto. Ieri, mentre sbarcavano quelli del Cosenz, fucilati dai Napoletani del general Briganti, cadde morto La Flotte nella sua camicia rossa di colonnello garibaldino. Narrano che mentre s’imbarcavano qui al Faro, il maggiore Specchi volle dargli una rivoltella, e ch’egli sorridendo e ringraziando avrebbe voluto non accettarla; perchè, disse, al primo colpo che avesse tirato contro un uomo, un altro avrebbe ucciso lui. Dunque voleva andar tra i nemici come il vecchio eroe dell’Henriade, che si cacciava nella mischia, sempre esposto a morire senza ammazzare mai? — La Flotte morì. Ma il Dittatore lo fa vivere per la gloria della Francia e dell’umanità, gridandolo nell’ordine del giorno con parole che valgono ben più d’ogni vita.

Dormirà La Flotte nella poetica terra di Calabria, che tanto ora è sua più che nostra: lo nomineremo noi, tutta la guerra, perchè dicono che da lui sarà chiamata la compagnia di quei dugencinquanta francesi, venuti a portarci il fiore del loro coraggio.

26 d’agosto.

A segno di stella.

Il campo era così. Giù nelle bassure, e sulla riva del mare la brigata del general Briganti; su in alto come spettatori sulle gradinate d’un teatro antico, i nostri. Ma se i Napoletani non si arrenderanno, tutta quella nostra gente rovinerà loro addosso e li affogherà nel mare. Si aspetta; è notte, Garibaldi li vuole prima dell’alba; e agli avamposti.

— Tenente, avete orologio?

— Generale, no.

— Non fa nulla! Coricatevi qui, così: guardate quella stella, quella più lucente, là: e guardate anche quell’albero. Quando la punta di esso vi nasconderà la stella, saranno le due. Allora su, e all’armi!

Così, con la semplicità d’un Re pastore, con l’eleganza d’un eroe Senofonteo, meglio ancora! così come egli stesso nelle foreste vergini Riograndesi de’ suoi giovani anni, Garibaldi diede l’ora a segno di stella.

Ma d’assalto non ce ne fu bisogno. Dicono che il general Briganti si vide col Dittatore, e che patteggiò la sospensione dell’armi. Me l’hanno descritto. Che spettacolo tutta quella brigata ridotta a nulla, quei soldati mandati sciolti! Non li vidi, ne godo; devono essere cose da rompere il cuore.



27 d’agosto.

Altre nuove! Pare il marzo, quando i ghiacci si rompono, e vanno via a grandi pezzi portati dalla corrente. Il generale Melendez, con un’altra brigata, circondato dai nostri, la sciolse e se n’andò. I comandanti borbonici si lavano le mani di tutto l’uno su l’altro, da grado a grado; non c’è più disciplina, tutto si squaglia. Gli è che la Reggia e piena d’imbelli; e la Rivoluzione avvolse l’esercito come di un’aria che non si può respirare.

Ma si dice che, ier l’altro, il general Briganti se ne andava solo soletto a cavallo, verso chi sa dove, per far chi sa che cosa, e che arrivato a Mileto si imbattè nel quindicesimo reggimento napoletano, accampato, tra gli urli: Al traditore! Allora egli smontò e, a piedi, si avanzò in mezzo ai soldati. La sua maestà di vecchio e la calma del volto potevano vincere; ma un tamburo maggiore gli si avventò con una puntata del suo bastone, e lo passò fuori fuori a morte. Altri dicono che fu ucciso con una schioppettata a bruciapelo.

Quando traverseremo quella campagna tragica, mi parrà che l’aria tremi ancora del truce fatto. Tutte tragiche queste rupi della Calabria! Là presso devono essere stati uccisi i Romeo; non lontano di là dev’essere il passo dell’Angitola dove, nel quarantotto, caddero i Calabresi e la gente dei Musolino. Passo passo c’è tutta la storia dei francesi di re Giuseppe e di re Gioacchino...; e non sorge re Gioacchino stesso, tragica ombra su quel Pizzo laggiù?

Ma di quel povero general Briganti non me ne posso dar pace! Ho inteso dire che in Palermo, quel giorno che Garibaldi c’entrò da Porta Termini, egli comandava nel forte di Castellamare, e che non sapeva risolversi a dar l’ordine di bombardare la città. Sussurrano pure che allora, tra gli ufficiali, ci avesse un figlio, ma di tutt’altro cuore. Che misteri sotto le tuniche dei soldati, quando sul trono v’è Nerone o Augustolo, e di mezzo fra trono e soldati c’è la patria che geme!