De mulieribus claris/XXVI

Da Wikisource.
Capitolo XXVI. Procri, moglie di Cefalo

../XXV ../XXVII IncludiIntestazione 6 febbraio 2009 75% Biografie

Giovanni Boccaccio - De mulieribus claris (1361)
Traduzione dal latino di Donato Albanzani (1397)
Capitolo XXVI. Procri, moglie di Cefalo
XXV XXVII


PROCRI di Pandione, re d’Atene, moglie di Cefalo, figliuolo del re Ealo, come fu odiosa alle oneste donne per avarizia, così è piaciuta agli uomini, poichè per lei è manifesto il vizio dell’altre donne. Amandosi quella col suo marito, insieme vivendo1 di pietoso e nuovo amore, avvenne per isciagura di quegli, che di Cefalo s’innamorò una donna chiamata Aurora, la quale era di singolare bellezza; lo quale lungamente quella donna tentò indarno, essendo quello sommamente preso dall’amore di Procri, sua moglie, di che quella sdegnata disse: Cefalo, tu ti pentirai d’avere amato sì caldamente Procri tua, e troverai, se se ne sarà fatto pruova, che ella amerà più i danari che te. La qual cosa udendo il giovane, cupido di tentarla, mostrò di volere andare in un lungo viaggio, e partissi; e piegando la via, tornò nella patria; e per messi tentava la fermezza della moglie con doni, i quali comechè fussero grandi, nel primo assalto non la puoterono muovere. Ma perseverando, ed aggiugnendo gioje, piegò si l’animo di quella la quale già vacillava, che promise dare albergo allo desiderato piacere dello amante se gli desse i promessi doni. Allora Cefalo ismarrito per lo dolore si manifestò, poichè conobbe per lo inganno lo debole amore di Procri. La quale vergognata, e percossa dalla coscienza del fallo, subito si fuggì per le selve, e diessi a vivere in solitudine. Il giovane impziente all’amore di quella, di propria volontà perdonando a quella, coi prieghi la ritornò a sua grazia, repugnando quella; ma niente montò, perchè la forza del perdonare non è sufficiente contro ai morsi della coscienza. Procri si moveva in diverse mutazioni d’animo, e toccata d’amore pensò che suo marito contro lei, quello, per lusinghe dell’altr’amante facesse2, la qualcosa quella aveva mercatato con lui con monete; cominciò nascosamente seguire quella, cacciando egli per le montagne, per gli gioghi e per le nascose valli. La qual cosa durando, avvenne, che stando Procri nascosamente in un’erbosa valle, tra le canne del padule, movendosi, lo marito, credendo che fusse una fiera, ferilla con una saetta. Non so che io dica piuttosto, o se l’oro è la più possente cosa che sia in terra, o se è più stolta cosa cercare quello che l’uomo non vuole trovare. Dalle quali due cose approvando ciascuna la stolta donna, trovò a sè perpetuale infamia, e la morte, la quale non cercava mai. Acciocchè io non taccia lo smemorato amore dell’oro, per lo quale si muovono quasi tutti gli stolti, domando quegli che sono presi di sì ostinata gelosia; mi dichino che utilità o che onore egli sentono, che gloria o che onore acquistano? A mio parere, questa è dispregiata infermità della mente, la quale ha principio dalla pusillanimità di quello che la soffre, poichè noi non la vediamo3 se non in quegli, i quali si estimano di sì piccola virtù, che lievemente concederebbero che ciascuno gli fusse da mettere innanzi.


Note

  1. Cod. Cass. insieme gioventù. Test. Lat. viventes.
  2. Test. Lat. blanditiis Aurora id ageret.
  3. Cod. Cass. laquale da principio apusillaminità di quella che noi lavediamo senone in quegli eguali siestimano disipudro la virtù chelieve mente chonciederebbe. Test. Lat. a pusillanimitate patientis originem ducens cum non alibi viderimus quam has penes, qui se adeo dejectae virtutis existimant, ut facile sibi quoscumque praeponendos fore concedant.