Vai al contenuto

Del concetto morale e civile di Alessandro Manzoni/Discorso/II

Da Wikisource.
Discorso - II

../I ../III IncludiIntestazione 15 novembre 2021 75% Da definire

Discorso - I Discorso - III
[p. 101 modifica]

II.


L'uomo adunque in qualsivoglia zona del globo apra gli occhi alla luce, non appena giunge a sottrarsi dalle determinazioni naturali che lo rendono mancipio dell'ambiente esterno e del proprio organismo, ed apprende a riflettere ed a deliberare, trova nel fondo della sua coscienza come un complesso di nozioni circa il bene, e sperimenta una segreta ed indomita esigenza di veder tradotto in atto, e figurato nella realtà quel suo mondo interno. Si è disputato lungamente a trovar la ragione di questo fatto universale e costante, o se per avventura sia l'effetto della educazione e della parola sociale, che sospinge il fanciullo pendente dalle materne labbra, a distinguere le ragioni del bene da quelle [p. 102 modifica]del male, o sivvero si origini il fatto dall'avere impresso Dio nell'anima semplicetta, vagheggiata prima che sia, come direbbe il divino poeta, i tipi o paradimmi eterni ed immutabili. Non entreremo certo in questo luogo a proferire il nostro giudizio sull'argomento; solo, quello che qui giova notare si è che la cosa non può essere messa in dubbio, e che tutti danno alla estrinseca manifestazione e realizzazione di questo ideale interno l'appellativo di dritto, onde l'umana persona si rende sacra ed inviolabile. Non si creda però che un tale concetto del bene, e dell'assoluta giustizia che ne consegue, sia in tutti gli uomini perspicuo e chiaro ad un modo. Quanto alle sue accidentali determinazioni, esso varia non solo in ragion dei climi, circostanza che ha forse troppo larga parte nella immortale opera del Montesquieu, e nelle teoriche della scuola storica, ma anche, e soprammodo, in ragion delle nazioni, degli stati, delle famiglie, degl'individui. Si piace però di rendersi esigenza imperiosa e tenace in certe anime [p. 103 modifica]elette, in certi spiriti privilegiati, la cui vita è pressoché una amorosa contemplazione del bene, ed un desiderio, avvalorato dalla continua opera, di vederlo attuato nel giro della realtà. Sono i cursori di che parla Lucrezio, e che si trasmettono vivida di secolo in secolo, la mistica lampana della verità, conciosiachè sieno attratti da tuttociò che avvi di bello e di grande nella umana natura, e volgano l'ala del desiderio, che tien dell'infinito, innanzi, sulla intera specie degli uomini, e quindi sulla patria che li vide nascere, sulla famiglia, e sovra tutte le produzioni dello spirito. Però, a quel modo, che in sentenza dell'Alighieri, la materia è sorda alla intenzione dell'arte, egli incontra sovente che la realtà non risponda allo ideale del bene, e che il dritto non sia attuato, vuoi per le limitazioni essenziali della natura finita, vuoi perchè, in certi dati momenti della storia, l'umanità sembra accasciarsi sotto il peso de' suoi dolori, e come l'ebro desidera il vino, farsi autrice di nuovi mali, istigata e sospinta dai mali [p. 104 modifica]medesimi. In questi termini, negli animi impazienti e generosi, il disinganno sottentra alla speranza nudrita con amorosa cura, la fede del bene appare una chimera soggettiva, sfornita di contenuto reale, ed il cinico sorriso di Mefistofele, o l'imprecazione solenne, sono rifugio ed arma contro l'avverso destino. Pochi solo il disinganno non abbatte non annienta, forniti come e' sono di tempra salda e longanime ma piuttosto li sospinge a tentar nuove vie, sino a che la iniqua antinomia sia risoluta, e la speranza che cova negli animi, non si tramuti in secura certezza.

La storia, o Signori, porge ampia testimonianza di quanto rapidamente si è accennato; chè la noncuranza scettica del mondo greco in sul decadere, la corruzione romana si acremente stigmatizzata dalla incisiva parola di Tacito e di Giovenale, il volterianismo che preluse alla celebre rivoluzione, non sono che il grido dell'anima che non vedendo rimedio alcuno ai mali di che la natura e gli uomini si resero artefici, impreca, o sorride [p. 105 modifica]di quel riso che è la suprema forma di un dolore senza speranza. Anche qui in Italia, nella prima metà del secolo che viviamo, per tacere di altre epoche, poscia chè alle ardenti speranze tenne dietro il disinganno del dispotismo e della reazione teocratica, molti maledissero al giorno in cui nacquero, ed alla fede nel bene così sterile e vuota. Che se una voce potente insieme e soave non avesse suscitata la speranza dal seno stesso della miseria, l'Italia forse non siederebbe ora libera ed una nel consorzio delle nazioni civili.

Ben m'intendo, o Signori, che nel dir tali cose, il vostro pensiero ricorre a Giacomo Leopardi, e ad Alessandro Manzoni, l'uno che fu il rappresentante qui di questo indirizzo scettico e desolatore, l'altro della fiducia che crea la energia delle azioni, unica altrice di quegli immegliamenti che sono possibili e desiderabili in questo perenne pellegrinaggio della specie umana. Molti punti di comunanza sonovi tra l'altissimo recanatese, ed il grand'uomo di cui oggi celebriamo la commemorazione. [p. 106 modifica]Ambo d'ingegno eletto, di animo desideroso del bene, e ricercatore infaticabile di esso nella vita reale, se giunsero a segno diverso, questo, mentre stringe il cuore di pietà e di affetto pel cantor della Ginestra pone in più chiaro lume, e determina appieno, la situazione storica del Nostro. Giacomo Leopardi nell'età fiorita, giorno pieno di allegrezza, come egli stesso dichiara, sognò che il mondo rispondesse alle interne aspirazioni, ed amò la patria, l'umanità, ed il bene di quell'amore senza confini che tuttor si rivela nel verbo sconsolato della sua vigorosa lirica. Però quando vide che il fatto e la idea componevano una di quelle antinomie che al suo pensiero apparvero insolubili, si concentrò nell'infinito suo dolore, e la terra gli si presentò inaridita, come chiusa in eterno gelo, disperò della patria, di Dio, dell'uomo e delle sue sorti, e solo fu compreso dall'infinita vanità del tutto. Egli stesso, poco innanzi di levare a sè medesimo l'inno funebre della Ginestra, monumento di una angoscia senza riscontro, dirige [p. 107 modifica]all'universo l'alto disprezzo, che può considerarsi come la esplicita professione di una fede, che è assoluta e totale negazione.

Or poserai per sempre
Stanco mio cor. Peri l'inganno estremo
Ch' eterno io mi credea. Peri. Ben sento
In noi di cari inganni
Nonché la speme il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non vai cosa nessuna
I moti tuoi, nè di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta ornai. Dispera
L’ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Ornai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che ascoso a comun danno impera,
E l'infinita vanità del tutto1

Signori, parlando del Nostro, più acuto e profondo si fa il sentimento di amore verso questo grande infelice, che, come lui, sortì altezza d’intendimento, desiderio del bene, e non pari solo la difficile virtù dello attendere. Il cielo gli negò il sorriso [p. 108 modifica]celeste della famiglia, la speranza nelle sorti della patria, in quelle immortali della specie, visse vita solitaria, ed il suo avello non fu confortato dalle lagrime d'Italia, che in lui perdeva uno tra più chiari suoi figli. Ora una tomba modesta chiude le sacre ceneri. Chi dalla ridente spiaggia di Mergellina muove verso Pozzuoli, all'uscir del meraviglioso traforo, che dicono Grotta di Pozzuoli, si avviene in una solitaria chiesetta, nel cui vestibolo avvi una lapida che reca poche parole di Pietro Giordano. Ivi è chiusa la salma di uno dei più poderosi ingegni, e degli animi più nobili che siano per avventura nati in questo secolo. O Leopardi, ed io, come a devoto pellegrinaggio, mossi un dì verso quella tomba, e piegai le ginocchia al suolo, e le mie labbra toccarono il freddo marmo. — Era la tacita ora del Vespro, ed il sole lentamente ascondevasi nel bellissimo mare; il sacro silenzio era solo, a quando, interottodallo infrangersi dei flutti alla sponda, e di lontano una vela, bianca come ala di cigno, navigava pel tranquillo, e le [p. 109 modifica]note di un canto melanconico, il canto del Pescatore di Santa Lucia, giugnevano all'orecchio intento. O Leopardi,

Lingua mortal non dice
Quel che io sentiva in seno!2

Deh! se al tuo spirito è conceduto lo intendere i suoni di parola umana, ti giovi la mesta ricordanza che unisce il tuo nome a quello di Alessandro Manzoni.3

Note

  1. Leopardi, CantiA sé medesimo.
  2. Idem — A Silvia
  3. Recatosi il 27 a Firenze, il Manzoni conobbe di persona il Leopardi. e se le diverse dottrine non consentirono quella famigliare amicizia che tenne il lombardo con Gino Capponi e con qualche altro che allora a Firenze nutriva con lui la medesima fede, non è a dire che la stima a l'ammirazione reciproca non dasse pari all'altezza degl'ingegni. Il Leopardi diceva del Manzoni che era uomo pieno di amabilità e degno della sua fama.