Del veltro allegorico di Dante/XXII.

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XXII.

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XXI. XXIII.

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XXII. Uscito di Arezzo Uguccione della Faggiola insieme coi verdi, rannodò con papa Bonifazio e con messer Corso Donati le pratiche interrotte dall’infelice guerra del Mugello. Il pontefice, per suscitare nemici a Filippo il bello, dissimulava coi verdi e riconoscea per imperatore Alberto di Austria. Ma non ometteva Filippo il bello di sempre piú avvicinarsi ai neri di Lucca e di Firenze: intanto il suo cancelliere Guglielmo di Nogareto dava segreta opera nel castello di Staggia coi Colonnesi a congregare armati contro il pontefice non consapevole. Firenze in quel tempo richiamò dall’esilio coloro tra i bianchi ed i ghibellini che avessero ubbidito alle condannagioni, e coloro ai quali non nocquero né le virtú né l’ingegno: Dante rimase in esilio. Allora messer Corso Donati coraggioso ed altero, non riputandosi primo sulla cittá, cominciò a sentire superbo fastidio pei neri che aveva posti in seggio. Tentennava Siena, incerta fra i neri ed i bianchi; or in aiuto di quelli, or pietosa di questi, e però appellata la lupa. I bianchi riparati a Bologna si accoppiarono coi ghibellini-secchi di Arezzo, coi pisani e coi pistoiesi: dappertutto in Toscana le paure crescevano e gli animi preparavansi a strane cose. Finalmente Guglielmo di Nogareto ed i Colonnesi uscirono inosservati di Staggia con una mano di cavalli e di fanti: cavalcarono per la campagna di Siena e di Roma: giunti facilmente ad Anagni, ove dimorava il pontefice, s’impadronirono di esso, e oltraggiatolo indegnamente lo tennero tre giorni prigione. In breve, il dolore l’uccise (ottobre 11). Dante non perdonò alla memoria di Bonifazio, né un solo delitto gli appose nella Commedia; e vi ha chi crede, non aver egli cacciato in inferno Guido di Monte Feltro che per trarne occasione di mordere Bonifazio. Sembrò forse al poeta, che il piú possente dei suoi nemici piú degli altri fosse colpevole dell’avere in Firenze sovvertito il primiero stato. Ma Dante compianse, qual generoso, la sciagura del vecchio pontefice, da ladroni trattando coloro che il presero e ridussero a morte (Purg. XX, 86-90).

Allo stesso Bonifazio VIII accenna un altro né meno insigne luogo del poema, ove piú fitta l’allegoria nasconde la narrazione [p. 43 modifica] di non pochi avvenimenti d’Italia. Simboleggiati la corte romana coll’immagine di una donna e Filippo il bello di un gigante (Purg. XXXII, 148-160), il poeta cantò delle antiche loro amistá (ibid. 153) e delle ultime violenze di Anagni (ibid. 156): affermando, che tal gigante avea flagellato la donna, perché quella rivolse l’occhio vagante a lui Dante Alighieri (ibid.154155). Nelle quali parole, argomento al certo di maraviglia, vide altri figurato in persona del poeta la parte ghibellinesca: ma fino alla morte di Bonifazio Dante non fu ghibellino, e se fosse stato, chi piú mentre regnava odiò i ghibellini che Bonifazio? Dunque la parte, cui finse Dante aver sorriso la donna, fu quella di Dante istesso non ancor uscito dei guelfi, e quella di Uguccione della Faggiola venuto apertamente agli accordi con Roma: fu la parte di entrambi, e de’ ghibellini-verdi e di tutti coloro che il papa voleva opporre alla casa di Francia. Per questi maneggi vieppiú inferocito Filippo il bello, maturò l’onta di Anagni, e sospinse gli sdegni anche oltre la tomba dell’avversario.