Dell'uomo di lettere difeso e emendato/Parte prima/11

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Parte prima - 11. Confusione dell'Ignoranza, condannata a tacere dov'è più bello il parlare

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Parte prima - 11. Confusione dell'Ignoranza, condannata a tacere dov'è più bello il parlare
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[p. 67 modifica]Confusione dell’Ignoranza, condannata a tacere dov’è più bello il parlare.


Al gusto, che di sopra dissi provarsi da’ Letterati nell’esercizio dell’ingegno e nel ritrovamento della verità, contrapongo ora per ultimo il disgusto dell’Ignoranza, condannata a tacere dovunque si parli da uomo: conciosiccosaché chi non sa, o taccia o parli, nell’uno e nell’altro senta vergogna; come chi ha nel silenzio l’accusa, e nella favella la condannagione d’essere ignorante. Così Alessandro, che, malintendente di Pittura, nella scuola d’Apelle lodava gli storpiamenti per iscorci, le macchie per ombre, e gli errori per arte, era da’ medesimi scolari sogghignanti fra loro schernito. Miseri Ignoranti! condannati ad essere nelle raunanze de’ Dotti come sono o fra le Vocali le Consonanti, mutole e per loro stesse di niun suono, o fra le corde delle cetere le false che altrimenti non suonano che dissonando. Mercè che hanno gli orecchi non al capo, ma, coine Dionigi Tiranno, a’ piedi; e intendenti solo di cose basse e vili, non portano in capo mente proporzionata a suggetto di nobile intendimento.

E perché naturalmente avviene, che come i vasi quanto più vuoti tanto son più sonori, così chi e men fornito a cervello abbia parole a maggior dovizia; quindi è che questi, più avidi di vendersi dotti che cauti in non iscoprirsi ignoranti, mentre liberamente favellano di ciò [p. 68 modifica]che non sanno, guadagnino da chi li sente la mercede medesima di quell’ambizioso Neante, che persuasosi d’essere ancor’egli un figliulo d’Urania, staccata furtivamente dal tempio d’Apollo la Lira d’Orfeo, e andato in un’aperta campagna nel più bujo della notte, per aver la natura in quel profondo silenzio più attenta, quivi cominciò col plettro a carminare quell’infelice strumento, in cui corda non era, che al tocco d’una mano sì indiscreta non rispondesse con un doloroso oimè; quasi laguandosi, in sua favella, d’essere più tormentata che sonata; onde se mai fu vero, che la Lira d’Orfeo meritasse, di tirare tronchi e i sassi, fu questa volta, mentr’era maneggiata sì sgraziatamente da Neante. Ma ciò ch’essi non, fecero, lo fecer le bestie, perché svegliati a quello sconcerto di dissonanze certi bravi mastini, e giudicando il Sonatore più dal suono che dal sembiante Asinum ad Iyram, lo squarciarono in pezzi. Con che, s’egli non fusimile ad Orfeo nella grazia del sonare, a mala sua ventura lo diventò nella disgrazia del morire.

Più mitemente sì, ma però più publicamente e da più bocche è lacerata la sconcertata sonatrice degli spropositi, l’Ignoranza; raccontandosi per ischerno le stoltezze che che disse, la sicurezza con che le definì, l’ardire con che le difese.

Udiste voi mai due di costoro, più tondi dell’O del Giotti, disputar fra loro una quistione, o, come talvolta avviene, risolvere un problema? Vi saranno in udendoli venute in mente le parole e in bocca le risa di Demonatte, che sentendo disputare a gran voce due, de’ quali uno niente proponeva e l’altro niente rispondeva a proposito, Tu, disse all’uno d’essi, tu mugni un capro; e l’altro: E tu per coppa gli tieni sotto un vaglio.

Certo è cosa, che, muove non so se più la compassione o le risa, se avviene udir tal volta recitare o leggere da simil gente scritti, sopra suggetti anche di nobile argomento, lunghissimi discorsi, senza che mai di tante linee né pur’una sola batta al centro, e tocchi il punto che [p. 69 modifica]argomento prefisse. Onde la materia, che ivi si tratta, può far con costoro ciò che con un’Arciero ignorante fece Diogene che vedutolo in cento colpi d’arco non colpire una sol volta nel segno, corse a mettersi per appunto al bersaglio; sicuro, che colui colpirebbe in ogni altro luogo, fuor che dove mirava.

Se pur non voleste, che fosse lode di straordinario ingegno, sapere in maniera favellare lunghe le ore, che, dicendo d’ogni altra cosa, non si tocchi né pur leggermente quello, di che vuol dirsi. Così giudicò l’Imperador Gallieno, in una solenne caccia, doversi la vittoria ad uno, che lanciate da vicino contra un gran Toro dieci aste, con veruna d’esse, non lo toccò. Gli mandò egli subito la corona, con dire a chi ne stupiva: Costui ne sa più d’ogni altro. Perché, lanciar dieci aste in un sì gran bersaglio e sì da presso, e mai non colpire, non è cosa che sapesse farla, fuor che costui, verun’altro. E questi sono i meriti, queste le mercedi de’ figliuoli dell’Ignoranza, quando cercano teatro, e mendicano applausi.

Che se per loro disavventura s’avveggono degli scherni che meritarono in vece d’applausi, eccovi ne’ più arditi pelle amare doglianze: la virtù aver per fatale l’invidia: a gli splendori della gloria, nascere le nere ombre della malignità: al merito delle lodi farsi compagna la maldicenza, come nel carro de’ Trionfatori lo Schiavo.

Da’ più modesti poi s’odono quelle ordinarie scuse applicate ancor’a debolissime occasioni: che la difficoltà della materia e l’altezza dell’argomento, pari solo ad un’ ingegno Atlante, é stata maggiore delle lor forze. Direste, che ci cadesse a capello la scusa di quel famoso Faustulo, che gittato di sella da una Formica su la quale cavalcava, e vedendone ridere i circostanti, raccordò loro, che ancor Fetonte avea fattà una simil caduta. Eccovi il testo:

Faustulus insidens Formicæ, ut magno Elephanto,

Decidit, et terræ terga supina dedit.

Moxque idem ad mortem est multatus calcibus ejus

Perditus, ut posset vix reparare [p. 70 modifica]animam.

Vix tamen est fatus: Quid rides, improbe livor?

Quod cecidi? Cecidit non aliter Phaeton.

Da’ dileggi di chi non sapendo favella, e, frutti dell’ignoranza sua, coglie le risa altrui, non debbono essere scompagnati gli scherni che meritano ancor tacenti cert’uni; d’abito Letterati, ma in fatti senza verun’abito di buone Lettere. Di titolo tal volta più che Dotti; ma vox, prælereaque nihil.

La pelle del Lion Nemeo, onorata dalle spalle del grand’Ercole che la portava, mai non si vide iatta più vile, che quando una femina la vestì. Credo et jubas pectinem passas, ne cervicem, enerverm inureret stiria leonina; hiatus crinibus infartos, genuinos inter antias adumbratos. Tota oris contumelia mugiret si posset. Nemoea certe (si quis Genius) ingemebat: tunc enim so circumspexit Leonem perdidisse. Così ne parla in sua lingua Tertulliano. Non altrimenti le vestimenta e i titoli, insegne e caratteri proprj de’ Letterati, portati da gente senza Lettere e rozza, piangono la loro sciagura, vedendosi condannati adessere perpetuamente bugiardi, poiché dicono a quanti li veggono, essere un Lione chi è un Giumento, essere un’Uomo di Lettere chi e come certi libri (disse ad un simile Luciano) che di fuori vagamente dipinti e riccamente indorati dentro sono fogli senza lettere e carta bianca.

Quanti di questi sì veggono andar sì gonfj e sì superbi, che sembrano quello sferico perfetto de’ Geometri, che non tocca terra fuor che in un punto? Vedendo quello che pajono, si scordano di quello che sono; e quasi Bucefali con la gualdrappa, non degnano che li tocchi ne miri senon il primo Re del mondo.

Tale era un certo mezz’uomo, contra di cui Luciano aguzzò sì bravamente lo stile. Costui, come ancor’oggidì molti, misurava il suo sapere dalle lettere che avea non nel suo capo, ma sa gli scritti altrui; come se il senno de’ Filosofi ne’ libri loro, quasi in ampolle serrato, come quello d’Orlando, potesse con solo fiutarlo tirarsi [p. 71 modifica]tutto al cervello, e con ciò farsi in capo una libreria di tanti Autori, di quanti se ne hanno i libri nelle scanzie. Sic apud desidiosissimos videbis (disse Seneca) quidquid orationum historiarumque est, et tecto tenus extructa loculamenta. Ma raccorre a questa maniera libri, e trar loro ogni giorno di dosso la polvere, non usando essi per trarre a sè dal cervello la ruggine, questo si giudica da Sidonio, membranas, potius amare, quam Litteras. Questo è fare più riguardevole la casa, che il padrone: sì come avvenne a quell’Archelao, per vedere il cui palagio (poiché era dipinto da Zeusi) si veniva da lontani paesi, mentre intanto (diceva Socrate) non v’era chi, per vedere il padrone d’essa, movesse un passo. At quid dulcius libero et ingenuo animo et ad voluptates honestas nato, quam videre plenam semper et frequentem domum concursu splendidissimo hominum, idque scire non pecuniæ, non orbitati, neque officii alicujus administrationi, sed sibi ipsi dari?