Dell'uomo di lettere difeso e emendato/Parte seconda/20

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Parte seconda - 20. Felicità impareggiabile de' buoni Autori , che stampano.

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Parte seconda - 20. Felicità impareggiabile de' buoni Autori , che stampano.
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[p. 116 modifica]Felicità impareggiabile de’ buoni Autori, che stampano.


Il desiderio di vivere è stato ritrovatore di cento maniere di non morire. E perche la medicina non ha né l’ erbe di Medea contra la vecchiaja, né l’ ambrosia di Giove contra la morte; anzi pur troppo il vero disse Sidonio che molti Medici assistentes et dissidentes, parum, docti et satis seduli, languidos multos officiosissime occidunt; e rivolto alle arti di colorire le tele, d’ intagliare i marmi, di fondere i bronzi, di fabricare archi, mausolei, e teatri: accioché se non può essersi lungamente un’ Uomo almeno si sia una superficie d’ Uomo su un quadro, un’ imagine d’ Uomo nell’ inscrizione d’ un’ arco, e nell’ epitaffio d’ un sepolcro. Ma nulla v’ è di nostro ritrovamento, sì come sopra ho accennato, sì abile a conservarci dopo morte vivi, come la generazion de’ figliuoli, con che la natura al mantenimento della specie commune e al privato desiderio di ciascheduno provede. Mortus, est pater (disse l’ Ecclesiastico), et quasi non est mortuus; similem enim reliquit sibi posi se. Ma come che vero sia, che il padre trasfonda sé stesso nel figliuolo che genera, con che morendo non muore, poiché in lui ancor vive; pur veramente sì spesso i figliuoli tralignano non solo dalle sembianze ma dal genio e da’ costumi del padre, che molte volte avviene (come in Api Dio degli Egiziani) che il padre sia un folgore, e ‘l figliuolo un Bue. Mercè che la tempera della prole non siegue la volontà dell’ agente, ma la natura della materia, né tali si formano i figliuoli quali si vorrebbono, ma quali si possono. Soli i libri, figliuoli della nostra mente, credi della parte migliore, imagini vive di noi stessi, soli essi sono, in cui tanto di vita si ha, quanto aver se ne può dopo la morte. Contingit (disse Cassiodoro) dissimilem filium plerumque generari; Oratio dispar moribus vix uraquam [p. 117 modifica]potest inveniri. Est ergo ista valde certior arbitrii proles. Figliuoli immortali, che fanno che il nostro morire sia non altro che mancare alle miserie, per cominciare in essi a vivere alla gloria: così com’ Ercole, mancando in terra, fu ricevuto dalle sue fatiche in cielo, e in mezzo d’ esse cominciò a risplendere con le stelle, quegli, la cui vita spenta nelle fiamme del rogo pareva ridotta a un pugno di cenere.

Qual sì forte sostegno quali sì stabili fondamenti ha la memoria de’ nomi e la gloria de’ meriti delle grandi anime, che pareggi l’ eterna durata de’ libri? Veggansi gli scempi, che il tempo fa d’ ogni cosa, altre precipitando, altre lentamente rodendo. Le rupi sotto il greve incarco degli anni quasi decrepite e curve, non piegano elle verso il sepolcro; e cadendo a pezzi a pezzi, e sparse qua e là con le membra, anzi colle ossa divise, non pare che mendichino dalle proprie valli la tomba? Tisici sotto la ruggine i ferri, non mancano anch’ essi impolverati dalla lima sorda del tempo? Altissimi una volta edificj, ora vecchi carcami e nude ossature non di fabriche ma di rovine, se con qualche avanzo di sdrucita muraglia più cadente che ritta si tengono in piè, non pare che mostrino più un trofeo del tempo che un testimonio delle primiere grandezze? Dove una volta furono Tempi di Dei, Sale di Re, Assemblee di Senatori, Academie di Letterati; ora appena vi covano i Gufi, e v’ hanno i Lupi ladroni il covile. Intanto nelle rovine di tutte le più stabili e durevoli cose della terra, come si reggono in piè i trofei de’ grandi Ingegni? Nella morte di tutte le cose anche non vive, come vivono i libri, o come vivon ne’ libri i loro Padri, i loro Scrittori? Dicalo il savissimo Stoico di Roma: Cætera, quæ per constructionem lapidum et marmoreas moles aut terrenos tumulos in magnant eductos altitudinem constant, non propagabunt longam diem; quippe et ipsa intereunt. Immortalis est ingenii memoria. Dicalo il Poeta Marziale: [p. 118 modifica]


Marmora Messalæ findit caprificus, et audax

Dimidios Crispi mulio ridet equos.

At chartis nec furta nocent, nec sæcula præsunt,

Solaque non norunt hæc monumenta mori.

Ben può dirsi avventuroso Metello, che fu portato al sepolcro su le spalle di quattro suoi figliuoli, de’ quali due erano stati, uno era, e l’ altro indi a poco dovea esser Consolo di Roma. Fu questa sì superba pompa di funerali, che lo Storico ammirandola ebbe a dire: Hoc est nimirum magis feliciter de vita migrare, quam mori. Ma in fine era de vita migrare, e i figliuoli, benché a gran pompa, pure lo portarono al sepolcro. I libri soli, non quattro, ma quanti si multiplicano con le stampe, ritogliendo il loro padre alla morte e al sepolcro, vivo lo portano in ogni luogo dov’ essi compajono, e lo posano non che nelle mani ma negli occhi di quanti lo leggono nella mente di quanti l’ intendono.

Ed oh quante volte chi vivendo nella sua patria era non conosciuto o non curato, sì che a gran pena tirò a sé gli occhi d’ alcuni pochi che lo miravano come uomo d’ ingegno, ne’ libri suoi a sé tira il cuore d’ un mondo! così, come già la famosa lira d’ Orfeo, che in terra (disse Manilio) rapiva tronchi, sassi, e fiere; in cielo, ove fu trasferita, si tira dietro le stelle:

Tune sylvas et saxa trahens, nunc sidera ducit.

Testimonio ne sia quel dolcissimo desiderio, che ognuno ha di sapere di qual sembiante fossero i volti e quali le fattezze di coloro, che nelle carte hanno stampata sì bella l’ imagine de’ loro ingegni. Quindi la cura di ritrarli, anzi di fingerli quando per dimenticanza di lunga età non se ne sappiano i volti. Non enim solum ex auro argentove aut etiam ex ære in bibliothecis dicantur illi, quorum, immortales animæ in iisdem locis loquuntur; quinimo etiam quæ non sunt finguntur, pariuntque desideria non traditi vultus, sic in Homero evenit. Quo majus, ut equidem arbitror, nullum est felicitatis specimen, quam semper omnes scire cupere, qualis fuerit aliquis. [p. 119 modifica]

Né questo solo; ma quante volte dubbiosa la mente non sa sgroppare i nodi d’ intricate difficultà che le avviluppano i pensieri tante col desiderio corre a bramare di rivedere in vita quei, che soli potrebbero essere Edipi a’ loro enimmi. Anzi, come già il generoso Macedone ad un Messo forestiere, che gli portava una felice nuova, e prima di sporla con la favella ne dava avviso coll’ allegrezza del volto, Che ci è? (disse) che porti di nuovo? Omero è egli risorto? Questo solo era il più caro avviso che ricever potesse quel grande Imperadore, che pure avea l’ animo e ‘l desiderio pari alla monarchia d’infiniti Mondi.

Anche ora, se si chiedesse a una gran parte de’ più savj uomini, qual desiderio abbiano fuor de’ termini dell’ ordinario, gli udireste bramare, che tornino in vita chi Platone o Aristotile, chi Ippocrate o Galeno, chi Archimede o Tolomeo, chi Omero o Virgilio, chi Demostene o Cicerone, chi Livio o Scenofonte, chi Ulpiano o Paolo, chi Crisostomo o Agostino.

La loro vita non fu, rispetto alla mancanza di nostra età, sì lunga, che troppo brieve non fosse al bisogno che di loro ha il mondo. Impercioché sempre acerba è la morte di chi non può morire senza publico danno, si come non vivea senon per publico bene. Mihi autem (disse il Consolo Plinio) videtur acerba semper et immatura mors eorum, qui immortale aliquid parant. Nam qui voluptatibus dediti quasi in diem vivunt, vivendi causas quotidie finiunt; qui vero posteros cogitant et memoriam sui operibus extendunt, his nulla mors non repentina est, ut quæ semper inchoatum aliquid abrumpat.

Questi Soli del mondo, i raggi del cui alto sapere avvivano le Scienze, illustrano i secoli, abbelliscono tutta la terra, non meritan forse negli onori quel luogo, che ebbe nella prima formazione delle cose la luce? La luce fatta da Dio degna della prima lode, ch’ egli desse di sua bocca a verun’ opera delle sue mani. E ciò non tanto perch’ella è bella in sé stessa, quanto Perché ogni cosa che [p. 120 modifica]vede fa bella; perciò, tantum sibi prædicatorem potuit invenire, a quo jure prima laudetur; quoniam ipsa facit, ut etiam coetera mundi membra digna sint lautibus. Questa è la natura e questi i meriti di coloro, che Seneca, adorando il punto in cui nacquero, baciando la terra in cui vissero, piangendo l’ora quando morirono, chiamò Præceptores generis humani, e, se questo è poco, Deorum ritu colendos. E perche no? direbbe Vitruvio: Cum enim tanta munera ab Scriptorum prudentia fuerint hominibus præparata, non solum arbitror palmas et coronas his tribui oportere, sed etiam decerni triumphos, et inter Deorurn sedes cos dedicandos.