Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni/Appendice/40. Il periodo quarto dell'età settima, o della preponderanza austriaca

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40. Il periodo quarto dell’età settima, o della preponderanza austriaca

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40. Il periodo quarto dell’età settima, o della preponderanza austriaca
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40. Il periodo quarto dell’etá settima, o della preponderanza austriaca [1814-1848]. — Io dissi giá le ragioni che mi facevano nel 1846 terminare questo ristretto all’anno 1814. Ora poi, passati questi anni in che avemmo tutti la parte nostra di opera e di dolori, ed accresciuto sí naturalmente il numero degli uomini «a me non ignoti né per benefizio né per ingiuria» (prefazione all’edizione terza, 1846), sarebbe piú ripugnante che mai alla mia coscienza storica giudicar di essi con questi modi brevi, epperciò assoluti, che non sono né convenienti verso amici od avversari, né giusti poi verso coloro, vivi o morti, di che non sia fatto ancora il giudizio in altre storie piú distese, piú entranti nei particolari di ciascuno. Né, quando io potessi vincere tal ripugnanza, mi sarebbe nemmeno materialmente possibile il tesser qui una narrazione seguita degli anni corsi dal 1814 in poi, finché non sará preceduta qualche storia piú distesa di essi. Chiunque abbia mai messo mano a storie, contemporanee o no, ma non iscritte da altri, sa quanti documenti sparsi, quante letture diverse sieno indispensabili alla loro composizione. E (mi si faccia lecito accennare ad un particolare a me personale, il quale, del resto, può scusare il presente volume d’altri difetti lasciativi) la luce degli occhi mi si è scemata poc’anzi a segno, da farmi materialmente difficile lo scrivere, poco men che impossibile il leggere. E trovai impossibile finora il supplirvi sempre coll’aiuto d’altri, quantunque benevoli.

Servano questi cenni a farmi scusare da coloro che mi espressero il desiderio di veder prolungato di questi trentacinque [p. 186 modifica] anni il presente volume; e vogliano essi contentarsi delle poche parole generali, con che estendendo i cenni preventivamente dati nel 1846, tento ora collegare la nostra storia passata con quella contemporanea e futura.

I trentaquattro anni dal 1814 al 1848 furono all’Italia evidentemente parte della sua etá settima delle preponderanze straniere, periodo quarto, o della preponderanza austriaca indisputata. Mentre l’Europa tutt’intiera progredí (lentamente, secondo è desiderio di quella parte generosa, che appunto allora incominciò a chiamarsi «liberale», ma rapidamente, magnificamente, se si consideri l’andamento normale delle grandi rivoluzioni umane), progredí, dico, nella restaurazione continentale dei governi rappresentativi, estesisi cosí da Francia a Spagna, a Prussia e quasi tutta Germania, ed a Grecia, l’Italia rimase restaurata tutto contrariamente sotto ai governi assoluti, sotto alla preponderanza dell’Austria, capo dell’assolutismo, capo francamente professatosi della resistenza alla rivoluzione liberale europea. I principi italiani restaurati tornarono tutti con affetti, con pregiudizi di fuorusciti, cioè del tempo in che erano usciti; si riadattarono quindi volentieri a quella preponderanza austriaca, che consentiva con essi, e prometteva difenderli. Tutti restaurarono le forme antiche, assolute; il buon re piemontese peggio che gli altri. Promossero pochi progressi, o, come le chiamammo poi, poche riforme; ne effettuarono anche piú poche da principio, per tutti que’ primi vent’anni, che furono, bisogna dirlo, de’ piú oscuri o piú sciocchi vivuti mai in Italia. Alcuni uomini non mediocri furono talor chiamati al governo; ma pochi e per poco tempo; i piú, i soliti, mediocrissimi. I popoli all’incontro, i governati che avevano fatto poco o nulla sotto a Napoleone, se non lasciarsi splendidamente governare da lui, e si sarebbero adattati a lasciarsi governare da altri, per poco che si fosse fatto con qualche splendore, od onore di liberalitá, si adontarono fin dal 1814, e via via piú ad ogni anno di essere i popoli d’Europa piú male, piú oscuramente, piú illiberalmente governati, senza nulla di quella libertá e quell’indipendenza che udivano lodarsi, vantarsi, estendersi altrove. Cosí [p. 187 modifica]fu e sará sempre, cosí si adempiono i progressi umani decretati dalla suprema provvidenza; ciò che non si pensava o pareva appena difetto ai padri, diventa bisogno ai nepoti, e cosí appunto si desiderò, s’estese la libertá, si desidera e s’estenderá l’indipendenza tra le nazioni cristiane. Ed in Italia venivano crescendo sí tali desidèri, ma confusi tra sé, indeterminatissimi ne’ mezzi di effettuarli. Confondevansi libertá ed indipendenza nell’odio ad Austria, confondevansi le varie forme di libertá ne’ desidèri indeterminati ed ignoranti delle monarchie rappresentative all’inglese, o alla francese del 1814, o alla spagnuola del 1812, o delle repubbliche a modo moderno americano, o del medio evo italiano od antico greco-romano; era un caos di brame incomposte, come succede tra ineducati ed inesperti, che non hanno a decidersi né scienza né esperienza. Ed era poi un caos anche maggiore de’ mezzi immaginati. Di resistenze, o, peggio, conquiste legali, non ci era idea; di sollevamenti popolari, molta; ma piú principalmente di congiure, il modo piú ovvio e, pur troppo, tradizionale giá in Italia; se non che, congiurare a modo del Quattrocento o Cinquecento, quando gli Stati erano piccolissimi e mal fermi, non era possibile. S’inventò, o s’era giá poc’anzi inventato, un modo nuovo, adattato al secolo; un estendimento delle congiure, proporzionato all’estendimento degli Stati e della civiltá; le sètte o societá segrete. E la terra classica delle congiure rozze, diventò classica delle perfezionate. Vennerci di fuori, per vero dire, le prime sètte del Settecento (o forse piú antiche, se si creda alle loro genealogie), i franchi-muratori, gli illuminati, e non so che altre. Poi sotto a Napoleone ed alle sue molteplici polizie (parola nuova anche questa che bisogna ora introdurre) dicesi fossero o quelle od altre sètte nel suo esercito. Ma la potenza di tutte queste, se fu, non uscí guari dall’ombra, non produsse effetti grandi alla luce del dí. Produssene sí quella detta Ingendbund, nata e cresciuta in Prussia, negli anni di sua servitú a Napoleone, dal 1808 al 1812, trionfante dopo le sventure francesi del 1812, aiutante il sollevamento e l’indipendenza di Prussia e Germania intiera nel 1813 e 14; rimasta poi lá con [p. 188 modifica]nomi e scopi mutati e minori. E sorse, con iscopo simile, benché piú ristretto, in quei medesimi anni la setta dei carbonari, fomentata, dicesi, contro ai Napoleonidi di Napoli da’ Borboni di Sicilia. Ma se è vero tal fatto, questi non tardarono a portar la pena della pericolosa invenzione; ché restaurati nel 1815, la setta amica diventò nemica loro e degli altri principi restaurati ed assoluti, amica della parte liberale, di cui erano quasi vanguardia, o bersaglieri, sregolati, ingovernabili, cui pretendevano anzi condurre. Io non ho luogo, né notizie, né genio a dire di lor forme, lor modi, loro divisioni e suddivisioni, e mutazioni e moltiplicazioni di nomi. Questo solo noterò qui, che ho notato altrove, ed è piú importante: che queste sètte o congiure nuove, non meno che le piú antiche, si mostrarono al fatto sempre il peggior modo che possa essere ad effettuare qualunque rivoluzione; il peggiore quanto a moralitá, perché non è possibile avanzarle senza quei segretumi, quelle falsitá, quelle insidie, e quei tradimenti che sono, insomma, l’essenza delle congiure; ed il peggiore quanto ad efficacia e buona riuscita, perché appunto quella immoralitá fa sí, che molti non vedendola vi si mettono, ma vedendola se ne ritraggono, e i pochi rimastivi perdono la fiducia, e si dividono, e chi fa una cosa, chi l’altra, nulla mai di unanime o, peggio, di grande. Ancora, in questi convegni segreti, continui, e di uomini cosí diversi, naturalmente si parla molto, piú che non s’opera, e si prende il vizio del parlar senza pro; si fanno progetti fondati non sulla pratica degli affari umani, che i settari non hanno, ma sulle teorie; non sulle possibilitá, ma sulle desiderabilitá all’infinito: ondeché appena incominciata l’esecuzione, salta fuori l’impossibilitá, e tronca tutto. Insomma le congiure, quantunque progredite a sètte, rimangono il mezzo di rivoluzioni piú contrario che possa immaginarsi a tutti i mezzi della progredita civiltá; il loro segretume, alla pubblicitá; la loro relativa pochezza, all’universalitá dell’opinione pubblica; i loro disegni teorici, a quella pratica di governo che si diffonde a poco a poco nelle stesse popolazioni; ed i loro mezzi d’eseguimento, a quella moralitá, a quella mitezza, che essa pure, essa piú d’ogni cosa si diffonde naturalmente tra la cristianitá. — Ad ogni modo, [p. 189 modifica]questo grand’errore dei liberali (ché cosi chiameremo, per abbreviare, anche le sètte delle quali se avessimo luogo noi distingueremmo i fatti ultraliberali ed anzi illiberali), quest’errore de’ governati liberali, figlio giá de’ primi errori de’ principi e de’ governanti, ne produsse altri nuovi. E primamente, che questi governanti assoluti imitarono questo stesso errore; fecero contro alle sètte liberali altre e varie sètte governative, assolutiste, e, che fu peggio, religiose: calderari, guelfi, ferdinandei, sanfedisti, e che so io; alle quali poco o molto, esplicitamente od implicitamente, in un modo o in un altro, in qualunque modo, parmi innegabile che s’aggiungessero alcune congregazioni che avrebbero dovuto rimanere religiose. E certo io credo, io son persuaso, che molti di tutti questi non vollero adoperare, non si sarebbero piegati mai ad adoprare mezzi chiaramente immorali, scelleratezze, peccati; ma, dal piú al meno, io son persuaso che molti delle sètte liberali non vi si sarebbero piegati nemmeno essi; e concedendo in ciò il vantaggio alle sètte pretendenti nome e scopo religioso, io veggo in esse per altra parte un grande svantaggio, un piú grave scandalo, quello d’avere abusato, piú che le sètte liberali (le quali ne abusaron pur esse), della mistura delle cose divine colle umane. Né bastò a’ nostri governi questo nuovo mezzo contro i liberali; usarono e portarono al sommo quel modo giá vecchio, che dicesi inventato o perfezionato da Leopoldo di Toscana, usato molto da tutti i governi rivoluzionari di che parliamo, in tutta Europa, ma forse piú che altrove in Italia, la polizia politica. Della quale non occorre dire che è chiaro come sia l’esagerazione dello stesso governo assoluto, come antipatica alla presente civiltá, come perciò vano, inutile, o nocivo mezzo di quello in questa. Insomma l’esiglio e il modo di restaurazione, e la preponderanza od anzi la prepotenza austriaca nel 1814, produssero il primo errore de’ governanti italiani del 1814, l’assolutismo retrogrado; questo produsse ne’ governati la parte liberale, e contemporaneamente l’error secondo delle sètte liberali, e queste poi furono madri, sorelle o figlie (ché non ne disputerò) delle controsette assolutiste, austriache, e pretese [p. 190 modifica]religiose, e le polizie giunte al sommo. E cosí di sètte, controsette e polizie, e quindi di scoppi or falliti in sollevamenti di un giorno, ora riusciti a rivoluzioni di poche settimane o pochi mesi, seguite sempre di persecuzioni, purificazioni, esigli, carceri ed anche supplizi, si riempiè la storia di trenta e piú anni che seguirono il 1814; è una brutta storia segreta, sotterranea, ma pur troppo reale, e piú importante che non la pubblica e non bella nemmen essa; ed è storia quasi unica de’ primi venti, fino al 1834 o 35.

Nel 1815, fu temuto e represso uno scoppio nel Lombardo-Veneto, non saprei dire se anteriore, contemporaneo o posteriore all’impresa di Murat. Il quale minacciato dal congresso di Vienna, ed allettato dall’impresa di Napoleone, e probabilmente dalle sètte, uscí di suo regno, invase l’Italia fino al Po, si fermò ai primi incontri coll’esercito austriaco di Bianchi, retrocesse, combatté a Tolentino, fu vinto, fuggí di Napoli, tornò fra breve in Calabria con pochi, vi fu preso, giudicato e fucilato in poche ore dalla gente dei Borboni cosí restaurati. — Nello stesso anno fece miglior figura il Piemonte, che dicemmo il piú mal restaurato fra gli Stati italiani, ma dove re, popolo ed esercito fanno sempre buona figura ad ogni occasione militare. Furono i soli che prendesser parte alla guerra di tutta Europa contro a Napoleone; ebbero un bell’affaruccio a Grenoble. — Dal 1815 al 1820, nulla, nemmen riforme, impedite dalla paura delle sètte mal liberali, dall’influenza delle controsette illiberali e lor alleati. — Nel 1820, scoppiata la rivoluzione militare di Spagna, scoppiò una militare nel regno di Napoli, vi proclamò, vi stabilí in fretta la costituzione spagnuola del 1812, cioè la francese del 1791: un re senza «veto» né libertá di re né di cittadino; una sola Camera, una commissione permanente ne’ recessi di questa, una cosí detta monarchia con istituzioni repubblicane; la peggiore delle monarchie e delle repubbliche; la forma di governo rappresentativo la piú contraria a tutta la scienza rappresentativa. Sicilia volle serbare la sua costituzione all’inglese; si separò, guerreggiò, fu vinta al solito. Al principio del 1821, scoppiò una rivoluzione piemontese [p. 191 modifica] imitatrice dell’imitazione napoletana; durò un mese: fu vinta dall’intervenzione austriaca, in poche ore; produsse la mutazione del buon re Vittorio Emmanuele I, che da un anno o piú accennava volgersi ad uomini e riforme liberali, in Carlo Felice; e intanto un esercito austriaco, attraversando tranquillamente l’Italia dal Po al Garigliano, disperdeva lá l’esercito napoletano, riconduceva il re che avea giurata e stragiurata la costituzione, ed or la spergiurava e distrusse. — Seguirono nove anni di pace e tranquillitá; cioè, supplizi alcuni, carceramenti non pochi; purificazioni, persecuzioni, esigli, moltissimi; sètte represse addentro, moltiplicate fuori; controsette, polizie trionfanti, fino al 1830. In luglio di questo, rivoluzione in Francia, cacciata dei Borboni; rivoluzione in Belgio, separazione, indipendenza di queste province, di quelle schiatte francesi, dalle tedesche d’Olanda; rivoluzione minacciata nella vecchia e sapiente ed esperta Britannia che se ne salva con una concessione della parte e aristocratica e conservativa, colla riforma parlamentare: rivoluzioni varie in Germania, ed estensione piccola della monarchia rappresentativa; rivoluzione in Polonia per l’indipendenza, ammirabilmente propugnata coll’armi da quel popolo armigero, perduta tra, e forse per le dispute di libertá. Ed in mezzo a tanto moto dí rivoluzioni, quasi tutte buone e tutte vere, che fece, che poté l’Italia? che poteron le sètte? Io non so. So che poterono piú le polizie e controsette; so che il moto italiano si ridusse a scoppi e sollevamenti piccoli qua e lá, in Romagna, nelle Marche, a Roma, quetati in parte dal principotto di Modena e dal nuovo papa Gregorio XVI, spenti da un’invasione austriaca giá terza in quelle province, e da una prima francese. Furono male spenti, è vero; il fuoco uscí dalle ceneri in fiammelle nel 1833 in Modena e Piemonte, ma, a spegnerle di nuovo e piú durevolmente, bastarono colá poca truppa austriaca, qua la polizia del paese; seguita poi l’una e l’altra di piú numerosi supplizi che non si fosser usati fin allora. E questo fu il culmine, o piuttosto il piú bassofondo di quella guerra, quella politica, quella storia sotterranea; fu l’epoca della maggior divisione tra governanti e governati italiani. Invece della quale, [p. 192 modifica]invece di stabilirla da principio ed accrescerla sempre piú con orrori avvicendati, se avessero saputo i governanti accostarsi ai popoli con riforme liberali; ovvero i governati ai governi, per suggerire, insistere alle riforme ed aiutandovi con mettervisi essi, non è, non può rimaner dubbio che que’ venti anni sciagurati, invece di essere di peggioramento, sarebbero stati di un miglioramento, di un principio ed aiuto qualunque a ciò che seguí.