Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni/Libro sesto/11. Continua

Da Wikisource.
11. Continua

../10. Continua ../12. Il secondo periodo della presente etá. Governo delle cittá IncludiIntestazione 15 dicembre 2023 100% Da definire

Libro sesto - 10. Continua Libro sesto - 12. Il secondo periodo della presente etá. Governo delle cittá

[p. 204 modifica]11. Continua. — Allora, naturalmente, ad accrescersi la lega lombarda, la Concordia; ad entrarvi Novara, Vercelli, Como, Asti, Tortona, parecchi signori feudali, il marchese Malaspina stesso. Non rimanevano guari piú imperiali, se non Pavia e il marchese di Monferrato. E contra questi, i confederati immaginarono edificare una fortezza; ma le fortezze di que’ tempi erano le cittá, o piuttosto i numerosi cittadini. E cosí in un piano tra Bormida e Tanaro fondarono una cittá nuova, che dal papa, loro alleato, chiamarono Alessandria; e la fortificarono e popolarono dalle terre all’intorno, in tal modo che [p. 205 modifica]dicesi armasse nell’anno quindicimila guerrieri [1168]. Poi entrarono nella Concordia nuove cittá, Ravenna, Rimini, Imola, Forlí; e allora preser il nome piú esteso di «Societá di Venezia, Lombardia, Marca e Romagna ed Alessandria». I consoli delle cittá si riunivano a parlamento ed eleggevan rettori della Societá; e si estesero i giuramenti a non far pace né tregua né compromesso coll’imperatore, ad impedire «che non scendesse esercito imperiale grosso né piccolo di qua dall’Alpi», a mantener la lega per cinquant’anni; tutto magnifico, salvo che mancarono sempre in quegli atti le due parole, in quelle menti le due idee d’«indipendenza» e d’«Italia». E queste furono le deficienze (non, come si dice dal Sismondi ed altri, quella di una repubblica federativa; perciocché una tale era giá di fatto costituita nell’assemblea de’ consoli di ogni cittá; né sei secoli appresso, durante la rivoluzione tanto piú felice degli anglo-americani, s’ebbe mai niuna assemblea confederativa piú ordinata), queste furono le deficienze che perdettero tutto, che fecero inutili poi tutti gli altri fatti di quella guerra; queste, che fecero la Societá lombarda tanto meno gloriosa ed efficace che non le leghe posteriori delle Province unite di Neerlandia o d’America; queste, che rimangono scusabili forse per l’opinione mal avanzata o piuttosto pervertita dall’antico amore all’imperio, ma deplorabili ad ogni modo da quanti italiani sentano oramai la virtú di quelle due parole od idee. — Sei anni rimase allora l’Italia senza l’imperatore, occupato nelle sue cose germaniche; né la lega progredí guari piú. Genova, che avea privilegi assicurati e che non volea concordia ma guerra colla odiata Pisa, non aderí mai; e questa guerra delle due trasse seco quella di Toscana tutta, Lucca, Siena e Pistoia con Genova, Firenze e Prato con Pisa. E niuna di queste aderí, e tutte trattarono piú o meno con Cristiano, arcivescovo di Magonza, cancelliere imperiale e capitano d’eserciti; ed Ancona sostenne uno stupendo assedio contra questo prete guerriero, ma s’accostò non alla Societá, sí all’imperator greco, e cosí ebbe contro di sé Venezia. E finalmente, nefando a dire, in uno de’ giuramenti di confederazione, di societá, di concordia, [p. 206 modifica]trovasi Cremona riserbarsi il diritto di tener distrutta la vicina ed invisa Crema. Duole nell’anima, ma cosí è. Noi non abbiamo vent’anni di storia compiutamente bella, di vera concordia in tutti i nostri secoli moderni. Il fatto è; sappiam vederlo e confessarlo una volta finalmente, per non rifarlo mai piú. Alle nazioni, come ai principi, come ad ogni uomo, l’essenziale non è non aver errato, ma risolversi a non rifare il medesimo errore. — Nel 1174 ridiscese finalmente Federigo per la quinta ed ultima volta. Non gli era aperto se non il passo di Susa, per le terre dei conti di Savoia che troppo duole trovare qui. Scendendo il Moncenisio arse Susa, a vendetta del fatto di sei anni addietro. S’avanzò ad Asti, la quale, meno devota a libertá che non la prima volta, entrò in patti e si sottopose. S’avanzò contra Alessandria; e questa, cinta di mura di terra pesta e paglia, ovvero coperta i tetti di paglia (onde il glorioso nome rimastole di Alessandria «della paglia»), si difese fortemente quattro mesi, senza soccorsi della Societá. Finalmente, adunata questa a Modena, mandò un esercito; e Federigo, levato l’assedio [1175], mosse verso quello. Ma, non assalito (forse per il solito rispetto all’imperio), entrò in trattati; ottenne, licenziando l’esercito suo, che i lombardi licenziassero il loro; e cosí egli e sua corte ebbero il passo e giunsero a Pavia. Seguirono trattati nuovi, che non condussero a conchiusione, ma che giá allentarono la Societá. E cosí passò, perdettesi il rimanente di quell’anno. — Alla primavera del seguente e gloriosissimo 1176, scese un nuovo esercito tedesco per li Grigioni e Como, in aiuto all’imperatore; ed egli, lasciando la corte in Pavia, andò di sua persona di soppiatto a raggiungerlo. Allora, i milanesi aiutati solamente delle milizie di Piacenza, e d’alcuni scelti di Verona, Brescia, Novara, Vercelli, e forse (come vantano alcune famiglie in lor tradizioni) di fuorusciti di altre cittá diroccate, uscirono alla campagna, formarono due compagnie elette nomate «della Morte» e «del Carroccio», e s’avanzarono sulla via da Milano al Lago Maggiore. S’incontrarono a Legnano, ed ivi seguí, addí 29 maggio 1176, la piú bella battaglia di nostra storia. I lombardi, vedendo avanzar l’oste straniera, si [p. 207 modifica]inginocchiarono per chiedere a Dio la vittoria, si rialzarono risoluti ad ottenerla o morire; la disputarono a lungo, l’ottener compiuta. Federigo, non gran capitano di guerra, ma grande uomo di battaglia, gran cavaliero, cadde combattendo presso al carroccio, non comparve alla fuga, arrivò solo e giá pianto a Pavia. Ma Federigo fu troppo piú gran negoziatore, grand’uomo di Stato, conobbe i tempi, cedette a proposito. Adunque mandò ambasciatori a papa Alessandro, che era stato alleato non capo della guerra: ma che doveva essere naturalmente, e tal fu ora de’ negoziati; e che potrebbe in essi accusarsi d’aver derelitta la Societá lombarda, se non fosse che due doveri sono in qualunque papa, di capo della cristianitá e di principe italiano, e che quello è primo incontrastabilmente, e lo sforza a riaccettar nella Chiesa chiunque vi vuol rientrare, sia a pro o a danno d’Italia; se non fosse del resto, che non è un cenno, non un’ombra a mostrare che le cittá lombarde o niun italiano d’allora desiderasse l’indipendenza, desiderasse piú di ciò che al fine s’ottenne; se non fosse anzi, che parecchie delle cittá si staccarono dalla Societá comune, trattarono miserabilmente, separatamente, molto piú che il papa. Il quale ad ogni modo non volle conchiuder nulla egli solo, nulla se non in Lombardia; e perciò imbarcatosi sulle navi di Venezia [1177], venne a questa, dove fu convenuto non riceverebbe l’imperatore prima che fosse conchiusa pace o tregua. E la pace non si conchiuse, sí la tregua per sei anni; e fu convenuto non si guerreggiasse intanto tra imperatore ed imperiali da una parte, e le cittá collegate dall’altra; e queste conservassero lor Societá, e non fosser richieste di giuramento; una specie di status quo. Allora Federigo, che giá era a Chioggia, entrò in Venezia; e secondo le tradizioni si prostrò a’ piedi di Alessandro, e questi glieli pose sul capo dicendo il testo «super aspidem et basiliscum»; e l’imperatore rialzandosi rispose: — «Non tibi sed Petro»; — e il papa riprese: — «Et mihi et Petro»; — fiabe forse, ma che accennano i costumi e le opinioni del tempo. Ad ogni modo furono pacificati. — Quindi il papa tornò a Roma, e pacificossi definitamente col senato; e l’imperatore, visitata Toscana e Genova, [p. 208 modifica]pel Moncenisio ritornò in Germania. Ed indi, ne’ sei anni della tregua, negoziando con parecchie cittá separatamente, ed assicurando loro cosí per ogni caso que’ tristi privilegi, che, soli in somma, eran voluti da tutti, ei le staccò. La brevitá del nostro scritto ci dispensa da tali miserandi particolari; noteremo solo il piú caratteristico. Alessandria nata dalla lega se ne staccò pur essa, fecesi privilegiare; i cittadini di lei usciron tutti, un brutto dí, dalle mura, e rientrarono a cenno, a grazia d’un commissario imperiale, lasciarono il bel nome, preser quello di Cesarea. I posteri furon piú degni, ripresero il primo. — Finalmente addí 25 giugno 1183, appressandosi a giorni il fine della tregua di Venezia, fu ultimata la pace a Costanza. Firmarono come ancor collegate Vercelli, Novara, Milano, Lodi, Bergamo, Brescia, Mantova, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Bologna, Faenza, Modena, Reggio, Parma e Piacenza, diciassette costanti; e coll’imperatore Pavia, Genova, Alba, Cremona, Como, Tortona, Asti e Cesarea. Ottennero i privilegi che avean voluti e tenuti dal tempo d’Arrigo V in qua: confermate alle cittá le regalie entro alle mura e nel distretto: solo lasciato all’imperatore il «fodero» o viatico quando scendeva; serbati i consoli senza conferma, colla sola investitura imperiale; soli lasciati all’imperatore i giudici in appello, e questi costituiti in un giudice stabile, il podestá; riconosciuto il diritto di pace e di guerra; riconosciuto quello, che avrebbe potuto esser piú utile, di serbare e rinnovare la Societá. Il trattato era dunque onorevolissimo, anche utile, anche progressivo. Ma era perduta per compiere l’indipendenza la grande occasione che la nazione era in armi contro al signore straniero. — Né l’occasione tornò mai piú per seicentosessantacinque anni. L’Italia progredí in lettere, in arti, in ogni sorta di coltura, in molte parti della civiltá, ma non nella piú essenziale, nell’indipendenza; e la nostra storia non narra quasi piú che variazioni di dipendenze. Perciò ci trattenemmo oltre al solito in questo secolo corso da Gregorio VII alla pace di Costanza, che è il piú bello di nostra bella etá. Ci rifaremo abbreviando i secoli delle discordie interne; sempre ne rimarrá abbastanza da mostrarceli troppo minori di quello, dove la concordia, non ottenuta, fu almeno nomata e tentata.